Koinonia Maggio 2021


Questo è il tempo per essere artigiani di comunità aperte che sanno valorizzare i talenti di ciascuno. È il tempo di comunità missionarie, libere e disinteressate, che non cerchino rilevanza e tornaconti, ma percorrano i sentieri della gente del nostro tempo, chinandosi su chi è al margine. È il tempo di comunità che guardino negli occhi i giovani delusi, che accolgano i forestieri e diano speranza agli sfiduciati. È il tempo di comunità che dialoghino senza paura con chi ha idee diverse. È il tempo di comunità che, come il Buon Samaritano, sappiano farsi prossime a chi è ferito dalla vita, per fasciarne le piaghe con compassione. Non dimenticatevi questa parola: compassione.

Quante volte, nel Vangelo, di Gesù si dice: “Ed ebbe compassione”, “ne ebbe compassione”. Come ho detto al Convegno ecclesiale di Firenze, desidero una Chiesa «sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. […] Una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza». Quanto riferivo allora all’umanesimo cristiano vale anche per la catechesi: essa «afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria, l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura» (Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa italiana, Firenze, 10 novembre 2015).

Ho menzionato il Convegno di Firenze. Dopo cinque anni, la Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare.

Papa Francesco

Dal Discorso all’incontro promosso dall’Ufficio catechistico della CEI -30/1/21

 

 

“A TAVOLA CON SAN DOMENICO”

parlando di Sinodo e di Cumani

 

Ancora una volta osiamo metterci “A tavola con san Domenico” in quanto incamminati all’interno della sua tradizione spirituale ed apostolica, come persone che si ispirano alla sua passione per il vangelo, al suo impegno per una chiesa evangelica e al suo genio di evangelizzatore. Le parole del Papa riportate sopra ci dicono che è  lo stato delle cose a portarci a lui come ispiratore e quasi in azione in mezzo a noi! Del suo carisma ci sentiamo in qualche modo partecipi ma anche responsabili, sia pure nei nostri limiti. Se non altro non vorremmo che il suo giubileo scadesse in pura ritualità celebrativa.

Ed allora viene da chiedersi come reagirebbe lui oggi a queste parole del papa, che cerchiamo solo di prendere sul serio: tra l’altro c’è un forte richiamo a quella “compassione”,  che è un tratto distintivo della personalità e della spiritualità di Domenico. E quando il Papa dice che “questo è il tempo per essere artigiani di comunità aperte che sanno valorizzare i talenti di ciascuno. È il tempo di comunità missionarie, libere e disinteressate, che non cerchino rilevanza e tornaconti, ma percorrano i sentieri della gente del nostro tempo, chinandosi su chi è al margine”, non possiamo non vederci lo spirito e le caratteristiche con cui Domenico ha ostinatamente voluto il suo Ordine.

Ma come non basta registrare le parole del Papa e rimanere inerti, tanto meno basta celebrare san Domenico in chiave storica trionfalistica, se non si cerca di muoversi nella sua scia e di seguire le sue tracce per quanto i tempi richiedono anche ora, Cosa comporta, per esempio, rispondere all’appello di “incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi”? Non abbiamo né statura né forza, né accreditamenti canonici, ma sentiamo la responsabilità di farcene carico nello spirito di Domenico, come compito apostolico primario, più che come intervento amministrativo ed organizzativo: come orizzonte comune da ritrovare più che come operazione burocratica settoriale.

La matrice di tutto rimane la grazia del Vaticano II da replicare e da rivivere nelle sue istanze e nelle sue prospettive profonde più che nella sua lettera. E questo senza voler mitizzare il Concilio come punto di arrivo, ma prendendolo con le sue luci e ombre come evento di passaggio da ripetere. Uscendo da una sua ambivalenza originaria non risolta, che ha portato la chiesa a diventare nuovamente  centro gravitazionale, quando avrebbe voluto diventare evangelicocentrica e quindi concorporea al mondo.

C’è da dire che dopo le tempeste e dopo i conflitti che ne sono seguiti, il Concilio è entrato in pieno riflusso fino al ristagno, fino a possibili inversioni di tendenza e ripiegamenti nostalgici sacrali. Sì, la chiesa si va rinnovando alla superficie in senso centripeta, ma questo non fa che favorire nuova eccentricità con  la tendenza ad un accattivante spiritualismo e celebrazionismo aggiornato! Quindi in chiave prevalentemente pietista e devozionale. Così si spiega come i movimenti più innovativi hanno preso una piega di “spiritualità monastica”, a sfondo biblicista, cultuale, estetizzante, verso una chiesa ad intra riveduta e corretta, nuovo mondo a sé accanto ad altri mondi!

