Koinonia Marzo-Aprile 2021
Dove Hans Küng sembra parlare di sé
“CRITICI IN NOME DELLA LEALTÀ E LEALI IN NOME DELLA CRITICA”
Se la chiesa, come chiesa pellegrina, resta continuamente in cammino anche nella sua dottrina; se sono sempre fondamentalmente possibili, nel corso della storia, ma anche nello stesso tempo, molte formulazioni dell’unica fede; se tutta la verità non può mai essere compresa soltanto in un enunciato e la apertura verso la verità sempre più grande è essenziale per la chiesa, non si intende ancora tuttavia con tutto questo che la forma delle confessioni e definizioni della chiesa vada continuamente cambiata. Sarebbe utopico pensare che la chiesa, nelle sue formulazioni della fede, possa ricominciare continuamente dal punto zero o che sia addirittura in grado di fare ogni giorno una revisione generale. Ogni direttore d’industria ci pensa su dieci volte se, nel caso di un prodotto ben lanciato, debba cambiare la (forse già invecchiata) confezione, presentazione o addirittura il nome; ci possono anche essere alcuni, che non riconoscono il vecchio prodotto. Tanto più la chiesa si dovrà guardare dal cambiare senza necessità o senza motivo ‘confezione’, ‘presentazione’, ‘denominazione’ della sua fede o dal lasciare addirittura tutto questo all’arbitrio del singolo. Si tratta in fondo di ciò che costituisce la base di esistenza, non solo del singolo, ma di tutta la comunità. E, non il singolo isolato, ma la comunità di fede è l’ultima istanza per la regolazione del linguaggio della fede in questa comunità. Il singolo ha il diritto di esprimere la sua critica. Ma resterà, certo consapevole del pericolo che, con la sua formulazione personale, può giungere ai confini della chiesa, cioè all’incredulità.
D’altra parte, ciò non impedisce affatto la necessaria riflessione critica, purché, a costituirne la base, non sia una sfiducia radicale per le confessioni e le definizioni della chiesa, ma la fiducia fondamentale nel fatto che numerose formulazioni della tradizione della chiesa sono formulazioni rimaste fedeli al contenuto della fede ed anche comprensibili per il tempo nuovo. Non vanno nemmeno dimenticate situazioni straordinarie di necessità della chiesa e della sua fede, dove si tratta di essere o non essere ed è suonata l’ora della professione Si può anche dover trovare una nuova professione di fede impegnante con una determinata regolazione del linguaggio, affinché la chiesa possa dare davanti al mondo la sua testimonianza per l’evangelo con estrema serietà e decisione assoluta. Toccherà poi allora al singolo ed ai singoli gruppi non incrinare, ma rafforzare questa professione comune. Questo non significa però che la chiesa, proprio nella preoccupazione per la fede comune in un’altra situazione, non possa anche rinunciare ad una formula unitaria, e, per amore dell’unità della chiesa, non vi sia in certi casi addirittura obbligata, come il concilio di Firenze, ad esempio, ha rinunciato all’inserimento del Filioque nel credo greco.
L’interpretazione storica sa quindi unire il rispetto per il vecchio con il coraggio per il nuovo, fa essere critici in nome della lealtà e leali in nome della critica. Ma una tale interpretazione storica è in grado di risolvere tutti i conflitti tra la convinzione di fede del singolo e la fede della chiesa universale? Questa è l’ultima domanda, che - spesso interrogati in proposito - dobbiamo qui affrontare. Non è per lo meno qui inevitabile una manipolazione della verità, almeno quando si vuole evitare un’uscita dalla chiesa? Esiste un conflitto tra fede e fede, in cui non si può stabilire in partenza, ove risieda la superstizione, l’errore di fede, la non-fede. La chiesa e i suoi rappresentanti dovrebbero sempre aver avuto ragione nei confronti del singolo? E Tommaso d’Aquino, Savonarola, Lutero, Galilei e tutti i teologi condannati nei secc. xix e xx? Oppure, al contrario, dovrebbe sempre aver avuto ragione il singolo nei confronti della chiesa? E tutti i reali piccoli e grandi agitatori ed anarchici, che, con motivazioni ampiamente dubbie, hanno attaccato la fede comune della chiesa?
Tutta la difficoltà della problematica sta proprio nel fatto che, nelle difficili discussioni circa la fede, non si può già sapere definitivamente in partenza, ove sia la verità. Come può essere nel caso che un fisico, sulla base di una serie di esperimenti, giunga ad un risultato, che contraddice una teoria fisica riconosciuta universalmente. Può aver fatto una scoperta di enorme importanza, che costringe al ripensamento tutta la scienza fisica e fa vedere tutto in una luce nuova; quell’uomo finora sconosciuto è un secondo Einstein ed un potenziale premio Nobel. Ma può anche essere altrimenti: egli può aver molto semplicemente sbagliato nella sua serie di esperimenti e sarà lui solo a dover ripensare, senza diventare nessun premio Nobel. Che cosa farà dunque il fisico in un tale caso di conflitto? Egli rifarà per lo meno i conti e sottoporrà tutti i suoi esperimenti ad un rinnovato ed approfondito controllo in tutti i sensi. Il suo errore può essere difficile da scoprire, ma può anche essere dovuto in fondo ad un inspiegabile cortocircuito, che gli farà mettere le mani nei capelli. Egli dev’essere comunque molto sicuro nelle sue cose, se vuole andare contro un ‘dogma’ della fisica (ed anche le scienze naturali hanno i loro dogmi, che non si possono mettere in forse a piacimento). Ma che cosa fa, se il conflitto permane? Rinnegherà la sua conclusione, solo perché contraddice la teoria generale? Naturalmente, no; sarebbe un rinunciare alla verità. Proporrà dunque il suo risultato come assolutamente sicuro, traendone già tutte le conseguenze radicali? Per questo, il suo proprio errore è ancora troppo poco escluso dopo tutti i controlli, ed anche nella scienza non è positiva una furia frenetica. Considererà piuttosto come un’esigenza della sua veracità scientifica, di cui fa anche sempre parte una buona dose di modestia, non tacere, ma proporre alla discussione generale il suo risultato ed attendere prima di dare il suo giudizio definitivo.
