Koinonia Febbraio 2022


Dalla lezione del Card. Lercaro su Papa Giovanni XXIII

 

LINEE PER UNA RICERCA

 

<....> Le basi della cultura di Angelo Roncalli erano solidamente poste da molti anni. Con un lavoro metodico di ricostruzione del suo processo formativo e con un’analisi attenta specialmente dei suoi discorsi più originali, quelle basi possono essere messe in evidenza e possono quindi offrire il punto di appoggio per chiunque voglia consapevolmente riattaccarsi a lui, coglierne la sintesi e individuare le motivazioni profonde dei suoi grandi giudizi e delle sue indicazioni primarie, per riprenderle e prolungarle nella situazione storica in sviluppo.

Ed ora possiamo finalmente affrontare il fatto nuovo che si è verificato in lui al momento della sua elezione: la somma di convinzioni e di virtù che costituivano tutto il suo mondo interiore di cristiano e di sacerdote, il suo grande amore di Dio e degli uomini,  certo la nuova luce e il nuovo fuoco di Spirito santo che si impossessò di lui in quell’istante, i bisogni e le possibilità da lungo tempo conosciute e quelle in un baleno da lui intraviste nella chiesa e nella umanità intera, tutto concorse ad un unico effetto ad una risoluzione del tutto coerente: la decisione elementarissima e semplicissima, eppure imprevedibile e imprevista dai più, la decisione di voler essere maestro e guida di tutti gli uomini, dal momento che Dio lo aveva voluto successore di Pietro e che quindi ormai gli dava, a lui che aveva sempre obbedito, l’obbedienza di comandare e di pascere gli altri, cioè tutti gli uomini.

A mio avviso non si è posto abbastanza attenzione, nel riflettere su di lui, alla formalità e categoricità di questa sua decisione: tutto in lui continuando come prima, soprattutto per quel che riguarda il suo proposito fondamentale di umiltà, di mitezza, di distacco, di semplicità, egli ha ancora una volta impedito ai più di penetrare la sua anima e di cogliere accanto all’antico il nuovo, o meglio il tradursi dell’antico in un nuovo sviluppo coerente e, per quanto dissimulato con la più grande naturalezza, tuttavia assoluto vigoroso come tutto in lui; cioè il proposito di ubbidire sino in fondo a Dio, che voleva che ormai egli comandasse e insegnasse.

Così non ci si è accorti e in larghissima misura non ci si accorge neppure ora, che quest’uomo, giudicato da tutti senza grande cultura e senza grande esperienza, dal momento che è divenuto papa, ha voluto col massimo grado di lucida intenzionalità, farsi davvero pastore e dottore universale.

Chi esalta la sua virtù e contempla la sua santità, se non si è accorto di questo e se non accetta in lui questo sino alle estreme conseguenze, ammira una santità immaginaria che potrà forse essere di altri ma non è quella reale di papa Giovanni XXIII.

Giovanni XXIII è il papa che, sin dalle prime parole con le quali ha accettato la elezione, ha così definito in anticipo la sua opera come quella destinata a “preparare al Signore un popolo perfetto, raddrizzare i suoi sentieri affinché le vie storte si raddrizzino e quelle aspre divengano piane, affinché ogni uomo veda la salute di Dio” [Lc. 3,4-6].

Ora bisognerebbe seguire passo per passo tutte le parole e tutti gli atti del pontificato per cogliere in esse la progressione incessante e l’enuclearsi concreto di questo proposito fondamentale di raddrizzare le vie storte e appianare le aspre perché ogni uomo veda la salute di Dio.

Non è il mio compito ora, ma io sono profondamente convinto che è possibile ritrovare in moltissimi discorsi di papa Giovanni, anche sotto le apparenze più elementari, fortissime tesi teologiche e storiche e che è possibile, attraverso di esse, ricostruire una vasta sintesi a un tempo semplice e concretissima, più originale, più personale, più giovane di quello che non siano le stesse due maggiori encicliche Mater et magistra e Pacem in terris: una sintesi che veramente investe tutta la chiesa nei suoi aspetti più essenziali, dottrinali e istituzionali, che investe tutta la grande problematica umana del nostro tempo. Ma tutto con così grande spontaneità e talmente senza posa che se non si presta un’attenzione  vigile e se non ci si pone in un atteggiamento profondo di disponibilità reale, tutto sfugge e non ci si accorge assolutamente di nulla. Eppure, nonostante ogni nostra disattenzione e ogni nostro rifiuto, egli non ha rinunziato mai nemmeno per un momento alla pretesa di insegnare, in base alla convinzione espressa nel primo anniversario dell’elezione: «È su questa nave che si dirige la vita e la storia del mondo: è su questa continuazione di luce, di forza e di grazia che si perenna tutto ciò che, anche da un punto di vista semplicemente umano, è irradiazione di scienza, di progresso, di verace civiltà cristiana (DMC 1, p. 505).

