Koinonia Febbraio 2022


PREDICAZIONE: FINIAMOLA CON LA NOIA

 

Paul Janowiak, basandosi sulla teologia di Semmelroth, Rahner e Schillebeeckx, fa risaltare il legame di fondo tra la proclamazione della Parola di Dio, la predicazione dell’omelia, e la consacrazione del pane e del vino. Come scrive Schillebeeckx, “tutta la celebrazione eucaristica è un servizio della Parola, e l’Eucaristia nel suo complesso è un evento sacra­mentale”. La predicazione non è solo un insegnamento riguardo al Vangelo: essa è parte integrante dell’evento. Partendo da alcune osservazioni personali, vorrei proporvi un approccio complementare.

Dobbiamo riconoscere che la predicazione non ottiene sempre l’effetto voluto: non di rado essa addormenta il popolo di Dio, o lo spinge a pregare perché il predicatore la smetta! Come possiamo elaborare delle teologie della sacramentalità della Parola, quando molte omelie sono così noiose? Non parlo soltanto delle omelie di domenicani o anche di gesuiti. Una delle definizioni della parola “predicare”, nel dizionario Webster, è: “dare un consiglio religioso o morale in modo noioso”.

La noia collegata alla predicazione è stata una sfida per il popolo di Dio fin dagli inizi. San Paolo stesso poteva parlare con un tono così monotono che, ascoltandolo, Eutiche si addormentò e ne morì. Una consolazione nei momenti di dubbio! Cesare d’Arles predicava raramente, ma quando succedeva, bisognava chiudere a chiave le porte per impedire ai fedeli di sottrarsi al supplizio. Anch’io ho chiesto che si chiudessero le porte di questa sala, stamani, ma gli organizzatori hanno rifiutato! John Donne, predicatore e poeta anglicano, affermava che le prediche dei Puritani erano tanto lunghe perché essi aspettavano il risveglio dell’assemblea.

Tutta la storia della Chiesa è punteggiata da gravi crisi relative alla predicazione. I domenicani, come i gesuiti, sono stati fondati per reagire a crisi di questo genere. Il XIII e il XVI sec. sono stati periodi dì trasformazione sociale profonda che hanno visto emergere nuovi modi di essere, nuovi problemi, nuove aspirazioni: il predicatore ha dovuto adattarvisi.

Oggi siamo davanti ad una nuova crisi. Semmelroth, Rahner e Schille­beeckx hanno delle bellissime teologie della sacramentalità della Parola, ma dobbiamo riconoscere che le nostre parole non toccano sempre i cuori di quelli che ci ascoltano in quest’inizio del XXI secolo.

Perché questo, e che dobbiamo fare? Domenico e Ignazio hanno reagito fondando nuovi Ordini religiosi. Rassicuratevi: non vi proporrò di fondarne uno nuovo! Proverò a rispondere alla domanda prendendo in considerazione la Cena, l’ultimo pasto del Cristo. Quale fu la sua dinamica? Perché fu un evento trasformatore? Cosa vogliamo dire affermando che la parola predicata è portatrice della stessa forza e dello stesso dinamismo? Come commuovere i nostri contempo­ranei? Che cosa può ostacolare, oggi, l’ascolto della Parola?

In quell’ultimo pasto del Cristo, ci sono tre momenti dei quali dovremmo trovare l’eco nella predicazione della Chiesa: 1) Gesù avvicina i suoi discepoli nelle loro difficoltà e nei loro smarrimenti personali. 2) Li riunisce in comunità. 3) Apre questa comunità alla pienezza del Regno. Questi tre momenti fanno della Cena un evento che trasforma, un “happening”. Dobbiamo ritrovare questa dinamica nella predicazione della Chiesa, se vogliamo che la sua Parola sia sacramentale. Se no, avremo una bellissima teologia della predicazione, ma una predicazione morta.

Cominciare dal silenzio

Possiamo fingere di credere che il popolo di Dio riunito per l’Eucaristia sia una comunità viva, unita, desiderosa di ascoltare la predicazione del Vangelo. La realtà è un’altra. La cultura occidentale è diventata molto individualista. Le parrocchie non coincidono con delle comunità naturali, soprattutto nelle grandi città: le persone riunite per l’Eucaristia non si conoscono e non sentono un gran desiderio di conoscersi. In un mondo sempre più secolarizzato, le parole del Vangelo e l’insegnamento della Chiesa sono spesso incom­prensibili. Per tutto questo, la parrocchia attuale assomiglia alla comunità dei discepoli riuniti intorno a Gesù, la sera della Cena.

I discepoli sono turbati e inter­rogano Gesù: “Signore, perché mi lavi i piedi?”, “Signore, dove vai?”, “Mostraci il Padre e saremo contenti”. Dicono fra loro: “Non sappiamo cosa vuol dire” (Gv 16,18). Di cosa parla? In più, i discepoli sono profondamente divisi; la loro comunità sta per sciogliersi: Giuda ha già venduto Gesù; Pietro lo rinnegherà fra qualche ora; la maggior parte degli altri fuggirà. In mezzo a loro, Gesù affronta tutto ciò che divide e distrugge la comunità umana: la paura, la cupidigia, l’odio, la sofferenza, la morte. Non è una bella comunità!

