Koinonia Maggio 2021


IL RITORNO DI SAN DOMENICO DI GUZMAN

 

PREMESSA

 

Grazie al professor Pinelli per l’opportunità di questo incontro, che è di fatto una comunicazione a distanza: ha un valore umano prima che didattico, e vorrete scusarmi se didatticamente lascio a desiderare. Ma più che offrirvi una scheda asettica, il desiderio è di potermi inserire nel vostro progetto sull’”Ex monastero femminile domenicano di Santa Caterina”. C’è bisogno di dare  un giusto significato a queste parole, perché non rimangano un semplice riferimento logistico. Si tratta infatti di un luogo che parla di una presenza e di un’ascendenza storica e spirituale, certamente non isolata ma contestuale a tante altre: per limitarsi al nostro territorio, abbiamo san Domenico di Fiesole col beato Angelico che col monastero ha avuto rapporti; san Marco con S.Antonino e il Savonarola, da cui forse è nata l’ispirazione di dare vita a questa comunità; santa Maria Novella che ci riporta alle origini dell’Ordine domenicano, senza dimenticare Siena con santa Caterina, da cui questo monastero prende nome.

Santa Maria Novella in qualche modo ci riporta a Dante che nel XII canto del Paradiso affida al francescano san Bonaventura l’elogio di Domenico. E mentre di Dante celebriamo il VII centenario, di Domenico di Guzman ricorre l’VIII secolo dalla morte. Ma perché interessarsi a lui anche noi oggi? Viene da chiedersi se oltre ai motivi di circostanza, relativi al vostro progetto, ci sia ragione di parlare della storia e spiritualità dell’Ordine dei Predicatori da lui fondato. La domanda più impegnativa potrebbe essere questa: ci sarebbe motivo oggi di rifondare un Ordine di Predicatori?

 

Per la verità non sono qui in qualità di storico, per ricostruire un periodo significativo del passato o per delineare un personaggio tanto significativo quanto poco noto. Sono qui come frate domenicano in questo nostro tempo, non meno problematico di quando l’Ordine è nato: per capire insieme a voi se la voce del Fondatore che viene da lontano, oltre che parlarci attraverso i monumenti, dice ancora qualcosa per le nostre vicende umane per ridare vitalità alla specifica missione dell’Ordine. L’ottavo centenario in corso viene celebrato con la dicitura “A tavola con san Domenico” grazie ad una Tavola che risale a quegli anni e che lo ritrae con i suoi primi frati. In qualche modo a questa tavola siamo oggi invitati anche noi per condividere la sua passione e servizio per il vangelo!

 

Ma come spiegare la possibilità di stabilire un confronto con epoche così lontane nel tempo e nello spazio? In linguaggio cristiano si parla di carisma: un dono di grazia, una potenza dello spirito, una capacità creativa data dall’alto a qualcuno ad utilità di tutti. In termini laici si potrebbe parlare di un genio ispiratore e suggeritore di opere storiche rilevanti.  G.Bernanos, nel suo libro “Domenico incendiario di Dio” fa questa annotazione: “L’uomo di genio è così poco presente nella propria opera che quasi sempre questa è testimonianza impietosa contro di lui. Invece l’opera del santo è la sua stessa vita ed egli vi è completamente immerso”.

E questo spiega appunto il fatto sorprendente che noi qui, in questo giorno e in questo luogo, ci stiamo chiedendo quale valenza spirituale possa avere l’eredità materiale di mura e di ambienti di cui vogliamo che tutti usufruiscano. A chi ci riportano queste mura, e cosa trasmettono? Quando si parla di carisma – e di spiritualità – è quanto di meno ripetitivo, amministrativo e istituzionale ci sia e quanto di più creativo, innovativo e libero ci possa essere, perché è verità: è spirito di giovinezza e non ripiegamento di vecchiaia! È vita e non morte!

 

1 – L’Ordine di san Domenico nasce donna nella culla di Prouille

Ma prima di fare cenno a san Domenico e al suo Ordine, è bene tenere presente in che epoca siamo: nell’Europa di fine XII secolo e inizio XIII, nella evoluzione piena del Medioevo. È un tempo di cambiamenti, di mutazione materiale e spirituale della società: una notevole crescita demografica determina un’uscita dalle campagne verso forme di urbanizzazione e di emancipazione dal mondo feudale per nuovi rapporti sociali e di produzione: verso una nuova civiltà. È la nascita della borghesia e lo sviluppo della mercanzia, che trovano nella formazione dei comuni il loro nuovo ambiente, per arrivare in seguito alla nascita delle nazioni.

Non siamo più al tempo delle invasioni barbariche da cui difendersi, ma l’espansione dell’Islam richiede azioni di difesa comune, e al tempo stesso provoca aperture ed offre apporti culturali, che contribuiranno allo sviluppo delle università. È un mondo più aperto ed organico, in cui non si cerca solo sicurezza e protezione, ma si sviluppano arti e mestieri, si costituiscono le corporazioni, ma al tempo stesso aumentano nuove povertà con disuguaglianze sociali più accentuate.