Se egli non avesse avuto in grado eccezionale questa convinzione e questa pretesa di dovere essere e di potere essere il dottore universale, come avrebbe potuto osare di convocare dopo cento anni un nuovo concilio, a meno di tre mesi dalla sua elezione? Chi al posto suo, per quanto sicuro fosse della bontà della cosa, non avrebbe piuttosto pensato di doverci riflettere ancora, almeno fino a quando non avesse potuto rendersi meglio conto dello stato reale della chiesa e delle possibili conseguenze di una decisione tanto capitale e insolita?

Non si riflette abbastanza che già per sé questo solo confronto di date pone in termini stringenti un dilemma tremendo:

- o papa Giovanni è stato un precipitoso temerario, la cui incultura e inesperienza arrivava al paradosso: e allora non sarebbe più possibile parlare seriamente di una sua santità, perché un solo fatto di questa dimensione investirebbe negativamente tutta la sua personalità spirituale e religiosa, distruggerebbe tutto il castello delle sue supposte virtù morali e teologali;

- o veramente papa Giovanni ha fatto questo con un’audacia calcolata, che pur non potendo ovviamente prevedere tutti i dettagli e neppure i contenuti materiali di certi sviluppi futuri, però sostanzialmente coglieva i nodi teologici e storici della situazione ecclesiale e dell’arco del suo pontificato: e allora bisogna ammettere che egli era conscio di poter contare non solo sulla sincerità della ispirazione che lo muoveva, ma anche sulla fondatezza di alcune sue tesi di dottrina e di alcuni suoi giudizi storici come capaci di mediare sul terreno concreto e istituzionale i giganteschi problemi che la sua decisione coinvolgeva.

Ora se le cose stanno, come io ritengo, per questo secondo corno del dilemma, ne vengono due conseguenze, delle quali dobbiamo divenire sempre più consapevoli.

Anzitutto che la somma di tesi e di giudizi costituenti il suo insegnamento - in grado eminente ricapitolate dalla sua decisione di convocare il concilio, e di attribuirgli quel fine che egli ha ripetutamente ribadito - fa corpo con la sua stessa personalità spirituale e religiosa, è la dimensione reale e concreta della sua effettiva santità: la santità di un papa che ha voluto farsi dottore universale non solo di nome e di diritto, ma anche di fatto. O egli, per così dire, è un santo dottore, o non è nulla.

In secondo luogo noi non possiamo continuare a parlare di ciò che lo ha reso venerabile ed amabile a così grande parte degli uomini, senza che ci riproponiamo seriamente e continuamente il problema se noi stiamo seguendo e applicando la sua visione concreta di quel che è necessario oggi agli uomini perché «vedano la salute di Dio».

Qualcuno dirà che per quel che riguarda il problema dell’adesione e della fedeltà della chiesa cattolica al magistero giovanneo, la risposta è già evidente in senso affermativo: lo dimostra il concilio e quel che il concilio ha già realizzato.

Anzi qualcuno potrebbe addirittura incalzare osservando che in fondo il concilio, nelle sue tre sessioni concluse più la prossima, è già andato e andrà molto più avanti di quel che papa Giovanni immaginava: se è vero, come è vero, che alla fine della prima sessione egli sperava di terminare tutto nella seconda.

Direi che questo è il nodo di tutte le valutazioni intorno a Giovanni XXIII e che qui si può incorrere nel punto morto al quale alludevo all’inizio del mio discorso.

Io non sarei così sicuro che tutto quello che papa Giovanni effettivamente si aspettava dal concilio e in genere auspicava come il compito storico e religioso della nostra generazione sia stato già realizzato o sia del tutto prossimo a realizzarsi o che almeno sia ormai avviato verso un progressivo dispiegamento, senza possibilità di riversioni, di interruzioni, di parziali contraddizioni. Se mi sono sforzato di accennare alcuni preliminarissimi spunti di impostazione e di metodo per un secondo tempo della storiografia giovannea, è proprio perché si faccia un inventario più sistematico più stringente di tutto il patrimonio che egli ci ha lasciato in tema di premesse dottrinali, di pluralismo teologico, di ordine di priorità tra le verità cristiane, di visione teologica della storia, di concezione ecclesiologica, di ecumenismo, di riforme interne delle strutture ecclesiastiche, di rinnovamento sacerdotale, di vita religiosa, di rapporti tra la chiesa e gli stati, di non intervento della gerarchia nella politica, ecc. Un simile inventario in verità ancora non si è incominciato a fare: noi suoi figli ci siamo guardati attorno per così dire presso il suo letto di morte e abbiamo solo colto qualche oggetto qua e là tra i più in mostra, ma una ricerca accurata dovunque come di solito sanno fare gli eredi non abbiamo ancora incominciato e forse neppure voluto farla sino in fondo.

