Koinonia Marzo-Aprile 2021


LA FEDE DI ABRAMO (I)

Una questione di vita e di attesa

 

Che cosa intendeva Gesù quando, a chi gli chiedeva che cosa dovesse fare per compiere le opere di Dio, rispondeva: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato” (Gv 6,28-29)? Cosa può significare per noi tutta questa importanza che viene data al credere? E come parlare di fede senza dare adito a certe spiritualizzazioni, o a quelle tendenze intellettualistiche più o meno astratte e del tutto lontane dalla nostra vita di ogni giorno? Giacché la fede non è mai fine a se stessa, ma sempre è legata alla nostra vita in tutta la sua concretezza fino a rivolgersi a quelle concrete cose che si sperano e che ancora “non si vedono” (Eb 11,1).

È per rispondere a queste domande, e per comprendere dunque le azioni del credere, che ci accosteremo alla figura di colui che in molti riconoscono come il padre dei credenti: Abramo. Ebrei, cristiani e musulmani hanno infatti quest’uomo come riferimento preciso per la fede, ed è a lui che dobbiamo continuare a guardare per capire come vivere la nostra fede. Ci sarebbero certamente meno lotte in nome di Dio se tutti ci riferissimo ad Abramo, se tutti dialogassimo da fratelli alla luce del modo di dialogare e di credere di quest’unico padre che ci fa conoscere l’unico Dio. Ha detto Lévinas: “Abramo non riconobbe Dio per primo. Ma è stato il primo a fondare una famiglia monoteista” (Difficile libertà).

Certo, molta acqua è passata  sotto i ponti e le cose si sono maledettamente complicate: il mondo non è più quello dei tempi di Abramo, gli uomini non sono più quelli, e nemmeno Dio – se così si può dire – è più lo stesso di allora. Quando Gesù dice: “Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Gv 8,56). Egli era infatti già “in principio, presso Dio” (Gv 1,2), ma soltanto in un giorno preciso nascerà da una donna, e in un altro giorno preciso patirà sotto Ponzio Pilato. E se pensiamo che per noi oggi, il tempo che ci separa da Gesù è superiore al tempo che separava Gesù da Abramo, percepiremmo quanto incide il trascorrere del tempo all’interno della fede. Se venisse Gesù oggi farebbe e direbbe le stesse cose di duemila anni fa? C’è da dubitarne. Il Dio di Abramo è Dio della storia, è il Dio che segna la storia, che cammina nella storia, che soffre e gioisce nella storia, fino a restarne segnato in eterno. Ecco perché può persino arrivare a pentirsi di quel che ha fatto se non dovesse corrispondere al suo desiderio, e persino a cambiare idea se quello che avviene davanti a lui lo spinge a farlo. Ci avvicineremo dunque ad Abramo non solo per comprendere le dinamiche della sua fede, ma anche il carattere e il modo di agire del Dio di Abramo.

Per professare la propria fede un ebreo non direbbe mai, come noi diciamo: “Credo in un solo Dio Padre onnipotente …”. No, all’ebreo basta dire: “Mio padre era un Arameo errante …” (Dt 26,5). Come dire: Dio non è un’entità astratta sulla quale dobbiamo e possiamo fare disquisizioni metafisiche, ma un Dio di qualcuno, un Dio che si manifesta a degli uomini che compiono determinate cose, che parla loro, facendo promesse, agendo in loro favore. Il Dio che si rivela ad Abramo è l’unico Dio nel mondo antico che non viene raffigurato, ma è anche l’unico che parla e ascolta coinvolgendosi con tutto se stesso. Attorno ad Abramo ci sono gli idoli, che si possono vedere e toccare, davanti a lui sta invece l’invisibile Dio che gli parla e al quale egli può parlare. Non soltanto infatti Dio parla e gli uomini ascoltano, ma anche l’uomo parla e Dio lo ascolta. L’imperativo dato a Israele non è altro che questo: “Shemà, Israel”, “Ascolta, Israele” (Dt 6,4). Il modo di credere ebraico prende origine dall’ascolto, senza ascolto non ci può essere né opera né fede, e se il popolo d’Israele risponderà al suo Dio: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7), come dire: vero ascolto si ha nell’eseguire quanto Dio dice. Ed è da tutto ciò, non da altrove che viene la fede. “La fede viene dall’ascolto” (Rm 10,17) dirà Paolo in quanto “israelita” discendente “di Abramo” (Rm 11,1).