Sappiamo che nel Medioevo società e religione si integrano e interagiscono, per cui a queste modificazioni socio-culturali fanno riscontro, come causa ed effetto, cambiamenti in ambito ecclesiale: dalle pievi si passa alle cattedrali: dai monasteri e abbazie ai movimenti laicali ed ereticali che porteranno ai conventi, da una chiesa di potere e di dipendenza alla richiesta di nuova fraternità attraverso il ritorno al vangelo. Dentro un mondo che stava nascendo ci voleva un vangelo diverso. Francesco di Assisi è la figura emblematica di questo periodo: egli incarna il cambiamento che dovrà portare ad una nuova cristianità e ad una chiesa diversa.

In questo senso si può dire che quanto Francesco rappresenta sul piano laicale, contemporaneamente Domenico lo realizza a livello canonico o clericale, essendo egli, a differenza di Francesco, ministro ordinato. Trovo queste parole dello storico Guy Bedouelle, che introducono una presentazione di Domenico di Guzman: “Domenico è il precursore sella riconciliazione tra mercanti e chierici, tra vita urbana e vita perfetta tra città e Chiesa, sempre un po’ antagoniste. Questo non significa che egli accolga senza discernimento tutte le componenti della nuova società. Domenico resta l’uomo di un secolo povero che percepisce questa miseria con gli occhi di chi vive in continuo rapporto con il vangelo” (“Domenico”, p. 29). Egli è l’”uomo evangelico” (vir evangelicus), che riesce a dare un volto nuovo alla chiesa in quei tempi nuovi! Se Francesco riporta la chiesa al vangelo, Domenico riporta il vangelo alla chiesa!

Queste poche battute ci presentano la personalità di un santo, che ha sì una sua forte spiritualità, ma che la vive all’interno delle complesse situazioni storiche e dei problemi umani che gli si presentano, in piena partecipazione. A noi per ora la sua spiritualità interessa più che altro in quanto genera scelte, azioni, istituzioni che hanno ripercussioni nel tempo, come testimonia questo stesso monastero di santa Caterina. Ma è chiaro che il suo capolavoro è l’intero  Ordine dei Predicatori nelle sue diverse componenti.

E visto che partiamo dal “Monastero femminile santa Caterina”, viene subito da dire che la prima vera opera di san Domenico è stata la nascita di un monastero femminile, quasi un seme dei conventi maschili: i domenicani insomma nascono donna! È un momento di svolta nella vita di Domenico, e possiamo partire proprio di qui per capire come si genera, come si sviluppa e dove porta la sua spiritualità. In lui non c’era una volontà precisa di dare vita ad istituzioni di vita cristiana particolare, come invece è per san Benedetto e per il monachesimo, che guardano ad un sistema di vita ben definito in cui inserirsi stabilmente. Tant’è che nasceranno di lì le stesse Parrocchie!

Domenico viveva già una vita comunitaria nella cattedrale di Osma, e non sentiva nessuna necessità di creare una nuova istituzione, come del resto era per altre ragioni per san Francesco. Arriva a questa determinazione quasi costretto dagli eventi, in risposta alle situazioni che si ritrova a vivere e da cui il suo spirito si lascia plasmare. E il primo segnale di questo suo modo di procedere è appunto un monastero femminile, quello di Prouille, una località nei pressi di Fanjeaux in Linguadoca nella contea di Tolosa.

Siamo intorno al 1205, in un tempo e in una zona in cui i movimenti ereticali all’interno della cristianità hanno preso particolarmente piede, fino a comprometterla e a sovvertire l’assetto sociale che andava formandosi. L’eresia - vale a dire pronunciamenti e comportamenti di rottura interni alla chiesa - non è più come in passato una questione di deviazioni dottrinali o dogmatiche, ma affare di scelte pratiche nel modo di impostare la vita cristiana.

L’uscita da una società feudale di sottomissione e di uniformità ha portato alla riscoperta e riappropriazione del vangelo come fonte e forma di vita religiosa alla portata di tutti da parte di laici e persone comuni. Tutta la partita si gioca sul filo della fedeltà alla forma di vita cristiana ed ecclesiale chiamata “vita apostolica” o “regula apostolica”, intesa come imitazione degli apostoli nel seguire Cristo, ma anche sulla necessità di dare una forma nuova a questa istanza. Nei secoli ci sono stati cambiamenti su come interpretare e praticare la vita cristiana sul modello della prima comunità di Gerusalemme descritta negli Atti degli Apostoli.

Ora però succedeva che dentro una istanza legittima e feconda di risveglio evangelico si innestavano credenze e dottrine religiose non sempre compatibili con la fede comune della chiesa, idee e proposte che però facevano facilmente presa alla base, soprattutto se ispirate ad un’ansia di riforma e ad esempi di povertà ed austerità di vita. Possiamo pensare a figure come Gioacchino da Fiore, al mercante di Lione Valdo, come all’impatto e al seguito avuto da Francesco di Assisi: in sostanza a tutti  i movimenti pauperistici.

Ma per quanto ci riguarda, la corrente ereticale più diffusa in Provenza era quella dei “Catari” o perfetti, che lì prendono il nome di Albigesi, mentre in Lombardia si chiameranno Patarini: i catari avevano ereditato dall’oriente, grazie anche alle crociate, una concezione dualistica o manichea di separazione tra bene e male, tra spirito a materia, tra povertà e ricchezza, tra spiritualità e sessualità, mondi inconciliabili da tenere separati al massimo. Così come inconciliabili erano per loro l’Antico  e Nuovo Testamento, e il vangelo stesso veniva interpretato riduttivamente alla luce di un proprio atteggiamento nei confronti della vita come opposizione tra bene e male, tra anima e corpo.

