Koinonia Febbraio 2022


GEREMIA, UN PROFETA ANCHE PER NOI (I)

 

Parte prima: Quando non c’è più rimedio

 

“Maledetto il giorno in cui nacqui; / il giorno in cui mia madre mi diede alla luce / non sia mai benedetto. / Maledetto l’uomo che portò a mio padre il lieto annuncio: / ‘Ti è nato un figlio maschio’” (Ger 20,14-15). Si può essere più ingrati di così? Eppure non si può che partire da qui, dallo scandalo, per comprendere quanto di più prezioso ha Geremia da dirci. È scandaloso quello che dice e fa quest’uomo, come sarà del resto scandaloso quello che dirà e farà lo stesso Gesù di Nazaret. Tanto da poter dire che Geremia è forse il profeta che più assomiglia a Gesù, che ha patito un dolore e una solitudine molto simili a quelli patiti da Gesù. Se ci sono passaggi nella vita del Cristo, che agli evangelisti hanno fatto venire in mente i canti del Servo di Yhwh, è pure vero, come dicono alcuni, che l’autore del Deutero-Isaia aveva certamente in mente la vicenda di Geremia scrivendoli. A Geremia che dice: “E io, come un agnello mansueto che viene portato al macello” (Ger 11,19), farà eco il quarto canto del Servo: “Maltrattato, si lasciò umiliare / e non aprì la sua bocca; / era come agnello condotto al macello” (Is 53,7).

Di Geremia conosciamo parecchie cose, sia del quadro storico in cui si trova a vivere che della sua stessa vita. Il libro che lo riguarda, oltre a essere il più lungo di tutta la Bibbia, è anche tra i più complessi ed elaborati, frutto di molte riprese, di molto lavoro redazionale.

Come il re Saul, anche Geremia apparteneva alla tribù di Beniamino, la più piccola, e quella che alla fine ebbe la peggio, toccandogli un territorio arido, senza alberi, senza frutta. Anatot poi, la città in cui nacque e crebbe Geremia, situata a qualche chilometro da Gerusalemme, era gravata da una sorte ancora peggiore, quella che ai suoi sacerdoti era persino vietato da tempo di officiare nel Tempio di Gerusalemme: e Geremia nascerà con la maledizione di essere figlio di un sacerdote di Anatot. Si dice che fosse un giovane buono e allegro, pieno di attenzioni verso gli altri, desideroso di appartenere alla sua comunità, di trovarvi un ruolo dignitoso, di sentirsi amato dai conoscenti e dagli amici.

Nato, grosso modo, attorno al 650 (a.C.), a 23 anni gli capitò qualcosa che cambierà radicalmente la sua vita, qualcosa a cui mai aveva pensato e che mai avrebbe forse voluto: la vocazione profetica. Lo racconta egli stesso: “Mi fu rivolta la parola del Signore: ‘Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, / prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; / ti ho stabilito profeta delle nazioni’. / Risposi: ‘Ahimè, Signore Dio! / Ecco io non so parlare, perché sono giovane’”. Niente da fare. “Il Signore stese la mano / e mi toccò la bocca, / e il Signore mi disse: / ‘Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca. / Vedi, oggi ti do autorità / sopra le nazioni e sopra i regni / per sradicare e demolire, / per distruggere e abbattere, / per edificare e piantare’” (Ger 1,5-6. 9-10). Un demolitore dunque, ma anche un costruttore. Forse più demolitore che costruttore.

Ed ecco la prima visione: “Mi fu rivolta questa parola del Signore: ‘Che cosa vedi, Geremia?’. Risposi: ‘Vedo un ramo di mandorlo’. Il Signore soggiunse: ‘Hai visto bene, perché io vigilo sulla mia parola per realizzarla’.

Quindi mi fu rivolta di nuovo questa parola del Signore: ‘Che cosa vedi?’. Risposi: ‘Vedo una pentola bollente, la cui bocca è inclinata da settentrione’”. Sono immagini che per Geremia assumono un significato preciso e sconvolgente, il Signore gli sta dicendo: “Dal settentrione piomberà la sventura / su tutti gli abitanti della terra” (Ger 1,11-14).

