Koinonia Marzo-Aprile 2021
TESTIMONIANZA AUTOBIOGRAFICA DI JACQUES NOYER*
Nella Chiesa del Concilio
Con la morte di Pio XII e l’arrivo di Giovanni XXIII il clima ecclesiale si è trasformato abbastanza rapidamente. I sognatori piano piano osarono dire in pieno giorno ciò che mormoravano tra di loro. Credenti infelici quali eravamo cominciavano a respirare a pieni polmoni, In concreto, un nuovo vescovo mi chiamò al Grande Seminario, prima come professore di filosofia e immediatamente dopo come Superiore. Il mio rapporto critico con la Chiesa poté diventare un rapporto costruttivo.
L’apertura del Concilio, la conversione dei vescovi che si operò in quel contesto, il nuovo sguardo sulla liturgia, sul ministero, la Parola di Dio, la missione nel mondo, tutto ciò metteva gioia ed entusiasmo nel mio cuore di credente. L’onda dell’aggiornamento superava di gran lunga i miei piccoli sogni che ritenevo audaci. Roma, in qualche mese, era diventata il motore del cambiamento invece di essere il centro dell’inerzia. I piccoli rivoluzionari che pensavamo di essere diventavano i più zelanti e i più obbedienti all’interno del Concilio. In qualche anno, mi ritrovavo fra i principali testimoni del Concilio, mobilitati per metterlo in moto nella vita concreta del popolo di Dio. Come ogni cambiamento deciso dall’alto, questo incontrava resistenze, ma la gente da secoli era abituata ad obbedire. Si diceva loro che ora dovevano parlare; loro annuivano senza dire niente. La ricezione del Concilio è stata segnata senza dubbio da questa grande difficoltà: si cambiavano gli abiti, ma i monaci restavano pressappoco gli stessi.
Ci è successo anche di ritrovarci costretti a svolgere il ruolo di pompieri, mentre avremmo voluto appiccare il fuoco. Gli avvenimenti del maggio ‘68, per la violenza delle contestazioni, per la folle anarchia dei sogni e dei progetti, ci portavano a metterci dalla parte dell’ordine e dell’autorità. Nella Chiesa, i maestri del sospetto, Marx, Nietzsche e Freud, portarono lo Spirito Conciliare molto al di là di quanto Egli volesse. Non era poi così facile denunciare gli idoli senza uccidere Dio, difendere i poveri senza servire il Partito, liberare i “super-io”, senza sguinzagliare nella natura gli impulsi primitivi. Si cominciò ad avere paura di ciò che stavamo realizzando. Gli appelli alla prudenza si moltiplicarono: “Non andate troppo in fretta!”, “Tutto il Concilio, solo il Concilio!”, “I testi sono saggi, gli spiriti sono folli!”. Mons. Léfèbvre organizzava la sua contro-Chiesa e dava inizio allo scisma che sappiamo.
Quando, dopo 10 anni come parroco, fui chiamato a condividere il ministero episcopale, trovai ancora ad accogliermi nell’assemblea dei vescovi gli artigiani del Concilio, sempre portatori dello Spirito Conciliare. Erano le loro voci quelle che si ascoltavano. Ma molto presto voci più giovani, testimoni di un’epoca nuova senza dubbio, hanno sostituito i primi. Il Concilio Vaticano II perdeva di attualità e i papi che si sono succeduti hanno delicatamente incensato il Concilio per seppellirlo meglio.
Anche se cerchiamo di nasconderlo, non possiamo evitare di ammettere che abbiamo perso una battaglia. Certo, non si tornerà mai completamente come prima. La Chiesa è uscita dalla cristianità, in parte comunque. Ma il sogno che mi ha spinto ad impegnarmi nel 1945 si riconosce male in quel che oggi trovo nella Chiesa. Se non reagisco, andrò a raggiungere quelle masse di disperati che hanno lasciato la Chiesa per unirsi al realismo del mondo. Sono così numerosi sulla mia strada quelli che mi dicono: “Avevamo sperato! Ci avevamo creduto! Ma non è cambiato niente e siamo andati da un’altra parte...”! Tutti i giorni mi ritrovo così sulla via di Emmaus.
Nella maliconia di una battaglia persa... o forse no
Da quindici giorni ho lasciato la responsabilità di una diocesi. Mi ritrovo spettatore di una storia di cui fui attore impegnato. Resto tuttavia in mezzo al popolo di Dio e mi faccio un obbligo di mostrarmi coraggioso e pieno di speranza. La Chiesa ha delle difficoltà, ma se la caverà. Nel corso dei secoli, ha conosciuto passaggi ben più difficili e ha resistito. La fede non è forse questa speranza nonostante tutto, questa fiducia oltre l’evidenza? Come potrei lasciar vedere il mio scoraggiamento? Ed ecco che lentamente il tempo mi porta al margine di questa storia. Mi ritrovo fuori dalla corsa e il mio parere non ha più peso. Mi succede ancora di applaudire alle imprese e ai successi dei miei giovani confratelli che continuano a portare la Chiesa nei meandri dell’attualità. Ma io ho il diritto di essere sincero e di confessare che abbiamo perso.