È chiaro che simili visioni e impostazioni di vita sovvertivano non solo gli equilibri interni alla chiesa ma anche assetti e costumi sociali. Di qui la necessità di una lotta di arginamento dell’eresia, ma anche contro tutta una organizzazione che faceva presa soprattutto tra le donne. È così che nacquero comunità di “perfette” che facevano da base per i predicatori o propagandisti di quella dottrina. Ma l’azione di contrasto a questi movimenti avveniva come intervento in nome del potere ecclesiastico, attraverso persone investite di autorità ma poco coerenti col vangelo, quando invece si trattava di rivolgersi a gente umile e povera animata da radicalismo evangelico ed ansia di riforma. Una lotta perduta in partenza, quindi, al punto che fu inevitabile pensare ad una vera e propria crociata o lotta armata, tenendo conto che il conflitto era ormai tra forze politiche.

Erano gli  anni in cui Domenico di Guzman si recava a Roma dal Papa Innocenzo III per chiedere l’autorizzazione a recarsi in missione nelle nazioni nordiche che aveva potuto visitare nel corso di un viaggio e che aveva trovato ancora pagane, fuori della cristianità. Il Papa gli nega questo permesso, ma decide di inviarlo in Linguadoca, dove appunto l’eresia dilagava e dove infuriavano violenze di ogni genere, e dove stava per partire una crociata.

Domenico accetta a malincuore e una volta sul posto prende più esatta visione dello stato delle cose, sia riguardo ai metodi di diffusione dell’eresia e sia quanto all’azione di contrasto da parte degli ecclesiastici, prevalentemente monaci cistercensi.

Si rese conto che questi gruppi di monaci si presentavano alla gente con sfarzo e disponibilità di mezzi, in nome di una chiesa potente e ricca invisa però ad un popolo che trovava nella predicazione evangelica dei missionari catari modelli più credibili da accettare e da seguire. Questi infatti si attenevano praticamente al mandato apostolico di Gesù di andare a predicare il vangelo in povertà,  senza denaro e senza bisaccia.

Il confronto cioè non era dottrinale ma di stile: di vita evangelica! Questa vita Domenico l’aveva già fatta propria nella forma comunitaria e canonicale di Osma, ma ora si rendeva conto che la vita apostolica secondo il vangelo doveva implicare anche la predicazione così come era praticata dai movimenti pauperistici: e cioè nel rispetto del comando di Gesù, di andare a due a due senza portare nulla con sé. A parte esigenze ascetiche personali di vita sobria, capisce allora che doveva essere la povertà il metodo di predicazione e il modello di chiesa per confrontarsi con gli eretici sullo stesso piano, senza peraltro cedimenti o abbandoni sul piano dottrinale della fede. La tradizionale  “vita apostolica” o cristiana deve diventare quella di “predicatori itineranti e mendicanti” e non più soltanto quella di eremiti, di monaci o di cenobiti a sfondo personale!

È così che egli induce molti suoi interlocutori all’abbandono dell’eresia attraverso l’incontro, il dialogo, la discussione, mettendo in gioco se stesso, anche rischiando giorno e notte. E questo non da posizioni di potere e di ufficialità, ma come testimonianza e solidarietà di vita, con la stessa passione degli eretici, per la fedeltà al vangelo e per una chiesa diversa, senza per questo venir meno alla dottrina della fede.

Nella sua predicazione in povertà e umiltà, in itineranza e mendicità, avveniva sempre più che soprattutto donne recedevano dalla eresia, ma proprio per questo esse venivano a ritrovarsi abbandonate a se stesse, prive di qualunque sostegno, come avviene nelle sette. È qui che Domenico interviene per creare condizioni e un luogo adatto perché queste donne, che venivano da comunità catare, potessero avere insieme ad altre non solo assistenza, ma anche la possibilità di realizzare la loro vocazione cristiana. Tra difficoltà di ogni genere, nasce così il primo nucleo di monastero domenicano, non luogo esclusivo di preghiera e di reclusione, ma luogo di accoglienza e di partecipazione alla lotta per la purezza della fede.

Sta di fatto che questa prima comunità femminile diventerà anche la base per la predicazione dei futuri frati, e cioè di quanti via via si associano volontariamente a Domenico per affiancarlo nella sua opera. Di qui nascerà anche l’idea di convento come “casa di predicazione”, e quindi come fraternità molto diversa da quella di un classico monastero. Per cui succede che là dove negli anni successivi sorgerà un convento di frati ci sarà anche un monastero femminile. Si potrebbe dire che questo rappresenterà la base di stabilità della vita dell’Ordine, al tempo stesso in cui i frati ne assicureranno la mobilità!

Ma questo sempre nell’unico intento di essere predicazione viva del vangelo, più che per dare vita ad una nuova istituzione: per riportare la chiesa ad essere se stessa, al di là delle sue strutture di potere. Quindi non si tratta di un’operazione a tavolino o nel chiuso di una cella per creare un organismo finalizzato ad una funzione spirituale specifica, ma di una puntuale risposta all’istanza profonda di predicazione del vangelo, al tempo stesso in cui c’è da venire incontro alle necessità materiali di persone in difficoltà.