Dunque la fede di Abramo inizia proprio da quel suo partire facendosi errante e pellegrino dopo avere ascoltato la voce del suo Dio. Quando Dio gli ordina: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò” (Gen 12,1), egli parte, senza indugio. Il comando è purissimo e tremendo al tempo stesso, richiede un taglio deciso con tutto ciò che fin lì per lui è stato, un affacciarsi su un futuro che è ancora vuoto e che soltanto Dio potrà riempire con indicazioni durante il cammino fino al compiersi della sua promessa. Abramo non sa dove deve andare, deve partire e basta, abbandonando tutto. Una decisione dunque difficilissima, folle potremmo dire.

A chi chiede: perché Dio si è rivolto soltanto ad Abramo? Gli ebrei rispondono che non è così, che Dio  si sarebbe rivolto a tutti gli uomini e che soltanto Abramo riuscì ad ascoltarlo fino a obbedire alla sua voce. Abramo è l’ivrì, “l’Ebreo” (Gen 14,13), l’uomo che parte lasciando tutto “verso la terra”che Dio gli indicherà (Gen 12,1). E questo come restando costantemente in bilico, giorno dopo giorno, sperando in ciò che Dio gli ha promesso. E proprio per questo è anche colui che finisce per restare solo da una parte mentre tutto il mondo se ne va dall’altra. Dio cerca l’umanità tutta, parla a ogni uomo, ma soltanto uno ne trova disponibile all’ascolto e all’obbedienza. O si potrebbe anche dire che è soltanto perché era rimasto solo che Abramo fu l’unico a sentirsi consolato dalla chiamata di Dio? C’è un versetto del profeta Isaia che nella traduzione di Guido Ceronetti dice così: “Ricordatevi del padre vostro Abramo /…/ Era solo / Io l’ho chiamato / L’ho benedetto e moltiplicato” (Is 51, 2). Non dunque “io chiamai lui solo”, come troviamo nella traduzione della Cei, ma lo chiamai perché era solo. È come se Dio avesse capito che soltanto quell’uomo rimasto nella sua solitudine era in grado di ascoltarlo. Abramo era solo, non condivideva cioè la vita dei suoi contemporanei, aveva bisogno di una compagnia e di un mondo diverso: ecco perché fu pronto ad abbandonare tutto obbedendo alla chiamata di Dio.

Ma entriamo a vedere più da vicino il comportamento di Abramo, secondo un midrash, raccontato anche ai bambini. Val la pena leggerlo per intero: “Disse Terach al figlio Abramo: D’ora in avanti lavorerai nella casa degli dèi. Disse Abramo: Che cosa dovrò fare? Disse Terach: Metterai da mangiare davanti agli idoli, metterai loro davanti da bere e sarai loro guardiano. Abramo mise da mangiare e da bere davanti agli idoli. Disse Abramo agli idoli: Su mangiate, su, bevete! Gli idoli rimasero sul posto senza parlare e senza muoversi. Abramo li guardò, scosse la testa e disse. Hanno gli occhi e non vedono. Hanno le orecchie e non sentono. Hanno la bocca e non parlano. E arrivò una donna portando una ciotola di fior di farina. Disse la donna: Ho portato un dono agli dèi. Che cosa fece Abramo? Prese un bastone, ruppe tutti gli idoli e mise il bastone in mano all’idolo più grande.

Terach arrivò alla casa degli dèi e vide tutti gli idoli rotti. Solo il più grande era rimasto in piedi con un bastone in mano. Gridò Terach: Chi li ha ridotti così? Disse Abramo: Una donna ha portato un regalo per gli dèi, una ciotola di fior di farina. Ho messo la ciotola davanti agli idoli. Questo ha detto: Mangio io per primo! E quello ha detto: No, mangio io! Quell’altro si è fatto avanti, l’idolo più grande, e li ha sfasciati tutti col bastone che ha in mano. Terach si arrabbiò e disse: Non è vero! Possono forse parlare? O forse che possono muoversi?

