Koinonia Gennaio 2022


“Dai discordanti bellissima armonia”

 

Il popolo cristiano che nei primi anni ‘60 si riunì a Concilio era da non molti anni uscito dalla tempesta della guerra e aveva superato, magari non del tutto, gli orrori del nazi-fascismo.

Molti di quei cristiani che vissero con speranza la stagione conciliare avevano partecipato attivamente alla Resistenza contribuendo in maniera attiva e spesso dolorosa, alla liberazione dell’Italia e alla edificazione di una costituzione democratica.

Firenze, come è noto, fu un centro strategicamente determinante nella lotta di liberazione alla quale parteciparono aderenti di tutti i partiti politici antifascisti, uniti nel CLN.

Tra essi anche la DC che stampava a Firenze un foglio clandestino, intitolato Il Popolo, come il futuro organo di stampa del partito, che nel periodo compreso tra l’8 settembre del ‘43 e l’11 agosto del ‘44 (la data della battaglia di Firenze che portò alla liberazione della città) uscì con 8 numeri.

Nel primo numero si leggeva: “Vogliamo un nuovo ordine sociale espresso politicamente con portata nazionale ed internazionale, basato sul dovere e il diritto del lavoro attuato dalla classe politica dei lavoratori di fronte e contro il capitale dissociato dal lavoro e concentrato oggi nella classe che ne prende il nome. La classe dei paria e degli espropriati deve sparire. La proprietà sia avvicinata al lavoro…”

E sullo stesso numero, in un altro articolo: “Le animucce piccolo-borghesi… si domandano, poverette, come mai i cristiani si possano trovare d’accordo coi socialisti e coi comunisti sopra un programma sociale… Noi, come gli altri, abbiamo il nostro passato di pensiero e di azione per il popolo e fra il popolo… Noi, ponendoci sul terreno del Cristianesimo, giungiamo ad alcune convinzioni preliminari: 1) la vita deve essere un impiego utile per tutti, non un godimento per alcuni e una sofferenza per gli altri; 2) il sistema capitalistico, che, contro l’interesse dei lavoratori, di un mezzo fece un fine, sta esaurendo nella guerra le sue posizioni; 3) la proprietà è un diritto naturale, ma solo nel senso di impedire la appropriazione promiscua, libertaria dei beni… la libertà frizzerà anche, ma il suo  bruciore è assolutamente preferibile alla morta gora in cui siamo stati…”.

Si tratta di posizioni socialmente avanzate, oggi impensabili anche in un partito della sinistra (quale?): ma devono aiutarci a riflettere intanto, e non è poca cosa, sulle radici autenticamente cristiane, che comunque periodicamente emergono - verrebbe da dire “dalla morta gora” citando anche noi il poeta – e proprio nei momenti più terribili in cui il richiamo al Vangelo appare bussola essenziale; ma è importante capire come la Chiesa che affrontava il concilio nei primi anni ‘60 era ancora attraversata da quei venti innovatori che sembravano inevitabilmente destinati a spazzar via ogni nube oscurantista e a ripristinare il sereno volto del primo Cristianesimo, quello dei poveri, degli ultimi.

Era una speranza diffusa, alimentata dalla fuoriuscita dalla guerra, dalla neonata democrazia, dalle “magnifiche sorti e progressive”, che parevano destinate a inverare un futuro radioso.

Poi sappiamo come è andata a finire.

Oggi, in vista dell’appuntamento sinodale, la situazione è completamente diversa, assolutamente peggiore di quei primi anni ‘60, ma forse proprio per questo è lecito sperare in un esito diverso, diciamo pure inatteso.

Abbiamo alle spalle la fase del berlusconismo, ovvero della versione più cialtronesca del cosiddetto neo-liberismo; ad esso sono succeduti come perversa filiazione i vari populismi e sovranismi, espressione sublimata e becera allo stesso tempo del più sfrenato individualismo ed egoismo. A livello planetario assistiamo proprio a quella declinazione della vita umana deprecata nell’articolo del Popolo sopra citato, come “godimento per alcuni e sofferenza per gli altri” (anche qui scomodando un altro poeta). La pandemia ha ulteriormente esasperato la distanza tra i primi e gli ultimi (che sono anche i più) rendendo evidente, se ce ne fosse bisogno - e il bisogno c’è perché chi non vuol sentire e continua a fa orecchio da mercante (appunto!) non sente proprio -  che non ci si salva mai da soli.

