Koinonia Giugno 2021


A proposito del “cammino sinodale” della Chiesa italiana

 

IL VINO NUOVO BISOGNA METTERLO IN OTRI NUOVI”  (Luca 5,38)

 

Ci siamo chiesti che piega prenderà il Sinodo della Chiesa italiana varato dall’Assemblea dei Vescovi a fine maggio. Dopo aver cercato di capirlo attraverso la lettura della Prolusione del cardinale Presidente Gualtiero Bassetti (cfr Koinonia-forum 687), possiamo cercare di comprenderlo a partire dal comunicato finale dell’Assemblea, dove leggiamo questa mozione votata all’unanimità e che dovrebbe fare testo: “I Vescovi italiani danno avvio, con questa Assemblea, al cammino sinodale secondo quanto indicato da Papa Francesco e proposto in una prima bozza della Carta d’intenti presentata al Santo Padre. Al tempo stesso, affidano al Consiglio Permanente il compito di costituire un gruppo di lavoro per armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme, tenendo conto della Nota della Segreteria del Sinodo dei Vescovi del 21 maggio 2021, della bozza della Carta d’intenti e delle riflessioni di questa Assemblea”.

 

Si viene a sapere che non si tratta di un Sinodo vero e proprio in senso canonico, ma di un “cammino sinodale”, un’espressione reduplicata che non sappiamo come possa essere venire intesa e servire a tutti gli usi. Il campo è aperto, per cui possiamo tentare una nostra lettura con qualche osservazione a margine, che possa essere di contributo alla presa di coscienza allargata. Ed allora ci vengono incontro parole della “Carta di intenti” che fanno ben sperare secondo una prospettiva di evangelizzazione. Eccole: “Se è vero che la sinodalità deve essere intesa come stile permanente della Chiesa, è altrettanto importante - è stato evidenziato - esplicitarne anche i contenuti, quali ad esempio il kerygma, la centralità della Parola di Dio come criterio di discernimento, la vita spirituale”.

 

Manco a dirlo! La sinodalità non può diventare un guscio vuoto o un biglietto da visita per accreditarsi, ma deve entrare nel vivo della evangelizzazione come compito primario. Fa piacere sentire che in questione ci sono “il kerygma, la centralità della Parola di Dio come criterio di discernimento, la vita spirituale”. Sarebbero questi, in realtà, i problemi sul tappeto che postulano un metodo sinodale di risoluzione, mentre sembra che essi diventino semplici riempitivi di una sinodalità elevata a fine. Bisogna stare molto attenti che certi obiettivi non siano specchietti per allodole o alibi per portare altrove l’attenzione. Del resto è bene tenere presente che il manifesto di apertura del cammino sinodale recita: “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita” . Chi saprebbe dire quante volte simili parole sono apparse in Convegni ecclesiali e in documenti CEI?  È proprio necessario che parta un altro treno?

Se non vogliamo essere tacciati di amnesia anche noi (come i Vescovi da parte del Papa), è bene ricordare che le parole esatte con cui a Firenze papa Francesco evoca un Sinodo (salvo poi tornarci sopra varie altre volte) sono queste: “Cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni”. Quindi, i contenuti sono prima dei contenitori, e sarebbe un danno per tutti se ora l’insistenza sulla sinodalità occultasse da dove deve partire e dove deve portare! E se vogliamo precisare meglio l’intento del Papa, è in queste altre parole del suo discorso: ”Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori, intendo. Ho espresso questa mia preoccupazione pastorale nella esortazione apostolica Evangelii gaudium (cfr nn. 111-134)”.

