Koinonia Marzo-Aprile 2021
Afghanistan:
finire una guerra per iniziarne un’altra?
La decisione del ritiro delle truppe NATO dall’Afghanistan annuncia la fine di una guerra durata vent’anni, ma non si rasserena la scena internazionale, altre nubi sono all’orizzonte
Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente.
Questi versi di Fabrizio De Andrè (La guerra di Piero) sono il miglior auspicio che può accompagnare l’annunzio di Biden che entro l’11 settembre saranno ritirate dall’Afghanistan tutte le truppe della coalizione occidentale a guida NATO, ponendo fine ad una guerra durata 20 anni. Un intervento armato che ha causato centinaia di migliaia di vittime, senza riuscire a sconfiggere il nemico contro il quale si è combattuto e con il quale, alla fine, si è dovuto scendere a patti.
Nella stessa giornata del 14 aprile si è riunito il Consiglio Atlantico, con la presenza a Bruxelles del Segretario di Stato americano Antony Blinken, insieme al segretario alla Difesa Usa Lloyd J. Austin III, per deliberare la storica decisione del ritiro dall’Afghanistan. Ne è uscito fuori un imbarazzante comunicato in cui si ammette il fallimento della strategia di pacificazione attraverso il ricorso alla violenza bellica. Afferma il comunicato testualmente: “riconoscendo che non esiste una soluzione militare alle sfide che l’Afghanistan deve affrontare, gli alleati hanno stabilito che inizieranno il ritiro delle forze della Missione “Resolute Support” entro il 1 ° maggio.”
Alla fine negli Stati Uniti è prevalso il pragmatismo, come avvenne nel 1973 quando fu deciso il ritiro dal Vietnam dopo un conflitto disastroso che aveva causato un milione di morti e devastazioni inaudite. A ben vedere il conflitto nell’Afghanistan non è durato vent’anni, ma quaranta. Esso ha avuto origine il 24 dicembre 1979 con l’intervento delle truppe sovietiche a sostegno del governo laico della RDA (Repubblica Democratica Afganistan) insidiato dalle rivolte fomentate dall’integralismo islamico.
L’intervento sovietico si risolse in un disastro politico e militare anche per l’interferenza degli Stati Uniti che armarono una sorta di internazionale di combattenti islamici arruolati dall’Arabia Saudita con a capo un personaggio che poi sarebbe divenuto famoso, Bin Laden. Quando nel 1989 le truppe sovietiche lasciarono l’Afghanistan si scatenò l’offensiva degli studenti coranici (i talebani), ancora una volta appoggiati dagli Stati Uniti, che nell’aprile del 1992 travolsero il governo laico di Najibullah, instaurando uno dei regimi più oscuri che si siano mai visti sulla faccia della terra.
In Afghanistan gli Stati Uniti hanno combattuto uno dei capitoli più assurdi della guerra fredda scatenando una guerra per procura contro l’Unione sovietica, col risultato di trovarsi, a loro volta impantanati per vent’anni in una guerra contro quelle forze infernali che, da apprendisti stregoni, essi stessi avevano evocato.
Quando alla fine il pragmatismo riesce a farsi strada e a dettare delle scelte di buon senso all’amministrazione americana, è sempre troppo tardi. Quanto sangue è stato profuso, quante sofferenze, quante distruzioni sono state provocate inutilmente prima che si ponesse fine alle insensate avventure del Vietnam e dell’Afghanistan? Non possiamo perciò confidare nel pragmatismo degli americani, dobbiamo agire prima per prevenire le guerre e gli altri disastri provocati dalla politica di potenza.
È inquietante che mentre si decide di porre fine a un doloroso intervento militare, si continua a percorrere la strada della corsa agli armamenti e dell’incremento della tensione militare con un nemico che la NATO ha costruito a sua immagine e somiglianza, non avendo voluto seppellire l’ascia di guerra dopo il crollo dell’Unione sovietica. Non è un caso se il giorno prima della decisione sul ritiro dall’Afghanistan, si sia precipitato a Bruxelles il Ministro degli esteri ucraino per perorare la causa dell’ingresso accelerato dell’Ucraina nella NATO.
Il senatore americano George Kennan, che a suo tempo fu uno dei teorici del contenimento sovietico già nel 1997 osservava che: “espandere la NATO è il più grave errore della politica estera americana dell’era post-guerra fredda”, una decisione che inevitabilmente avrebbe infiammato in Russia le tendenze nazionalistiche antioccidentali e militariste, come si è puntualmente verificato con l’avvento di Putin.
L’allargamento della NATO ad est con l’inclusione dei Paesi che facevano parte del Patto di Varsavia o della stessa Unione Sovietica ha determinato la nascita di una nuova guerra fredda, molto più pericolosa di quella precedente perché mentre in passato il confronto militare era basato su un conflitto politico fra opposte ideologie e quindi, in definitiva, guidato da motivazioni razionali, la nuova guerra fredda è fondata su pulsioni nazionalistiche ed irrazionali, per questo incontrollabili nei loro esiti.
Con l’ingresso dell’Ucraina nella NATO il rischio di guerra diviene elevatissimo, ove si consideri che un semplice colpo di fucile sparato dalla regione del Donbass, diventerebbe un’aggressione contro tutti i paesi della NATO, che farebbe scattare la clausola di sicurezza collettiva, ai sensi dell’art. 5 del Trattato.
Parafrasando Fabrizio De Andrè dovremmo cantare:
Fermati Biden, fermati adesso
Lascia che il vento ti passi un po’ addosso
Dei morti in battaglia ti porti la voce.
Chi diede la vita ebbe in cambio una croce.
Domenico Gallo