Le parole più adeguate ai bisogni attuali sono giunte da papa Bergoglio, è un fatto oggettivo; nessun leader della sinistra (quale?) ha avuto il coraggio di denunciare il fiato ormai davvero corto del capitalismo e la sua devastante azione criminosa verso gli uomini e la natura. Ma è un generale solo. L’esercito, il popolo di Dio, pare poco reattivo alla chiamata alle armi. Magari per una non facile comunicazione tra il vertice e la base, dovuta a un non sempre adeguato posizionamento dei “quadri intermedi”.

Allora urge un nuovo punto di partenza. Una rinascita su basi completamente nuove della Chiesa, a partire dal suo modo di pensare se stessa proprio in termini di identità, che deve poi tradursi in un nuovo linguaggio, un nuovo strumento di comunicare al mondo.

Sarebbe il caso di indossare una “veste nuova”, per usare un’immagine tanto cara alle culture orientali, che consentisse di recuperare e reificare quei valori e quei principi che dovrebbero essere le ragioni più vere del nostro essere Cristiani.

Anche in questo senso Frei Betto parlava in un recente articolo su Koinonia della necessità di superare “la malattia infantile dell’estetica ecclesiastica”.

Tornando al nostro discorso, la situazione attuale ci forza alla speranza, intanto perché siamo Cristiani e poi perché viviamo in un mondo senza speranza, senza futuro e spetta a noi il compito di dare speranza ed accendere il futuro alla luce del Vangelo.

Non possiamo e non dobbiamo sottrarci al compito di essere “il sale del mondo”; la consapevolezza di venire da una sconfitta, la consapevolezza dei rapporti di forza che certo non sono a nostro favore devono divenire da criticità  veri punti di forza, dobbiamo trasformare le debolezze in opportunità e derivare dall’esperienza del passato una determinazione maggiore, che ci renda assolutamente irremovibili nel perseguire il risultato che vogliamo, ovvero la fioritura di una Chiesa plurale, di un Cristianesimo diffuso, fondato sul Verbo e la promessa di Cristo.

È vero che le modalità di immaginare il nuovo sono molteplici, ma l’unità non si conquista con l’appiattimento e l’azzeramento delle differenze, ma, per dirla con Eraclito, «dai discordanti bellissima armonia».

Del resto il popolo di Dio è composto da donne e uomini liberi e appassionati, che rispondono ad un richiamo interiore che porta sul cammino del Vangelo; e ognuno «sente» in modo proprio e in modo proprio «vive» il proprio sentire che si fa fede; non possiamo pretendere una unanimità, una conformità; ma è dalla molteplicità delle voci, anche dissonati, che si forma l’armonica unione del popolo di Dio.

Accoglienza e rispetto della natura potrebbero essere due punti irrinunciabili su cui costruire una convergenza in movimento.

Accogliere significa accettare il diverso, percepirlo come arricchimento e non come ostacolo, come altro da noi e quindi nemico.

Il rispetto della natura si fonda sul riconoscimento della non proprietà di essa e dunque del non diritto-pretesa di sfruttarla nel modo che le conoscenze tecnico-scientifiche consentono. Ci deve essere un limite nell’uso di tali conoscenze, nella consapevolezza che non è lecito fare tutto ciò che sappiamo fare. L’etica deve riprendere il dominio sull’interesse economico, anche in considerazione dei diritti degli altri popoli «diversamente civilizzati», degli esseri umani che abiteranno il pianeta dopo di noi, delle altre specie viventi animali e vegetali che come noi vivono sulla terra con pari dignità, di usufruire dei beni che la terra produce, nei limiti di un ecosistema equilibrato, e di una equa distribuzione delle risorse.

 

Ezio Dolfi

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