Non possiamo differire troppo. E in verità mi sembrerebbe doveroso che questa ricerca più meditata ed esauriente fosse, almeno in via preliminare, iniziata prima che il concilio si chiuda. Se anche soltanto una parte delle osservazioni da me sviluppate sono vere o probabili, esse offrono dei motivi manifesti, a favore della necessità e dell’urgenza.

Mi sia consentito di fermarmi su una considerazione sola fra le tante: il raffronto che si può fare fra il programma conciliare di papa Giovanni e i risultati effettivi già raggiunti dal concilio, può essere ambivalente.

C’è indubbiamente un senso in cui si potrebbero cogliere da frasi e da pensieri del papa l’impressione che il concilio sia stato sin dall’inizio e continui a svilupparsi come una realtà molto più grande di quella che egli non immaginasse: secondo questo senso l’impulso dato da papa Giovanni sarebbe stato ormai tutto accolto e perciò anche tutto esaurito, e non ci sarebbe da richiamarsi a lui se non per compiacersi di avere già realizzato quel che egli auspicava e forse ancora di più. Ma io ho il grave sospetto che questo senso sia un senso molto materiale che si arresta al contenuto più immediato e grossolano di parole secondarie del papa e alle sue previsioni parziali e meno essenziali, meno originali e più esterne.

Se, invece, si cerca di andare oltre la lettera dei frammenti e si cerca di ricostruire - come con insistenza auspichiamo - le linee maestre del pensiero e delle risoluzioni più generali e più originali di Giovanni XXIII, se si individuano - come riteniamo possibile - le sue tesi maggiori ecclesiologiche e storiche e se da esse si cerca di cogliere la sintesi globale del suo insegnamento, allora vi può essere un senso, in definitiva più sicuro e rigoroso, in cui è possibile dire che siamo nonostante tutto solo agli inizi e che l’impulso che papa Giovanni ha saputo e voluto dare non è ancora stato accolto tutto e neppure nella più grande parte, e che pertanto il compito che egli ci ha lasciato e le possibilità che egli ci ha additato sono, a due anni dalla sua morte, tutt’altro che esaurite.

In questo senso lo stesso concilio non ha mosso che i primi passi e ciò che esso ha fatto se è davvero irriversibile nell’ordine per così dire dello spirito e dei grandi indirizzi astratti, non è neppure ancora un avvio immediato nell’ordine invece delle conseguenze concrete e delle applicazioni istituzionali.

I documenti principali sinora approvati dal concilio (se si eccettua sempre la costituzione sulla Liturgia) si muovono ancora sul piano dei presupposti dottrinali, certo in sé importantissimi,

• di una potenzialità senza limiti, ma bisognosi di altre decisioni responsabili e soprattutto di alcune difficili e costose opzioni dirimenti perché quella potenzialità possa incomínciare a passare in atto e perché in ogni caso siano evitati degli arresti o delle involuzioni, sia pure non definitive, al processo di sviluppo. Che questo processo di sviluppo sia arduo, delicato e complesso.

• che, in un certo senso, ci possa essere, in un’epoca di rinnovamento, anche il pericolo di rinnovamenti intempestivi e convulsi, che più che orientare disorientano, è certo e va giustamente sempre tenuto presente. Ma quel che mi sembrerebbe ora necessario non è tanto che si realizzi tutto e tutto in un tratto, ma almeno che intanto si sappia.

• si dica con grande limpidità e forza quali erano i punti veramente vitali dell’insegnamento e del programma di colui al quale la Provvidenza ha indubbiamente affidato il compito di essere il dottore massimo della chiesa nella nuova età che egli stesso ha aperto. Questo pur nel doveroso gradualismo delle realizzazioni pratiche, consentirà di mettere a fondamento di tutto un atto di grande sincerità religiosa e di grande saggezza storica: il sapere appunto che un compito appena iniziato non è ancora esaurito.