Perciò sarebbe riduttivo pensare che questo monastero fosse solo per la preghiera, per la contemplazione, per la propria perfezione spirituale. All’origine c’è l’ispirazione e la passione del vangelo e la passione per la salvezza mediante la fede, nelle forme compatibili di cui questo carisma può rivestirsi. Volendo in qualche modo attualizzare il problema, si può dire che era qui tutta la passione di Domenico per Cristo Salvatore, che poi diventava compassione nei confronti di tutti!

Alcune parole di un testimone del tempo, Guglielmo Peyre, ci fanno entrare in quel clima di passione e di impegno condiviso: “Si dava con tanto entusiasmo alla predicazione che voleva annunciare la parola di Dio giorno e notte, nelle chiese e nelle case, nei campi e per le strade, dovunque insomma, non volendo parlare che di Dio… Non dava tregua agli eretici e li confutava con le prediche, con le pubbliche dispute e con tutti i mezzi in suo potere, sia con la parola sia con l’esempio di una vita santa”.

Questo ci fa capire quale possa essere stata la sua partecipazione  alla crociata contro gli Albigesi di Simone di Montfort: più di contrappeso spirituale e umanitario che di fiancheggiamento o di benedizione, anche se da uomo del suo tempo non escludeva l’uso della forza del potere temporale per la causa della fede. Gli storici riportano alcune sue parole pronunciate nel giorno dell’Assunta proprio presso il monastero di Prouille: “Da molti anni ormai io vi ho rivolto dolci parole, predicando, implorando, piangendo. Ma, come dice la gente della mia terra, dove non serve la benedizione servirà il bastone… Ahimè, prevarrà in tal modo la forza del bastone, là dove la dolcezza e la benedizione a nulla sono valse”.

Altro segnale del clima infuocato in cui l’uomo Domenico ha operato. Verrebbe da pensare ad un Domenico costretto a muoversi sempre tra due fuochi: il fuoco interiore della Parola di Dio da annunciare e il fuoco della violenza che si perpetrava intorno, e da cui era anche minacciato! Egli è stato dichiarato a suo tempo “infaticabile promotore della pace e della fede”, ma la sua azione è pur sempre all’interno della campagna denominata appunto “negotium pacis et fidei”, in cui l’esercizio del potere temporale era il braccio secolare per scopi spirituali. In questo contesto di cristianità e di lotta, Domenico rinuncia ad ogni investitura di autorità e agisce in proprio con la sola forza di una vita evangelica, che trova appunto nel monastero di Prouille la sua prima espressione, al femminile! Si direbbe nel segno della debolezza e della pace!

 

2 – Ma da dove veniva Domenico?

Ma chi era in realtà questo Domenico di Guzman che si era trovato coinvolto nel dramma della chiesa e della società – della cristianità – nel mezzogiorno della Francia nei primi anni del 1200?  E verso dove stava andando?

Per capirlo, può essere utile avere presente che egli è contemporaneo di Francesco di Assisi. I due, che forse si sono incontrati una volta, fanno un percorso parallelo che li porterà ad essere i Padri degli Ordini mendicanti, e cioè a promuovere un ritorno della chiesa al vangelo, pur partendo da posizioni opposte: Francesco come laico convertito, Domenico come chierico e uomo di chiesa. Uno da fuori e uno da dentro la chiesa, ma in piena convergenza.

Domenico nasce intorno al 1170 a Caleruega in Castiglia. Affidato per la prima educazione ad uno zio arciprete, verso i 14 anni viene inviato alla scuola di Palencia, dove per una decina d’anni si dedica allo studio delle belle lettere, della dialettica e della teologia. Quando il Beato Angelico lo ritrae assorto in meditazione con un libro sulle ginocchia, evidenzia la sua passione per lo studio e per l’approfondimento della Scrittura e del vangelo, che segneranno la sua personalità, la sua vita e anche le sue scelte per il futuro Ordine dei Predicatori. Ma l’Angelico lo raffigura anche con un libro aperto tra le mani, a significare la volontà di comunicazione.

Un episodio rivela ancora più l’orientamento profondo della sua vita. In questo periodo di studi, durante una carestia egli vendette tutto ciò che aveva, compresi i libri postillati di sua mano, e a chi gli faceva osservazione rispondeva: “Come posso studiare su delle pelli morte mentre i poveri muoiono di fame?”. Si legge nelle “Vitae fratrum”- l’equivalente domenicano dei Fioretti di san Francesco – che quando uno studente gli chiede su quali libri avesse studiato, egli risponde: “Figlio, ho studiato nel libro della carità più che in ogni altro libro” (VT 82). E allora si capisce l’altra ricorrente immagine che l’Angelico ci dà di Domenico ai piedi della Croce! (Libellus n.35)

Dopo gli anni di studio, egli è pronto per entrare in una comunità presbiterale di canonici regolari presso la cattedrale di Osma. Un luogo in cui ha partecipato al massimo all’attuazione della riforma gregoriana della chiesa e alla restaurazione della forma di vita dei primi cristiani di Gerusalemme, quella che veniva chiamata “vita apostolica” o secondo la regola degli Atti deli Apostoli. Tutto sembrava procedere alla perfezione, e rimanendo a vivere in quel luogo Domenico sarebbe potuto diventare un santo come tanti altri, tutto “comunità e chiesa”. E magari avrebbe fatto la sua carriera ecclesiastica!