 

Più chiaro di così non potrebbe essere, ma proprio in questo compito  sta quel salto di qualità ridotto alla formula ormai in uso che tutta la chiesa è di suo missionaria. All’atto pratico non si spiega - o meglio si spiega perfettamente - come mai in tutti questi anni la chiesa non si sia mossa in questa direzione, e se qualcuno  ci ha provato non ha avuto certamente via libera! Cosa aspettarsi di nuovo da ora in poi e quali punti di forza e di appoggio sono dati? Si guarda ad un “Noi ecclesiale”, ma stiamo attenti a non far passare per soluzione sotto altre vesti quello che è il vero problema: che sia tutto il popolo di Dio, popolo e pastori, ad annunciare il vangelo! Per cui la necessità di precisare che sinodalità va considerata nella sua “dimensione spirituale: ancora prima delle scelte procedurali, essa ha a che fare con la conversione ecclesiale…”. Appunto quello che dovrebbe accadere, per rispondere “alla necessità odierna di dare vita ad una Chiesa più missionaria”. E qui si apre il grande interrogativo di come intendere e praticare l’istanza primaria di “partire dal basso”.

 

Sinceramente, viene quasi da sorridere a sentir dire di muoversi e di partire dal basso, dopo che da oltre 50 anni non si è fatto altro, costretti ad una corsa ad ostacoli sempre più impervia, per il semplice fatto di non rientrare in schemi, in quadri, in strutture convenzionali e prassi consolidate. È lecito allora chiedersi cosa si intende per  “partire dal basso”? È tutto da vedere, e si vedrà. Ma intanto forse è il caso di interpretare questo momento di grazia - o kairòs, perché di questo si tratta! - in termini evangelici. E precisamente con riferimento a Luca 5,37-38: “E nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti. Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi”.

 

Per rimanere alla Esortazione Evangelii gaudium, diciamo che rappresenta il vino nuovo del Concilio reinterpretato e riproposto per i nostri tempi: un vero e proprio test della recezione del Vaticano II nella chiesa italiana per una ricognizione delle forze e delle posizioni in campo. Un lavoro che si sarebbe potuto avviare subito in maniera organica, senza focalizzarsi unicamente sul tema Sinodo, che poi viene schivato. Ma questo non è stato fatto in maniera organica come sarebbe stato necessario. Magari, quando andava bene, il vino nuovo serviva di rabbocco per gli otri di sempre: e cioè  i contesti mentali e pastorali di sempre, in cui tutto veniva recepito alla vecchia maniera con l’etichetta di novità!

 

Papa Francesco non si è stancato di esortare a prendere il largo, fino a quando un “cammino sinodale” è stato varato. Tutto sta a vedere se e quanto sia sostenuto dalla volontà di preparare otri nuovi, senza più contentarsi di riparare, ammodernare e magari abbellire quelli vecchi. Quando si parla di “conversione pastorale”, infatti, non è da intendere come variazioni dentro la prassi pastorale in corso, ma di orientamento diverso della evangelizzazione tout-court. Ritroviamo qui, attraverso simboli, il nodo da sciogliere che il Concilio Vaticano II ha affidato alla chiesa intera nelle parole di Giovanni XXIII: “Occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati;… occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale”.

È con questo compito che bisogna misurarsi, alla ricerca di un equilibrio dinamico tra la sostanza del credere e l’annuncio della fede, “la cui indole è prevalentemente pastorale”. È il discorso del vino nuovo e degli otri nuovi. Ed è quanto sempre Papa Giovanni ci ha insegnato quando qualche giorno prima della sua morte ha sintetizzato tutto in queste parole programmatiche: “Non è il vangelo che cambia, ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Che è quanto possiamo trovare anticipato in queste parole della lettera ai  Romani 10,10: “Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza”.

 

Che tutto questo continui ad essere la fiaccola per il nostro cammino, anche quello sinodale! Ma se non ci convinciamo che una comunicazione della fede  passa prima di tutto dal cuore di una chiesa-madre che alimenta i suoi figli, noi continueremo ad avere  preoccupazioni di governo, di organizzazione e di efficienza pastorale! A curarci degli otri, vecchi o nuovi che siano.

 

P.Alberto B.Simoni op

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