Disse Abramo: Babbo, babbo! Sentissero le tue orecchie quello che stai dicendo! Un idolo non può parlare. Un idolo non si può muovere. Un idolo non può far niente! Non pregare gli idoli babbo! Prega il Signore del mondo, che ha creato il cielo e la terra!”. E non ritorna forse questa esortazione ad abbandonare gli idoli in uno dei testi più antichi e fondamentali del cristianesimo primitivo? In quel Kerygma paolino che mantiene intatta nel proprio cuore l’esperienza ebraica della fede? Nell’esortazione di Paolo per entrare nel dinamismo della conversione e della fede è prima di tutto necessario allontanarsi “dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira ventura” (1Ts 1,9-10).

Le cose cambiano, come dicevamo, ma le dinamiche restano le stesse, per Abramo, per Paolo e per noi oggi: lotta contro gli idoli per servire soltanto l’unico, vero Dio e attendere da lui ciò che ha promesso. Là c’è un Dio che parla e qua un uomo che tutto abbandona; là c’è un Dio che promette e qua un uomo che ascolta, crede e attende; qua c’è un uomo che geme e soffre, e là un Dio che ascolta, ha compassione e agisce. Dio e l’uomo di fede camminano insieme, lottano insieme, desiderano le stesse cose, vogliono raggiungere lo stesso luogo. E quella contro gli idoli non è una lotta antica che non ci riguardi, ma attuale quanto mai, nello stesso mondo religioso. “I sentimenti dei cosiddetti pagani nei confronti delle loro statue, erano probabilmente gli stessi di quanti oggi sono spinti verso il crocifisso e le statue della Vergine e dei santi – dice Simone Weil – comprese le deviazioni di quelli spiritualmente e intellettualmente mediocri” (Citato da Lévinas nel suo: Difficile libertà).

Abramo obbedisce ciecamente, senza fare resistenza; credere è mettere mano all’aratro senza voltarsi indietro: la salvezza sta là, nel futuro promesso. Alla luce di quella parola che ha udito, che come una “spada a doppio taglio” gli entra dentro operando tagli decisivi (Eb 4,12), egli si separa anche da ciò che potrebbe essergli molto caro: un figlio, la vita, e chissà cos’altro, dipende da quel che dirà Dio ogni volta, perché Dio non dice mai tutto, subito, e una volta per tutte, dice soltanto: tu parti, poi si vedrà; tu intanto raccogli la manna che ti è sufficiente per oggi, del tuo domani mi occuperò io, vedrai. Ed è un Dio che spiazza, per così dire: noi saremmo portati con le nostre intuizioni e ragioni ad andare di là e lui invece è lì a dirci: no, la via giusta è di qua.

Con Abramo è come se Dio ricominciasse da capo la sua avventura. Anche Dio è in qualche modo spiazzato di continuo, anche lui non conosce tutto del futuro, della meta e nemmeno del cammino necessario per raggiungerla: diverse cose sono ormai consegnate all’uomo e alla sua libertà. Crea ogni cosa ed ecco la caduta, dopo la quale il male dilaga oltre ogni misura fino a farlo pentire di aver creato l’uomo, e allora manda il diluvio. Subito dopo però si pente d’averlo mandato. Poi la torre di Babele, il luogo in cui gli uomini prendono d’assalto il cielo e Dio che teme tutto questo e si trova costretto a confondere le lingue, disperderli.

Ma ecco che, in mezzo a quel brulicare di gente dispersa, Dio punta gli occhi su Abramo: è anche da come risponderà quello strano e singolare uomo, che Dio comprenderà e deciderà il da farsi. Se Dio vuole che Abramo resti solo davanti a lui è perché anch’egli si sente solo davanti agli uomini. Dio che è costretto a restare solo si mette a cercare qualcuno che lo ascolti, che si separi da tutti per ascoltarlo e camminare insieme a lui. Come se gli avesse detto: abbandona tutto e fammi un po’ di compagnia, ascoltami, ho bisogno di te, della tua comprensione, della tua collaborazione. C’è un versetto in Isaia, in cui Dio che ricorda i peccati a Israele, a un certo punto dice: “Io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso / e non ricordo più i tuoi peccati. / Fammi ricordare, discutiamo insieme; parla tu per giustificarti” (Is 43,26). E non c’è qui ironia di fronte a un già tutto deciso: Dio è davvero disposto a ricredersi. Sì, Dio può davvero arrivare a farsi vincere dall’uomo, come imparando qualcosa, se così si può dire, fino a essercene grato.

 

Daniele Garota

(1. continua)

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