Ma qual è lo scenario storico in cui Geremia si trova a vivere? C’era già stata la grande divisione tra il regno del nord, Israele, con capitale Samaria, e il regno del sud, Giuda, con capitale Gerusalemme. E c’era già stata anche l’occupazione del regno del nord, la distruzione di Samaria e la deportazione da parte degli Assiri (720 a.C.):

Giuda invece, stava vivendo un periodo di prosperità e di tranquillità sotto il regno di Giosia (640-609 a.C.), il re della grande riforma. Egli “fece ciò che è retto agli occhi del Signore, seguendo in tutto la via di Davide, suo padre, senza deviare né a destra né a sinistra”. Durante i lavori nel Tempio, viene addirittura ritrovato “il libro della legge”, che sarebbe poi in buona parte il Deuteronomio così come anche noi lo conosciamo, e che diventerà punto di riferimento decisivo per la grande riforma del culto e della vita sociale: si ricomincia la celebrazione della Pasqua come “non era mai stata celebrata dal tempo dei giudici che governarono Israele”, e si faranno “scomparire anche i negromanti, gli indovini, i terafim, gli idoli e tutti gli obbrobri che erano comparsi nella terra di Giuda e a Gerusalemme” (2Re 22,2-8; 23,13-24). Viene insomma fatto un repulisti generale, vengono risvegliate speranze antiche, e tutto sembra proseguire per il meglio. Ed è forse per questo che Geremia non viene capito. C’è un benessere e una tranquillità che accecano: “Ti parlai al tempo della tua prosperità, / ma tu dicesti: ‘Non voglio ascoltare’” (Ger 22,21).

Geremia ne soffre e arriverà a lamentarsi anche con Dio: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; / mi hai fatto violenza e hai prevalso. / Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno; / ognuno si fa beffe di me. / Quando parlo, devo che gridare, / devo urlare: ‘Violenza! Oppressione!’” (Ger 20,7-8). E così tutti gli si scagliano contro, anche gli amici più cari. “Me infelice, madre mia! Mi hai partorito / … tutti mi maledicono / ... il mio dolore è senza fine” (Ger 15,10.18). “Essi mi dicono: / ‘Dov’è la parola del Signore? / Si compia finalmente!” (Ger 17,15).

Perché questo è davvero scandaloso agli occhi di tutti: quel che annuncia Geremia non solo non si avvera, ma meno male che non si avvera. Hai voglia a dire: “Non ascoltate le parole dei i profeti che profetizzano per voi; essi vi fanno vaneggiare, vi annunciano fantasie del loro cuore, non quanto viene dalla bocca del Signore”. Il fatto è che costoro dicono quel che piace udire: “‘Avrete la pace! / … / , non vi coglierà la sventura!’” (Ger 23,16-18). Chi ascolteremmo noi, quelli che ci dicono: tranquilli, ce la faremo, tutto andrà per il meglio; oppure chi ci dice: “Ecco la tempesta del Signore, / il suo furore si scatena; / una tempesta travolgente / turbina sul capo dei malvagi”? Soltanto “alla fine dei giorni”, non prima, comprenderemo tutto questo “pienamente!” (Ger 23,19-20).

Geremia sa da quel rametto di mandorlo che ha visto, che Dio veglia sulla propria parola, e  che prima o poi farà accadere le cose che in essa ha annunciato. Certo, passerà l’intera vita umana del profeta prima che tutto si realizzi, per questo a lui toccherà di tenere duro, essere come un “muro di bronzo” (Ger 1,18), di fronte a coloro che continuano a vivere come se nulla fosse, disprezzandolo, spingendolo alla solitudine, al carcere, all’umiliazione e alla morte, anziché ascoltarlo. Non fa male a una mosca Geremia, sono soltanto le parole di sventura che gli mette in bocca il suo Dio a tirargli addosso tanto odio, a cominciare dalle angherie degli abitanti di Anatot, da quelli della sua casa dunque. Ed è certo che non stava parlando a cuor leggero: quelle visioni, quelle parole che Dio gli metteva nella bocca e nel cuore, gli procuravano sofferenze indicibili. Egli ha fitte di dolore dentro ascoltandole, ma non può che annunciarle a sua volta: “Le mie viscere, le mie viscere! Sono straziato. / Mi scoppia il cuore in petto, mi batte forte” (Ger 4,19).