La generazione uscita dalla guerra con la voglia di cambiare le cose scompare lentamente e il paesaggio ritorna quello tradizionale. Voglio credere che qualcosa resterà delle nostre lotte, perché la storia non ritorna mai totalmente indietro. Forse qui o là quel che abbiamo seminato prenderà vita proprio dove non ce lo aspettavamo. Forse, il giorno del mio funerale qualcuno salverà il mio onore dicendo: “Ai suoi tempi, non aveva completamente torto! È stato coraggiosamente fedele alle proprie illusioni! Preghiamo per lui: tutti possono sbagliare!”. Ma nella celebrazione, i chierici avranno scacciato i laici dal coro, si farà la comunione sulla lingua, i canti saranno riservati ai cantori e le donne prepareranno la colazione per quelli che sono venuti da lontano. Ma riconoscere il proprio fallimento non ha alcun interesse se non si prova a capirne le ragioni. Mi appare evidente che non abbiamo usato il metodo giusto. Abbiamo sperato che un Concilio avesse sufficiente autorità per cambiare il popolo cristiano. Abbiamo creduto che si potessero cambiare le cose dall’alto, per decreto, definendo come avrebbero dovuto essere. Io stesso ho passato troppo tempo a descrivere la Chiesa del mio cuore davanti a una Chiesa imbacuccata nelle sue abitudini. Abbiamo voluto far riuscire il Vaticano II con i metodi del Vaticano I. Per avere il coraggio di innovare, abbiamo dovuto provare che era già stato fatto: diaconi? Perché no dato che ce ne erano già stati? Il Concilio sembrava avesse l’audacia che gli dava lo Spirito, in realtà tremava all’idea di offendere il passato. Volevamo passare il guado, ma senza toccare il fondo, senza appoggiarci sul terreno delle certezze. In mezzo al guado ci siamo spaventati e il grosso della truppa è tornato a riva. I pochi audaci che avevano attraversato si sono trovati persi, isolati: avevano lasciato la Chiesa senza davvero volerlo.
Alla mia età, la tentazione è quella di continuare il combattimento con qualche vecchio combattente. Si può cantare insieme la speranza comune che ci sosteneva e criticare i giovincelli senza esperienza che distruggono il poco che noi siamo riusciti a fare. Non penso tuttavia che questo atteggiamento da vecchio brontolone sia utile a qualcosa. Non mi sembra però possibile cambiare il mio desiderio profondo per accordarlo alla moda del tempo. Resto profondamente attaccato all’idea che la nostra Chiesa deve cambiare faccia, deve rinunciare a guardare il mondo dall’alto, deve dire il vangelo con linguaggi nuovi. La fede che è in me, così com’è sempre stata, non è sottomissione infantile a un’istituzione onnipotente, ma sequela attiva di Gesù che cerca di aprire la strada verso Dio denunciando i dottori della legge e i capi dei sacerdoti di ogni tempo.
Ecco che ora la figura di papa Francesco si leva all’orizzonte. Anche lui porta il sogno di una Chiesa liberata dalle sue preoccupazione di fortezza assediata, per portare la Parola di Dio nelle periferie delle nostre società. Non parla quasi mai del Concilio e non ne ha mai fatto un tema di autorità. Denuncia tutti quelli che dicono di difendere il vangelo e non difendono in realtà che il loro mezzo di sussistenza, i loro privilegi e la loro vanità. Considera senza scappatoie i problemi dell’umanità oggi e invita tutti quelli che amano gli uomini a trovare insieme delle soluzioni. Mi aiuta a capire il nostro errore: volevamo insegnare al popolo di Dio per cambiarlo secondo il nostro sogno, cambiare la dottrina per renderla moderna. Qualunque cosa pensassimo, restavamo all’interno della Chiesa. Anche un testo moderno come la Gaudium et spes, restava un documento interno. Con Francesco, si aspetta che la Chiesa cambi semplicemente ascoltando le grida e le preghiere del mondo. Dicevamo di voler dare la priorità ai poveri, lui ci dice di andar loro incontro: sono loro che ci diranno quel che dobbiamo fare. Non si tratta di obbedire al papa, ma di rispondere all’appello dei più piccoli tra i fratelli del Figlio dell’Uomo.
Non bisogna stupirsi del fatto che la gerarchia, abituata a ricevere gli ordini dall’alto, sia reticente. Avevamo avuto l’ingenuità di pensare che sarebbero stati i chierici a risvegliare il popolo di Dio. No, è il grido degli uomini che risveglierà i chierici. La mia fede in Cristo ritrova così un nuovo slancio. Abbiamo perduto una battaglia, ma non abbiamo perduto la guerra. La lotta continua.
Jacques Noyer
(traduzione dal francese di Donatella Coppi)
*Da Le goût de l’Évangile, Temps Présent Éditions, 2020, pp. 20-24