Ma pur rimanendo quell’uomo di Dio che era, ecco all’improvviso una svolta radicale nella sua vita. Nella primavera del 1203 egli intraprende un lungo viaggio per accompagnare il suo Vescovo, Diego d’Azevedo, inviato da Alfonso VIII di Castiglia in Danimarca per combinare un matrimonio a scopo politico. Allo stesso scopo vi torneranno due anni dopo, attraversando ancora una volta la Francia e rendendosi conto della situazione in cui versava quella cristianità lacerata a causa dei movimenti ereticali che compromettevano la fede e la pace.

Durante questo viaggio, un altro episodio orienta ancora più decisamente le sue già forti spinte interiori. Una sera Domenico si accorse che colui che lo ospitava era un cataro. Profondamente colpito, non rimase in silenzio. Dimenticando la fatica del viaggio fatto e da riprendere il giorno dopo, passò tutta la notte a disputare con l’albergatore e, sul far del giorno, riuscì a ricondurlo in seno alla chiesa. Possibile, si chiedeva, che quell’uomo fosse nello stesso tempo così vicino e così lontano? Sembra quindi prendere coscienza di come fosse possibile ricondurre ad una fedeltà piena chi aveva aderito all’eresia, e non altrimenti che attraverso l’incontro e il dialogo, più che per mezzo di condanne o scomuniche o sconfitte militari. Era per lui una vera e propria conversione, che diventa poi scelta di vita e metodo di azione.

Sempre nelle “Vitae fratrum” leggiamo: “Un giorno fu indetta una disputa generale contro gli eretici, alla quale voleva partecipare con un pomposo seguito anche il vescovo del luogo. Ma san Domenico gli disse: Non così, non così Padre, vanno affrontati questi eretici. Bisogna convincerli con esempi di umiltà e delle altre virtù, anziché col fasto esteriore e la violenza delle parole. Armiamoci, perciò, di devote preghiere e, mostrando segni di vera umiltà, andiamo incontro a Golia a piedi scalzi”.

In ogni caso si apriva un orizzonte nuovo di missione. E la “vita apostolica” che ad Osma significava vita comunitaria di preghiera e di fraternità, oltre che di pastorale ordinaria, ora cominciava a prospettarsi anche come azione apostolica di servizio e di predicazione del vangelo in itineranza, al di fuori dei canali canonici. Questa consapevolezza si approfondisce quando nei paesi del nord tocca con mano che c’erano popoli che non avevano ancora ricevuto il vangelo, chiamati “Cumani”. E il suo sogno diventa quello di “andare ai Cumani”, di dedicare tutto se stesso alla evangelizzazione di questi popoli. Paolo di Venezia testimonia che desiderava ardentemente la salvezza di tutti, dei credenti come anche degli infedeli, e riferisce che più di una volta Domenico gli dicesse: “Appena avremo organizzato e affermato il nostro ordine, ce ne andremo presso i Cumani, per predicare loro la fede di Cristo e conquistarli al Signore”. Sta di fatto che i “Cumani” restano un simbolo e un orizzonte per i domenicani.

Come già accennato, di ritorno dal secondo viaggio in Danimarca, Domenico va a Roma, per chiedere al papa l’autorizzazione a recarsi presso quei popoli da evangelizzare. Ma sappiamo come sono andate le cose, e Domenico si ritrova là dove infuriava il conflitto dentro la cristianità, dove era in atto una crociata e dove erano già operative alcune delegazioni di monaci per riportare alla chiesa gli eretici. Là dove, come abbiamo visto, prende vita il monastero femminile di Prouille.

Se ne vogliamo trarre qualche conseguenza, si capisce che quella di Domenico non è una spiritualità chiesastica,  ma ecclesiale, tanto che egli viene invocato come “Lumen ecclesiae”, lo stesso nome che verrà dato alla Costituzione dogmatica sulla chiesa nel Vaticano II: una spiritualità che sboccia, come in una serra, nella comunità di Osma, ma che poi cresce e matura nel campo di azione in Liguadoca, dove viene come forgiata e orientata dagli eventi. Non è una spiritualità pietistica costruita al di fuori del mondo, ma è pietà vera e profonda che si fa solidarietà e azione: compassione e intercessione. Si dice di lui che era assetato – “sitientissimus” – della “salvezza delle anime”, una espressione che non è però vuoto desiderio, ma si cala nel tempo e nello spazio della sua esistenza quotidiana, a proposito della quale testimoni oculari ci dicono che egli “concedeva il giorno al prossimo, ma la notte la dava a Dio”.