Karl Barth parla del grande Sì, al cuore della musica di Mozart, e dice che esso trae la sua forza dal fatto che contiene e domina un No. Si può dire la stessa cosa dell’ultima Cena. La forza della nuova alleanza che Gesù fa intervenire quella sera, si trova proprio nel fatto che essa abbraccia tutto quello che la contraddice, il grande No dell’umanità a Dio. Si tratta dunque di una storia che tiene conto di tutti i nostri turbamenti e le nostre incomprensioni nei riguardi di Gesù, tutto ciò che divide la comunità umana, tutto il peccato e i fallimenti che deturpano le nostre vite normali. In quell’istante, il SI di Dio abbraccia e riconosce ogni possibile No.

Così, anche noi dobbiamo accettare la sfida di scoprire e di affrontare il No della società nella quale dobbiamo parlare. Per i domenicani, nella nuova società urbana e democratica del XIII sec., la predicazione doveva uscire dai monasteri e dalle cattedrali. Si doveva portare la parola nelle università e sui mercati, abbandonare la protezione del chiostro e dividere la vita con la gente. Il Beato Giordano di Rivalto, uno dei primi domenicani, diceva che non ci si doveva lamentare troppo del compor­tamento dei giovani frati: “Stando nel mondo, è impossibile per loro non sporcarsi un po’. Sono uomini di carne e di sangue come voi, e nella freschezza della loro gioventù”. Ed essere predicatore presuppone una certa solidarietà con i peccatori. Umberto di Romans, poi, diceva che era proprio questo il vantaggio della vocazione di predicatore!

Nel XVI sec. la crisi che contribuì alla fondazione della Compagnia di Gesù, era dovuta alla sclerosi scolastica. Le Costituzioni della Compagnia ordinano che la predicazione si guardi dallo stile scolastico e non sia né “arida”, né “teorica”. In altre parole: “Non predicate come i domenicani!”. Serviva una forma nuova di predicazione, capace di portare alla conversione del cuore. Nel nome stesso di “Compagnia di Gesù” si è concretizzato un modo nuovo di concepire il nostro rapporto con Gesù. La predicazione si adattava all’emergere dell’individuo, di cui sarà un bell’esempio quel prodotto dell’educazione gesuita che fu Descartes. Ignazio, infatti, mandava i suoi compagni “incontro ad ogni singolo individuo”, “entrando dalla loro porta, per poi uscire dalla nostra”. Uscire, andare a “pescare”, parlare con la gente, rispondere alle sue domande. Alla sequela di Domenico e di Ignazio, dobbiamo cominciare da ciò che separa dal Vangelo. Partire accogliendo il No, l’incompren­sione, prima di predicare il Sì.

Come può la nostra predicazione tener conto dei dubbi e dei problemi della nostra generazione e nello stesso tempo offrire una parola forte? La cultura mondiale dei consumi, cultura di mercato, esercita un’influenza molto più radicale e universale di quanto i fondatori dei nostri Ordini hanno dovuto affrontare. Il trionfo di quest’ordine culturale ed economico è tale che nessuno, o quasi, può sfuggirvi. Esso ha pervertito quasi tutte le culture locali. Corrompe gli spiriti e i cuori delle nostre comunità cristiane. Colpisce noi, predicatori, uomini e donne del nostro tempo. Non dico che questo sia peggiore di ciò che c’era prima.

Non voglio prendermela con la modernità. Ma la cancellazione della cultura cristiana ci obbliga a farci carico in modo radicale dei dubbi, delle domande e dei fallimenti dei nostri contemporanei. La tentazione del predicatore sta nel credere di conoscere le risposte fin dall’inizio e di elargire la ricchezza delle sue conoscenze e della sua perizia. Dobbiamo resistere a questa tentazione. Dobbiamo ricono­scerci come i discepoli intorno alla tavola dell’Ultima Cena, imbarazzati, confusi e inquieti per quello che sta succedendo. Dobbiamo lasciare che il Vangelo ci riduca al silenzio, resistendo al nostro istinto di possederlo. Dobbiamo mendicare un’illuminazione, dobbiamo diventare mendicanti di una parola. La nostra sarà forse una predica qualunque. La maggior parte di noi ha cinque o sei temi che si adattano a un sermone su qualsiasi testo del Vangelo. Ma quello stesso vecchio sermone diventerà un dono, con un tocco di sorpresa e di freschezza.

Tutti i Vangeli cominciano col silenzio: Luca col silenzio stupito di Zaccaria; Matteo col silenzio inter­rogativo di Giuseppe; Marco col silenzio del deserto, e Giovanni con quel silenzio originario da cui nasce la Pa­rola. Anche il nostro annuncio della Buo­na Novella deve cominciare con il silenzio. <...>

 

Timothy Radcliffe op

Da Etudes, gennaio 2003

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