Koinonia Febbraio 2022


Il “PUNCTUM SALIENS” CHE RENDE NECESSARIO IL VATICANO II

In Koinonia 7/21 si può rileggere “La grazia del Concilio secondo Papa Giovanni - ANDARE ALLA RADICE PER NUOVE STAGIONI”. Dicevo in quel caso: “Il problema non è più cosa è stato il Vaticano II o cosa ne è ora (anche se tutto questo è importante), ma che abbia o possa avere un futuro. E il futuro è del seme non della pianta!”. Chiudevo il discorso dicendo che “se vogliamo prevedere un suo futuro, dobbiamo ritrovare la sua radice. Ma questo dipende soltanto da noi!”: se cioè diamo più valore a quanto il Concilio è stato o a quanto ha voluto essere potenzialmente nell’ispirazione di Giovanni XXIII. A quale impulso di grazia ha voluto rispondere e a quali urgenze storiche venire incontro. Da questo punto di vista la sua ragion d’essere è più che mai forte, anche se da altri punti di vista può essere ritenuto ormai esaurito nella sua spinta propulsiva. È fuori dubbio che restano più che mai vive le istanze a cui l’idea stessa di Concilio ha voluto improvvisamente accompagnarsi. Non a caso si pensa a Sinodi non come applicazione del Concilio ma come sua ripresa e come continuità: non tanto come attuazione ma come attualizzazione!

Al di là di ogni retorica, rimane valida l’immagine offerta da Papa Giovanni in un’omelia del 13 settembre 1960 durante una celebrazione di rito bizantino: “La Chiesa Cattolica non è un museo di archeologia. Essa è l'antica fontana del villaggio che dà l'acqua alle generazioni di oggi, come la diede a quelle del passato”. Ed è così che deve essere, e del resto si potrebbe dire che Papa Giovanni non ha fatto che dare credito e compimento a questa solenne affermazione di Gesù: “Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui” (Gv 7,37-39).

È in questa linea che il Vaticano II va pensato e ripensato, così come sgorga dal cuore di un credente qual è  Giovanni XXIII: non come atto dovuto di governo, né come intervento dottrinale di magistero, ma come azione ed evento pastorale di grazia. E tale egli vuole che rimanga per tutti e per sempre, a cominciare dalle commissioni preparatorie e dalle assemblee conciliari, ma anche per tutto il popolo cristiano di allora e del futuro. Il Concilio è “pastorale” fin dalla sua nascita e non per etichetta successiva: se si propone di intervenire sugli ordinamenti strutturali e sui contenuti dottrinali è solo di riflesso, rispetto all’intento di fondo di rivitalizzare la fede della chiesa in tutta la sua capacità di irradiazione evangelica.

In questo senso è ed è vissuto come convocazione universale dell’intera chiesa ad essere se stessa nel mondo e per il mondo. In apertura del radiomessaggio a tutti i fedeli cristiani ad un mese dal Concilio, l’11 settembre 1962, si fa cenno ad una “ricchezza sovrabbondante di elementi di ordine dottrinale e pastorale… di sapientissima applicazione dell’evangelico magistero di Cristo, da venti secoli luce dell’umanità redenta dal suo sangue”.

Quando si dice che il Vaticano II riposiziona la chiesa nella storia è giusto; ma forse è ancora più vero dire che esso nasce dal mondo e dalla storia così come sono vissuti e maturati nel cuore e nell’intelligenza evangelica di un Pastore della chiesa. Il mondo e la storia non vengono dopo in sovrappiù, ma sono “assunti” alla radice in quanto “umanità redenta dal sangue” di Cristo: “Che è mai infatti un Concilio Ecumenico se non il rinnovarsi di questo incontro della faccia di Gesù risorto, re glorioso ed immortale, radiante per tutta la Chiesa, a salute, a letizia e a splendore delle genti umane? <…> il Concilio Ecumenico potrà offrire, con chiaro linguaggio, soluzioni che son postulate dalla dignità dell'uomo e della sua vocazione cristiana”.

 

Sono sempre parole del radiomessaggio, che ci portano a dire che Giovanni XXIII fa da anello di congiunzione tra il deposito o riserva della fede della chiesa e il Concilio come strumento per elevarla a “luce delle genti”, in un nuova consapevolezza e responsabilità dei credenti. Ma questo è possibile in quanto egli è immerso nella più viva Tradizione e guarda ad una rinnovata chiesa storica del futuro in quanto inveramento della chiesa nella sua radicale ragion d’essere di “opera soprannaturale“ di salvezza per l’umanità tutta.

Qui si torna alla fontana del villaggio nel suo significato simbolico, davvero limpido e imprescindibile: “È naturale che il Concilio nella sua struttura dottrinale e nell'azione pastorale che promuove, voglia esprimere l'anelito dei popoli a percorrere il cammino della Provvidenza segnato a ciascuno, per cooperare nel trionfo della pace a rendere più nobile, più giusta e meritoria per tutti l'esistenza terrena”.  Non sono parole che segnano il cammino compiuto e sempre da compiere?  A conferma che questa fontana perenne l’ha incarnata Papa Giovanni, che rimane sempre fonte di acqua viva col suo spirito! Dopo possiamo anche  considerare  i diversi percorsi che questa acqua prende, ma quello che c’è da evitare è che si disperda in terreni aridi!