Il mondo rimane alla porta come da beneficare, quando il Concilio lo aveva posto all’odg e come obiettivo centrale, non riuscendo peraltro ad assumerlo come propria carne e parte viva di chiesa nel mondo! Ecco perché, come dice A.Zarri, abbiamo avuto una “teologia del concilio” come materia ed oggetto di approfondimento, ma meno una  “teologia dal concilio”, come prolungamento dello stile o modo di essere conciliare e sinodale. Si deve dire che c’è stata una teologia giustificativa e rafforzativa della tendenza centripeta, mentre è mancata una teologia che facesse da spinta critica in senso centrifugo, in sintonia con quel pensiero teologico che ha dato vita al Concilio, e che sembra essere svanito nel dopo-concilio, sia per mancanza di convinzione che a causa di interventi intimidatori e sanzionatori dall’alto.

Il mondo, si potrebbe dire, non è diventato il “fine per cui” o grazie al quale, ma è rimasto il “fine a cui” o a favore del quale: la realtà umana, storica, laica non è entrata a costituire la realtà di una chiesa che ha ripreso tutte le sue vesti sacre: il mondo è stato inglobato nel proprio universo ma non è raggiunto in quanto universo, come il vangelo esigerebbe. È rimasto un sogno spesso evocato, ma al di  fuori della propria portata o del proprio modo di essere.

C’è quindi un parallelismo convergente tra il “sogno dei Cumani” di Domenico e il sogno del Vaticano II, e come Domenico si è preoccupato e impegnato a creare  un “ordine” o una comunità di persone per poterli raggiungere spiritualmente e culturalmente prima che fisicamente, così bisognerebbe che la Chiesa ora avesse come suo assillo quotidiano portare il vangelo in ogni angolo della terra lasciandosi portare dal vangelo. Se poi ritiene di farlo già abbastanza, vuol dire che è sazia e non ha più fame e sete di giustizia, vuol dire che non vuole essere scomodata nei suoi assetti.

Le poche pagine di Adriana Zarri riportate di seguito ci aiutano a capire quale compito spetterebbe oggi ai domenicani, se davvero vogliamo dare valore profetico al centenario di san Domenico. Non possiamo dimenticare che c’è un passaggio storico da ripensare e da ripetere, quello della nascita degli Ordini mendicanti nel secolo XIII: quando da una forma di chiesa-monastero siamo passati ad una forma di chiesa-convento;  e cioè dall’abate ai frati, dalla territorialità alla itineranza, dalla stabilità alla mendicità, da una chiesa centro di città ad una chiesa al centro delle città, dalle cattedrali alle piazze ….

E quindi da una teologia circoscritta al testo sacro ad una teologia intelligentemente “pensata” in ordine alla predicazione: dal perfezionamento spirituale al dialogo culturale, là dove pensare  la fede  diventa  veicolo e innervatura di evangelizzazione e di trasmissione della fede. Per dire soltanto che l’intuizione o carisma di san Domenico non è un lusso per pochi, ma sarebbe una necessità per tutti. Non è preoccupazione per qualche aspetto di vita cristiana, ma sollecitudine per il tutto della vita della chiesa; è  compassione di misericordia per il prossimo ma anche sete di salvezza per il mondo: una salvezza mediante la predicazione

San Domenico viene invocato come “Luminare della chiesa e dottore di verità” (Lumen ecclesiae, doctor veritatis) e di lui si dice che ”facendo scaturire l’apostolato della contemplazione, si votò totalmente al rinnovamento della Chiesa!”. Nella pagina centrale di questo numero sono riprodotte immagini del Beato Angelico, che illustrano la storia di san Domenico. È una narrazione pittorica che ha il suo denominatore comune nel “sogno dei Cumani” che è al tempo stesso una consegna: quella di misurarsi con i problemi e le necessità della chiesa oggi in ordine alla trasmissione della fede e all’annuncio del vangelo. Non sarebbe male che anche l’invocato Sinodo diventasse per qualcuno un “sogno” da non lasciare nel cassetto, ma il banco di prova per sapere cosa effettivamente ci sta a cuore: il vangelo nella storia e nel nostro Paese o le cose di chiesa!

 

P.Alberto B.Simoni op

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