Dalla deposizione di fra Stefano di Spagna abbiamo quest’altra testimonianza: “Era pieno di zelo per la salvezza delle anime più di qualunque altro uomo conosciuto… si dedicava alla predicazione con assiduità e sollecitudine e nel predicare usava parole così commoventi che spesso si emozionava fino alle lacrime e faceva piangere gli uditori. Il teste non udì mai nessun altro che usasse parole tanto capaci di muovere i frati alla compassione e al pianto. Ed era sua consuetudine parlare sempre di Dio e con Dio, sia in casa che fuori di casa durante i viaggi. Ed esortava i frati a fare altrettanto e volle che ciò fosse messo nelle Costituzioni. E questo il teste lo sa perché lo vide, lo udì e ne fu spettatore quando visse con lui”.

La formula che meglio focalizza la personalità e la spiritualità di Domenico è in queste parole che i testimoni dicono di lui: parlava con Dio e di Dio, parlava a Dio degli uomini e agli uomini di Dio, due facce della stessa medaglia, che sono un programma di vita. Egli volle infatti che questa formula venisse inserita nel testo delle prime Costituzioni dell’Ordine, dove si raccomandava ai frati di ”seguire le orme del loro Signore, parlando con Dio di Dio in se stessi e con il prossimo” (Dist II,31,3). Era qui  il punto più profondo della dottrina spirituale di Domenico, e c’è da dire che questo richiamo lo troviamo molte volte nelle deposizioni di testimoni dopo la sua morte.

Toccherà a san Tommaso d’Aquino tradurre l’esperienza e il messaggio di vita che ci viene da queste parole nei termini con cui definisce il carattere dell’Ordine dei Predicatori: “Contemplari et contemplata aliis tradere” – darsi alla contemplazione ma insieme rendere partecipi gli altri della propria contemplazione! In qualche modo si ripete quanto Giovanni apostolo dice nella sua prima lettera: “E ciò che abbiamo visto e udito lo annunciamo anche a voi, perché voi pure siate uniti a noi spiritualmente, come noi lo siamo col Padre e col Figlio suo, Gesù Cristo” (1Gv 1,3). Non si tratta di preparare discorsi da fare agli altri, ma di coinvolgere anche gli altri nella propria contemplazione come esperienza e comprensione del mistero della salvezza!

 

3 – Perché un “Ordine dei predicatori”?

Le parole di san Tommaso non solo mettono a fuoco la fisionomia spirituale di Domenico ma prefigurano la finalità e la struttura dell’Ordine religioso a cui egli darà vita. Per la verità, sappiamo che egli non pensa minimamente a creare una nuova istituzione per fare quello che la chiesa dovrebbe fare ed essere per se stessa. Come uomo di chiesa, nella sua predicazione si contenta di adottare lo stile di povertà degli altri movimenti evangelici: una predicazione fatta nella incertezza del luogo, nella precarietà del sostentamento, in condizione di uguaglianza e di fraternità con tutti i destinatari. Che era la sua prassi personale quotidiana.

Ma col tempo addiviene alla convinzione che, pur nel rispetto di tutte queste condizioni, la predicazione deve conservare, insieme alla coerenza evangelica, il suo carattere di mandato e il suo contenuto dottrinale. Insomma, pur essendo un fatto profondamente personale e vissuto, la predicazione non può ridursi a qualcosa di soggettivo, ma deve mantenere la sua dimensione ecclesiale originaria e la sua destinazione universale. Così come non può risolversi in operazione dottrinale o catechistica!

E perché la chiesa abbia sempre nel suo seno chi ne interpreti la natura insieme evangelica ed apostolica, è necessario che qualcuno le assicuri la fisionomia di quello che essa dovrebbe essere per natura: incarni la sua vocazione profetica nel tempo allo stato nascente! Il metodo apostolico maturato personalmente da Domenico diventa via via progetto e proposta per la chiesa e di chiesa. Di qui la verità di queste parole del Prefazio nella liturgia della sua festa: “Intento  a parlare con te e di te, crebbe nella sapienza, e facendo scaturire l’apostolato dalla contemplazione, si votò totalmente al rinnovamento della chiesa”

Una progressiva sofferta presa di coscienza lo porta a tentare in tutti i modi e ad ottenere con fatica l’approvazione canonica di quanto aveva sperimentato personalmente in risposta alle urgenze del momento. Ottiene una prima autorizzazione locale dal Vescovo di Tolosa per dare vita ad una comunità in parallelo a Prouille. Ma un’approvazione universale la vuole anche dal Papa, che in un primo momento la nega, ma poi la concede. Domenico cerca e vuole l’istituzionalizzazione del suo movimento, e a questo si dedica, dando però una struttura agile e democratica al suo Ordine all’insegna della mobilità e della funzionalità alla pura e semplice “predicazione del vangelo”, tanto che nella Costituzione fondamentale si dice che tutti “con uguale diritto e libertà, provvedono allo sviluppo della missione dell’Ordine e ad un conveniente rinnovamento dell’Ordine stesso”. E di seguito leggiamo parole che forse non ci aspetteremmo: “Questa continua revisione è indispensabile non solo per uno spirito di perenne conversione cristiana, ma anche per la vocazione propria dell’Ordine che esige da esso una presenza nel mondo adatta ad ogni generazione” (VII). Da dove emerge tutta la originalità e il genio di legislatore e la statura di riformatore di Domenico!