Da qui si arriva a quella fede che ne è la scaturigine e che porta al “punctum saliens” - il punto rilevante e “zampillante” di tutto il Concilio - che trova la sua enunciazione di merito e di metodo nel discorso di apertura del Concilio l’11 ottobre 1962, e che rimane la pietra angolare per una edificazione di chiesa fondata sulla fede, ma che esiste nel mondo e per il mondo. Sono parole maturate nel tempo, non per preoccupazioni dottrinali o per interventi disciplinari, ma attraverso un’esperienza pastorale docile e ferma, radicata nella luce del vangelo e dei segni dei tempi. Il “primato pastorale” non è per applicazioni derivate, ma è un dato di fatto e un punto di partenza, e sta a indicare un nuovo - o antico - modo di essere del Popolo di Dio nel mondo.

Questo snodo obbligato del Concilio lo si può leggere e meditare in IV di copertina, ma è chiaro che dovrebbe diventare punto di riferimento e di appoggio per quanti credono che il Concilio non si riduce alle sue enunciazioni e determinazioni di fatto, o applicazioni pratiche, se prima di tutto non si entra con passione in questa corrente e prospettiva di salvezza, credendo al vangelo: qualcosa di inesauribile che scorre come sostanza viva del credere e che non può rimanere lettera morta per una chiesa involuta, che si è via via ripiegata su se stessa, nella falsa sicurezza dei suoi cerimoniali e del suo residuo peso religioso e sociale! Ed è da qui che si deve ripartire, dallo spirito che dà vita e non dalla lettera che mortifica. Per convinzione e decisione, ma senza più remore o falsi rispetti!

Una cosa va detta con forza, per quanto poco considerata: dobbiamo sì tenere “integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica”. Ma “non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità”. Infatti - leggiamo sempre nel Discorso dell’11 ottobre - lo scopo primario non è “nel discutere alcuni dei principali temi della dottrina ecclesiastica”: l’intento non è la condanna di errori che si cancellano da sé col tempo. L’affermazione decisiva di cui tener conto è che “per intavolare soltanto simili discussioni non era necessario indire un Concilio Ecumenico”. Questo vuol dire semplicemente e indiscutibilmente che se vogliamo ridurre il Concilio a questioni simili, è come dichiararlo inutile o ridurlo a pratica oramai assolta.

È quanto in gran parte è successo e sta succedendo, per cui l’attaccamento ad un concilio materiale fa da alibi ad un concilio come compito, come ricerca, come responsabilità, come passione: in una parola  come coinvolgimento e impegno  personale , perché si tratta di vangelo anche per la modernità o post-modernità  prima che di aggiustamenti modernizzanti e progressismi di comodo. Se davvero si parla di Sinodi come ripartenza dal Vaticano II, c’è da stare molto attenti: preoccupazioni procedurali venate di populismo fanno appello alla base in ordine ad una ristrutturazione pastorale tutta da vedere. Forse però si tratta di quel genere di proposte e di soluzioni che potrebbero portare a ripetere con Giovanni XXIII: “Per intavolare simili discussioni non era necessario indire” Sinodi, che dovrebbero nascere da immersioni pastorali di fede capaci di tradursi  in intelligenza, in comunicazione, in condivisione, in “vita evangelica” meno professionale e formale e più reale. In questa avventura e per questo copione mancano i soggetti vivi, che non siano funzionari e burocrati pastorali: non basta infatti fare affidamento su soggetti ordinati, consacrati e ben organizzati (clero, religiosi e religiose, parrocchie, monasteri, conventi ecc..), se il vangelo non viene messo alla prova come potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede. Si arriva a dire che il problema non è affatto il vangelo in sé e per sé, ma la cassa di risonanza in cui viene amplificato, e che spesso è, nel linguaggio di Paolo, “un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (1Cor 13,1).

Voglio terminare questo discorso dicendo che “vangelo sine glossa” non è da intendere solo in senso letterario, ma riguarda tutto ciò che distorce e interferisce nel suo annuncio. Si può dire ancora una volta qual è il vero problema? Non il vangelo per se stesso, magari anche troppo incensato, ma la predicazione del vangelo che si disperde tra i fumi e i canti!

Alberto Bruno Simoni op

 

Postilla

“Vangelo” in realtà altro non è che annuncio o “predicazione del vangelo”: di fatto non è facile trovare segnalata la “predicazione del Vangelo” come il vero problema, anche se si parla molto di evangelizzazione, come esortazione morale, come nuova forma di catechesi o di insegnamento dottrinale, come incentivo di devozione e itinerario di spiritualità ecc. Il vangelo di Dio o del Regno come fatto assolutamente nuovo e irriducibile passa in secondo piano e perde la sua forza originaria. Sarebbe necessario non solo intronizzarlo e incensarlo… ritualmente, ma riportarlo al centro della fede, perché diventi “credere al vangelo”, al di là dei necessari studi e approfondimenti.

Quanto alla predicazione  ci può aiutare la lettera pastorale del card. Martini  “In principio la Parola”, che ho la fortuna di avere tra le mani proprio in questi giorni e di cui si riporta qualche pagina. Per quanto riguarda poi il problema “predicazione” nell’ambito dell’Ordine dei Frati Predicatori facciamo ricorso alla Lettera che Timothy Radcliffe scrisse ai domenicani quando era Maestro generale dell’Ordine. Sempre a questo proposito, nelle pagine centrali si può leggere quanto santa Caterina da Siena si è sentita  ispirata a dire riguardo a san Domenico e alla sua “navicella”.

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