L’accertamento di cui sinora ho parlato e la pregiudiziale che esso pone a tutto lo sforzo costruttivo della nostra generazione, dovrà essere lasciato solo alla ricerca per così dire privata dei singoli studiosi della personalità e dell’opera di Giovanni XXIII, oppure dovrà in qualche modo ricevere un avvio e quasi una legittimazione qualificatrice e orientatrice da parte responsabile e da chi?

È questo l’ultimo e più delicato di tutti i problemi che quest’oggi ci possiamo porre: rispetto ad esso ciascuno di noi - intendo in questo momento di noi costituiti vescovi e pastori della chiesa di Dio - può avere una sua convinzione che esige però di essere manifestata esclusivamente nelle forme più adeguate e nella sede più propria.

Quindi quanto sto per dire non va preso neppure come un’opinione personale, ma soltanto come la pura rilevazione ancora impersonale di un dato esterno oggettivo, che del resto è notorio. È notorio che dapprima qualche voce isolata e poi, specialmente nell’ultima sessione del concilio, molte voci, se pure ancora in modo informale, hanno accennato alla possibilità che la Suprema Potestà della chiesa si esprima sulla santità di Giovanni XXIII e che più precisamente questo la Suprema Potestà faccia con procedura, oggi straordinaria, ma un tempo ordinaria, proprio nel concilio ecumenico, quasi a conclusione logica e coerente di tutta l’opera del concilio.

Il problema non è stato ancora formalmente posto, può darsi anche che non si ponga e comunque non è ovviamente questo il momento per prendere posizione su di esso.

Tuttavia, ci sono almeno due semplicissime cose che anche in questa sede possono essere dette e proprio quasi a modo di riepilogo di questa mia conversazione per così dire metodologica.

La prima è che sul piano agiografico, ovviamente, una decisione solenne della chiesa sarebbe per eccellenza un fatto nuovo (come dicevamo all’inizio) capace di fare compiere un salto qualitativo alla riflessione sulla personalità spirituale e religiosa di Giovanni XXIII: la stessa pubblicazione già avvenuta del suo Diario e tutto quello che ancora si potrebbe fare per ricostruire la sua figura esemplare riceverebbero così la loro qualificazione orientatrice e la loro chiave interpretativa più valida.

 

La seconda osservazione è che una pronunzia per così dire straordinaria, conciliare, e perciò tanto più rapida del normale, per non essere ambigua, dovrebbe in ogni caso essere impostata non su una base sentimentale o devozionale.

Vi può essere, infatti, un modo di caldeggiare quell’eventualità che penso incontrerebbe giustamente molte obiezioni: si potrebbe fondatamente temere che la proposta non fosse sufficientemente meditata e pura da stati emozionali, da un certo gusto rettorico, e persino da un certo conformismo pietistico e quasi da un esibizionismo mondano.

Ma vi potrebbero essere anche altri modi del tutto diversi e, a parte ogni considerazione di merito, pregiudizialmente garantiti contro quei pericoli: e questo sarebbe quando appunto il problema non fosse limitato a un omaggio devoto per le virtù più immediatamente suggestive di papa Giovanni, ma venisse impostato (come del resto non può non essere) in modo globale, investendo l’inscindibile unità della sua personalità religiosa e della sua opera di magistero. Allora si porrebbe come un giudizio dottrinale del concilio sullo stesso piano e nel logico sviluppo di tutto il resto dell’opera propriamente conciliare. Cioè dovrebbe essere il concilio che, per la logica interna dello sviluppo delle proprie risoluzioni per il rinnovamento della chiesa, perverrebbe quasi senza esserselo proposto a riconoscere in una simile pronunzia il necessario coronamento di tutte le decisioni già prese nel quadro di un contesto ecclesiale e storico in cui la persona e l’insegnamento di papa Giovanni apparisse in fondo non solo il punto di partenza ma in certo modo l’oggetto stesso del Vaticano II. In tal caso l’ultima sanzione e le necessaria garanzia dell’effettiva ricezione nella vita della chiesa delle decisioni conciliari sarebbe la proclamazione della santità di Giovanni XXIII: ma non solo come santità esemplare (come quella di altri santi) ma come santità programmatica di una nuova età della chiesa, individuata nel santo pastore, dottore e profeta riconosciuto come anticipatore di essa.

La stessa eccezionalità della procedura e l’omissione degli accertamenti analitici (nella prassi solo da alcuni secoli) per l’esame della virtù dei servi di Dio, si giustificherebbe pienamente, anzi sarebbe un’esigenza intrinseca perché si tratterebbe sempre dell’unico e medesimo oggetto affrontato dal concilio negli altri suoi supremi giudizi di magistero autentico.

 

Card. Giacomo Lercaro

Roma, 23 febbraio 1965

.