Domenico dunque ha messo a fondamento del suo Ordine una comunità  formalmente costituita non però come fine a se stessa, ma come via obbligata alla predicazione come fonte perenne della vita e della missione della chiesa: una comunità dotata di tutti gli elementi per essere feconda e duratura, sul modello della prima comunità cristiana, ma anche nella imitazione degli Apostoli come mandati a predicare il vangelo. Una comunità che fosse lo sviluppo al maschile del monastero di Prouille e diventasse “Casa di predicazione”! Impresa non facile nel contesto giuridico e spirituale della chiesa di allora, ma anche per le resistenze emerse subito all’interno del piccolo gruppo che gli si era formato intorno: i suoi compagni non vedevano infatti facilmente praticabile conciliare le esigenze di una comunità stabile con la scelta della povertà, della itineranza e della mendicità per una predicazione del vangelo autenticamente evangelica e credibile. Si trattava di evangelizzare evangelicamente, di coordinare evangelizzazione  ed evangelismo!

Istituzionalmente Domenico ha creato così una struttura comunitaria ad attrazione centripeta quanto a fraternità, ma a spinta centrifuga quanto ad azione apostolica, equilibrio sempre difficile da ricreare e da mantenere anche per noi, tanto è vero che tensioni interne di questo tipo ci sono sempre state e ci saranno. Nei giorni in cui si assiste alla vicenda di Bose, forse possiamo capirci qualcosa se teniamo presente che mentre la forma-monastero della vita cristiana è uno spazio definito ed autocratico - un hortus conclusus – il convento è da intendere piuttosto come catalizzatore: non un fine ma un mezzo che deve rispondere alle finalità per cui nasce ed a cui deve modellarsi di volta in volta, soprattutto quando è in gioco un “cambiamento d’epoca”.

Ma quali sono gli elementi costitutivi di questo organismo regolato da principi di corresponsabilità e di democrazia, a differenza delle comunità monastiche tradizionali? Queste erano basate sulla sottomissione e dipendenza quasi feudale da un abate a vita, e quindi con al centro una “paternità” in senso verticale. La nuova struttura di comunità è a carattere orizzontale sulla base della fraternità, da dove il nome di “frati”, e quindi nel segno della  partecipazione e della  corresponsabilità. Ad un potere centralizzato e paternalistico subentra un potere partecipato di corresponsabilità. Si potrebbe dire che ad una “obbedienza dispotica” subentra una “obbedienza politica”.

Anche logisticamente, il luogo in cui una comunità risiede non è più un “monastero” in cui si vive stabilmente in maniera ordinata, ma è un ”convento”, là dove si va e si viene da itineranti e da mendicanti, quasi come cellula o nucleo di chiesa in espansione, come si lascia intendere il n.3 del libro delle Costituzioni, in cui si dice: “I frati… edifichino prima nel proprio convento la Chiesa di Dio, che poi con la loro opera devono diffondere in tutto il mondo”. Qualcosa di diverso da una “comunità di base”?

Se uno andasse a vedere lo stemma tradizionale dell’Ordine vi vedrebbe campeggiare la parola “Veritas”, che non è appunto unanimismo, ma arte e ricerca di convergenze ad extra! Un adagio tradizionale tra i domenicani associa la parola verità a fraternità e dice: “In dulcedine fraternitatis, quaerere veritatem” – alla ricerca della verità in dolce fraternità! Rimaniamo radicati nella fraternità mentre serviamo la verità. Pensare che non sia possibile una conciliazione tra le diverse istanze e tensioni di responsabilità comunitaria e di azione personale nella vita apostolica, equivale di fatto a dire che non è possibile una chiesa aperta o “in uscita”. Da uomo evangelico, Domenico si è mosso sul filo della precarietà delle situazioni, ma fondato nella radicalità della fede!

Sull’impianto comunitario proprio della chiesa egli struttura una forma aperta di comunità, fatta per rispondere alla finalità primaria della predicazione in ordine alla salvezza per la fede. Il convento diventa per lui la “casa di predicazione”, la “domus praedicationis”: non un luogo separato di preparazione o di sospensione, ma già predicazione in atto nel parlare con Dio per parlare di Dio, alla stessa maniera in cui Gesù fondeva preghiera e azione.

Il convento, pur nella sua materialità, è un luogo simbolico del modo di stare al mondo in solidarietà, in comunicazione, in interazione: tutt’altro che un luogo di conformismo, di omologazione, di adagiamento. Almeno questo ha voluto e insegnato Domenico ai suoi frati, per cui non si è domenicani se non in situazione e proiettati agli altri; mai per una occupazione di spazi o ruoli ufficiali da ricoprire nel sistema-chiesa, assumendosi responsabilità personali di annuncio del vangelo al di fuori dei canali pastorali standard. Il luogo spirituale in cui ritrovarsi in fraternità è il mondo, fino agli estremi confini della terra. Si potrebbe ripetere per l’Ordine di San Domenico quanto si diceva al tempo del Concilio Vaticano II: che l’ordine del giorno della chiesa è il mondo e la sua storia!