Geremia cerca di sfuggire da quell’impulso profetico, ma non ci riesce: c’è un “fuoco ardente” che gli penetra nel cuore e nelle ossa. Fa di tutto per contenerlo, arginarlo, ma non può: è troppo grande la forza di Dio che porta dentro (Ger 20,9). Giunge persino a lamentarsi con Dio: va bene, farò come tu dici, ma mi devi spiegare una cosa: “Perché la via degli empi prospera? / Perché tutti i traditori sono tranquilli?” (Ger 12,1). Nell’umanità credente iniziano a sprigionarsi con Geremia domande a Dio che restano senza risposta. Domande che continueranno a vivere con il libro di Giobbe, con i Salmi, fino al grido del Golgota e agli orrori di Auschwitz.

Geremia è un profeta che cerca con tutte le sue forze di dire la verità in un tempo di falsità. Elie Wiesel fa notare che la parola “falsità” appare 72 volte in tutta la letteratura biblica e di queste la metà sono nel libro di Geremia. Isaia visse prima della catastrofe, Ezechiele riuscì a schivarla essendo andato a Babilonia con la prima deportazione, Geremia invece vivrà il dolore della catastrofe fino al collo. Tra tutti i profeti soltanto lui predisse la catastrofe, la subì in prima persona e sopravvisse per raccontarla.

Geremia copre infatti, con la sua attività profetica, più di quarant’anni di storia, anni nei quali vede inghiottiti dalla catastrofe ben cinque re, da Giosia a Sedecia, anni dei quali gli toccherà passarne venti in galera e dieci nella clandestinità.

C’è un momento nel quale Dio decide “di edificare e di piantare” (Ger 18,9): “Se questa nazione, contro la quale avevo parlato, si converte dalla sua malvagità, io mi pento del male che avevo pensato di farle” (Ger 18,8).

Però, ed è il secondo Libro delle Cronache a dircelo, ci sono anche momenti in cui il precipitare delle cose è inevitabile davanti agli occhi di Dio. “Tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà … Il Signore, Dio dei loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio” (2Cr 36,14-16). “Il mantice soffia con forza”, il fuoco divampa, il piombo si consuma, ma tutto è vano: inutile “raffinarlo a ogni costo” quando “le scorie non si separano” (Ger 6,29-30). Il coraggio del pessimismo più radicale può soltanto manifestarsi in coloro la cui fede e speranza regge al di là di tutto, avendo il proprio cuore rivolto a Dio e a Dio soltanto. Se il profeta è dominato da un profondo pessimismo circa le possibilità che ha l’uomo di volgersi al bene, è perché vede le cose come le vede Dio. Se il profeta dice: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo” non è per soffocare ogni speranza, ma per dire subito dopo: “Benedetto l’uomo che confida nel Signore” (Ger17,5.7).

Dio è infinitamente misericordioso e paziente certo, ma c’è un limite oltrepassato il quale nel tempo che passa tutto non può che andare ormai verso il peggio. Questo è il motivo per cui le parole del profeta vanno ascoltate in tutta la loro terribilità. Esse corrispondono a quel che vede e percepisce Dio stesso, magari piangendo lacrime amare, così come le piange un padre che vede il proprio figlio andare a perdizione e senza più rimedio.

È il tempo in cui Dio si trova costretto a dire: “Anche se Mosè e Samuele si presentassero davanti a me, non volgerei lo sguardo verso questo popolo” (Ger 15,1). “Sono stanco di pentirmi” (Ger 15,6). Sì, c’è un momento in cui Dio si trova addirittura costretto a pentirsi del bene che ha promesso di fare (Ger 18,10).

La caldaia si rovescerà da nord, Nabucodonosor avanzerà e travolgerà come un turbine anche Giuda, distruggerà il Tempio, deporterà a Babilonia gli abitanti di Gerusalemme e il re Sedecia verrà accecato. Siamo nel 586 a.C.: fine di Gerusalemme, fine anche del regno di Giuda, fine della monarchia davidica e fine, in qualche modo, della stessa profezia. Quelli che verranno dopo l’esilio babilonese non saranno che echi di profezia. Niente sarà più come prima.

Con Geremia e col periodo in cui egli si trova a vivere e profetare, molte cose cambieranno radicalmente nel modo di vivere e di credere nel mondo ebraico. Una radicalità di cambiamento, grazie alla quale dovremmo forse riflettere molto, da credenti, anche nel nostro mondo di oggi.

 

Daniele Garota

(1. continua)

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