Koinonia Maggio 2021


Adriana Zarri parla dei domenicani e ai domenicani

 

LA PROFESSIONE TEOLOGICA NELL’ORDINE

 

Sta a noi liberamente scegliere, dal patrimonio della Chiesa, ciò che è più congeniale al nostro spirito; sempre coscienti che anche le opzioni più irriducibili si innestano in una prospettiva di continuità, oltre che dialettica. È stato detto che in Tommaso c’è la volontà di scegliere tutto.

Anche noi dobbiamo avere questa tensione generosa a scegliere tutto, non certo nell’eclettismo di un’addizione matematica ma nella sintesi di una inclusione vitale. Per fare questo bisogna essere molto tomisti secondo lo spirito e poco secondo la lettera: seguendo l’invito del cardinal Lercaro, bisogna rinunciare a difendere sistemi “mossi da spirito di possesso e di sufficienza”.

 

È evidente che - ove ci sia questo senso di possesso - si è assai lontani dal senso di povertà, di umiltà e di servizio richiesto dalla professione teologica. La povertà non è un possesso privato né un possesso dell’Ordine e neanche un possesso della Chiesa. La Chiesa in certo senso la possiede perché le è stata consegnata ma ne è soprattutto posseduta, perché il Verbo la supera e il Cristo la comprende. Perciò al suo ufficio di custodia non si addice l’orgoglio ma solamente l’umiltà.

A questo punto la povertà della Chiesa si identifica con la povertà di un Ordine: un Ordine mendicante che, alla sua origine, accattò il pane ma che oggi, per quanto riguarda la dottrina (il cosiddetto “pane della scienza”), sembra talvolta incline a fare il banchiere: a metterla in cassaforte, a custodirla, a dispensarla, nel convincimento che la sua teologia si identifichi sempre o quasi con la dottrina della Chiesa (e qualche volta si identifica ma qualche volta no, e consente, e magari richiede, altre ricerche ed altre scelte).

A questo stesso punto anche l’umiltà della Chiesa si identifica con l’umiltà di quest’Ordine: con la rinuncia a sicurezze troppo facili, troppo garantite; con l’ammissione di tanto cammino da fare e tanto cammino da rifare perché alcune soluzioni, date per certe durante molti secoli, si sono poi rivelate incertissime.

Sono disposizioni difficili - lo comprendiamo bene - quando da secoli la virtù dell’Ordine è stata vista in una fedeltà di scuola a san Tommaso; e il passaggio dall’egemonismo al pluralismo - per chi era avvezzo a un’egemonia ritenuta legittima e gloriosa - può parer quasi un abbandono della tradizione. Eppure è sul crinale di questa scelta che l’Ordine dei predicatori sceglierà la sua vita o la sua morte: la capacità di rinnovarsi e servire oppure di rinchiudersi e nuocere.

Oggi i domenicani possono fare molto bene alla Chiesa ed anche forse un po’ di male; a seconda del senso che sapranno dare alla loro fedeltà al tomismo. C’è una fedeltà cieca e sostanzialmente infedele che può forse passare, qualche volta, per autentico spirito dell’Ordine; ma io non credo che sia il suo spirito profondo e non credo neanche che sia lo spirito di cui la Chiesa oggi ha bisogno.

La Chiesa oggi ha bisogno di generosità tomista più che di teologia tomista; e ritengo che possa chiedere ai domenicani di essere soprattutto domenicani: di amare cioè la verità con animo sgombro da condizionamenti psicologici e mente libera da ipoteche di scuola; di non rinchiudersi nel loro splendido passato, anche se questo passato si chiama Tommaso, soprattutto perché si chiama Tommaso. Perché è un assurdo solo pensare che un uomo simile possa costituire un inceppo in quello spirito dell’Ordine che fu anche così generosamente suo, sì che mortificarlo significa mortificare anche la fedeltà a lui. Non si tradisce san Tommaso se si cerca la verità; lo si tradisce se si cerca san Tommaso.

I grandi teologi dell’Ordine, oggi viventi, sembra che abbiano già scelto questa fedeltà di fondo ad alcune grandi linee che sono ormai passate nel patrimonio della Chiesa, senza impuntarsi in una adozione più specifica (e mi chiedo del resto come diversamente avrebbero potuto esser grandi teologi). Il loro tomismo è un atteggiamento più che una scuola, la loro fedeltà è più psicologica che teologica. Ed è per questo che essi sono grandi teologi, grandi domenicani e anche grandi tomisti. Forse essi saranno le guide che lentamente porteranno tutto l’Ordine a questa scelta larga e generosa; che ci faranno risentire i frati predicatori vicini, e non più in alto e più indietro, come accade talvolta di sentirli in Italia. E se tutto l’Ordine si mostrerà duttile e generoso, povero e distaccato da sé, l’intera Chiesa fruirà di questa sua nuova giovinezza, sarà aiutata a ritrovare un’umiltà teologica e una libertà di ricerca oggi ancora piuttosto rare.

Tutto questo si può benissimo fare in nome di Tommaso. Non si può resistere al rinnovamento in nome di un grande innovatore, ma in nome suo ci si può rinnovare: ci si deve rinnovare, pena tradirlo o seguirlo soltanto formalmente.

Se vogliamo un protettore dello statu quo, un modello per i teologi “sicuri”, non invochiamo san Tommaso: non è il patrono adatto; ma se vogliamo un protettore della ricerca, un esempio per i teologi in cammino, invochiamo pure san Tommaso: va benissimo. Nella sua opera di sintetizzatore di un passato e di anticipatore del futuro egli fu esempio mirabile di rispetto privo di feticismo, di ardimento privo di braveria. Operò una rivoluzione senza nemmeno accorgersi d’essere un rivoluzionario; per lo meno senza assumerne quei connotati esterni spesso scostanti. Forse perché agì dal di dentro, senza trasferire in polemica un’operazione teologica in profondo.

Oggi si tratta di ripetere un’operazione analoga. Per questo nessuno è più adatto di un tomista di animo e nessuno è più disadatto di un tomista di scuola.

 

Adriana Zarri

In Teologia del probabile, Borla 1967,  pp.279-82

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