Ed allora vediamo Domenico in continua peregrinazione, non solo senza un convento fisso, ma anche senza una propria cella e un proprio letto nei vari conventi in cui faceva sosta. Ad evitare che ci fossero impedimenti alla predicazione non volle che ai frati venissero assegnate cura e proventi di chiese. I conventi mantenevano sì i tradizionali ritmi di preghiera liturgica, ma in maniera più spedita, mentre la preghiera incessante non doveva venir meno durante i continui spostamenti. Santa Caterina arriva a parlare di una “cella interiore” ed autorizza quindi a parlare di un “convento interiore” che deve dare un’anima anche ai conventi di pietra, ridotti altrimenti a monumenti. Così come della chiesa, se non è prima di tutto struttura interiore, anche il convento diventa un blocco per le sue stesse finalità! 

È per questo che Domenico, oltre la povertà dei singoli, esclude per il convento in quanto tale ogni proprietà, al tempo stesso in cui lo spoglia di ogni garanzia ecclesiastica che non fosse il mandato e il servizio del vangelo a cui consacrarsi. Del resto quando Gesù dice ai discepoli di andare senza borsa e senza bisaccia non si deve pensare ad una esortazione per i singoli ma ad uno stile comune. Quindi, anche la testimonianza di povertà e di umiltà deve essere del soggetto-convento, che deve trovare il modo di viverla. Per capirsi con una battuta, la chiesa non è necessariamente ed esclusivamente parrocchia, e se l’amministrazione dei sacramenti richiede questa struttura, la predicazione della Parola di Dio postula altri strumenti!

Ancora un punto: se per il monastero valeva la regola dell’“ora et labora”, per Domenico scompare il “lavoro”, che sarebbe vincolante e alternativo all’impegno di predicazione, mentre per il sostentamento ci si affida alla mendicità. Unitamente a quello della preghiera, l’impegno rilevante dei frati diventa invece lo studio non come lusso o motivo di prestigio, ma come contemplazione, approfondimento della Parola di Dio e intelligenza della fede da condividere. Per questo ogni convento è in quanto tale una “scuola di teologia”: un luogo di confronto, di dialogo, di comunicazione e di comunione, di osmosi spirituale e culturale. Se non è abitato da questa passione di fondo, il convento rischia di diventare un guscio vuoto, che si riempie magari di storia, di arte, di memorie, di pietismo gratificante, ma non sarà mai quell’avamposto nella battaglia per la fede alla quale Domenico chiama i suoi seguaci. Non ci sarebbe bisogno anche oggi di una predicazione del vangelo meno clericale e più evangelica? Una predicazione meno scontata e prevedibile, più libera e più credibile, rivolta ai “Cumani” e alla gente, prima che per il “prurito di udire qualcosa”, come dice san Paolo in 2Timoteo 4,3: “Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie”. Il problema esiste fin dalle origini, c’era al tempo di Domenico, ma certamente non è meno urgente oggi.

Volendo concludere, si può dire che la figura di Domenico ha uno strano destino: non presenta fatti eclatanti per essere conosciuta come avviene invece per altri santi, ma si muove nella normalità non consuetudinaria. Solo avvicinandolo egli rivela la sua straordinaria grandezza ed esercita il suo fascino. Per cui succede che l’Ordine domenicano è noto, più che per lui, grazie ad altre figure: san Tommaso d’Aquino, sant’Antonino, che ha avuto un suo ruolo per la nascita di questo monastero, Girolamo Savonarola di cui c’è traccia anche in questo monastero; ma pensiamo anche a Bartolomeo Las Casas, a Giordano Bruno e Tommaso Campanella.

A parte questi nomi di risonanza, c’è da dire che non mancano figure di sante che perpetuano nel tempo la priorità del ruolo femminile nella vita dell’Ordine dei Predicatori, ricordando che dovunque andasse a fondare un convento, Domenico dava vita prima di tutto ad un monastero: Roma, Madrid, Parigi, Bologna ecc… Si narra che a Bologna dicesse ai frati: “È assolutamente necessario costruire una casa per le suore, anche se per questo si dovesse soprassedere alla costruzione della nostra”. Ed è significativo il fatto che l’unico scritto autografo di Domenico che abbiamo è una lettera scritta al monastero di Madrid!

Ma a questo proposito basti ricordare che questo monastero porta il nome di santa Caterina da Siena. Come forse sappiamo, questa ragazza senese del ‘300 è Patrona d’Italia e d’Europa, ed è senza dubbio l’incarnazione più piena dello spirito e del carisma di Domenico. È ciò di cui si fa interprete lei stessa nel suo “Dialogo della Divina Provvidenza”, quando il padre Domenico le viene presentato dalla voce che le parla con queste parole: “E se tu raguardi la navicella del padre tuo Domenico, diletto mio figliuolo, egli l’ordinò con ordine perfetto, ché volse che attendessero solo a l’onore di me e salute de l’anime col lume della scienzia. Sopra questo lume volse fare il principio suo; non essendo però privato della povertà vera e volontaria… Ma per piú proprio suo obietto prese il lume della scienzia, per stirpare gli errori che a quello tempo erano levati. Egli prese l’officio del Verbo, unigenito mio Figliuolo. Drittamente nel mondo pareva uno apostolo: con tanta veritá e lume seminava la parola mia, levando la tenebre e donando la luce… Egli non vuole ch’ e’ figliuoli suoi attendano ad altro se non a stare in su questa mensa col lume della scienzia, a cercare solo la gloria e loda del nome mio e la salute de l’anime.

 

P.Alberto Simoni op

San Domenico di Fiesole, marzo  2021

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