Si dovrebbe già aver capito che cosa significa questo per il teologo, il quale, nella sua indagine esegetica, storica o sistematica, giunge ad una conclusione, che non concorda con la fede della chiesa universale, con una certa quale confessione o definizione. Un tale caso di conflitto è sempre possibile, non solo per il teologo cattolico, ma, anche per quello non cattolico, non solo nell’arco dei quattro dogmi vaticani (primato ed infallibilità pontificia, immacolata concezione ed assunzione in cielo di Maria), ma anche in rapporto agli antichi concili. La storia della teologia dimostra come ci siano sempre nuovi problemi e quanto spesso non si possa stabilire in partenza dove stia la verità dell’evangelo; alcuni furono giustamente condannati come eretici sulla base del messaggio cristiano originario, altri riabilitati dopo la loro morte; alcune affermazioni furono giustamente lodate come ortodosse, altre invece rifiutate, dopo un certo tempo, come non rispondenti all’evangelo. Spesso solo il tempo permette di comprendere in una certa misura una situazione confusa. In un caso di conflitto, il teologo esaminerà quindi soprattutto se stesso, le sue premesse, il suo materiale, il suo metodo, le sue implicazioni, risultati e conseguenze. Qualora lo abbia fatto onestamente e debba restare nella sua convinzione, non agirà ipocritamente, ma si atterrà con veracità alla verità conosciuta, senza dire o scrivere nulla, che egli non creda. Va esclusa in ogni caso una manipolazione della verità.
Ma non diventerà per questo nemmeno orgoglioso, non giocherà all’insurrezione, non indirizzerà alla chiesa o ai suoi rappresentanti nessun ultimatum di concedergli immediatamente l’approvazione; egli continuerà a ritenere possibile con veracità un suo errore od un cortocircuito. In questo periodo di discussione non chiarita, egli non rinuncerà con tutta veracità né alla sua convinzione scientifica, né alla fede della chiesa. Non cercherà nessuna soluzione comoda, quale è continuamente raccomandata dai terribles simpli/icateurs, e non sacrificherà in nessun caso l’una all’altra. Egli sa fin troppo bene che qui c’è in gioco molto di più che in un conflitto nella scienza fisica; egli sa che ne deriverà un aiuto per lui stesso e per la chiesa, solo se avrà il coraggio di camminare in cresta tra due abissi e di sostenere il conflitto. Egli quindi non tacerà, e non si ammutinerà. Non si lascerà intimidire ma nemmeno aizzare. Egli non permetterà che una qualche autorità umana abusi della sua ‘ubbidienza’, ma non dimenticherà mai il suo inserimento nella comunità di fede. Egli non farà nessuna ritrattazione contro il suo sapere, ma non si ribellerà nemmeno contro la chiesa. Dirà invece il suo punto di vista nella forma giusta e davanti al pubblico giusto - ambedue le cose sono importanti! -, si esporrà alla discussione con serena superiorità e senza paura e saprà attendere - in certi casi anche a lungo -, prima di dare il suo giudizio definitivo. E, con il tempo, si vedrà dov’è la verità: in lui, nella chiesa, o - ci sono tante mezze verità - in tutt’e due.
La verità di questo teologo si affermerà forse così molto tardi. Ma, in compenso, si affermerà senza nuove divisioni, in tutta la chiesa. E questo dovrebbe stare a cuore ad ogni teologo, come membro della comunità di fede. Questo gli dovrebbe rendere sopportabile un’attesa paziente. O ci dovrebbe essere ancora oggi qualcuno dell’opinione che valga la spesa, invece di questo, di fondare una nuova chiesa per una nuova verità scoperta? Lutero è scusato, perché fu proprio ciò che non volle. Egli fu escluso già all’inizio della discussione, scomunicato da gente, che viveva in un altro mondo (Renaissance) e che aveva chiaramente capito ben poco dei suoi obiettivi teologici, cosicché si avviò la disgrazia della divisione. Oggi, guardando la deprimente e progressiva frantumazione del protestantesimo, dovrebbe essere evidente per ogni teologo che non ha senso per lui e che non costituisce nessuna via d’uscita per la chiesa mettere in conto una nuova divisione della comunità o separare se stesso come singolo, per amore di una nuova verità scoperta. Né l’esclusione, né l’uscita dalla chiesa è la buona soluzione del conflitto: la buona soluzione è invece l’accettazione paziente e coraggiosa delle difficoltà, il sopportarsi a vicenda e la comune ricerca della verità, con veracità radicale, all’interno della chiesa: non una manipolazione della verità, ma il «dire la verità nell’amore» (Ef 4,15).
Hans Küng
in Veracità per il futuro della Chiesa, pp.199-205