Koinonia Febbraio 2021
Parole chiare di Adriana Zarri
TEOLOGIA SOTTO ACCUSA
L’analisi della situazione teologica e, più largamente, culturale è senza dubbio assai complessa e non può esaurirsi in un’indicazione unilaterale di responsabilità: può tutt’al più delinearsi in una responsabilità prevalente; ma ciò che appare strano è l’inversione della diagnosi, lo scambio delle prevalenze, il rovesciamento delle preoccupazioni: l’insistenza nel denunciare gli abusi della vitalità e l’indulgenza nell’accennare a quegli abusi dell’immobilismo che sono invece causa della devitalizzazione teologica.
Se la Chiesa di questi ultimi secoli denunciava processi di atrofia e di staticità disincarnata ciò si doveva a questo immobilismo che nel corso dei secoli non ha nociuto meno di altre eresie più incontinenti e più vistose e che tuttavia sembra godere di un trattamento privilegiato. Se oggi la teologia è in una situazione disagiata è colpa di una certa anchilosi in cui siamo caduti nel tempo della “sicurezza” e che - bloccando ogni ricerca originale - ha sfasato le scienze sacre rispetto alle scienze profane, lasciandole indietro di parecchi decenni, tagliandole fuori dal discorso culturale che si svolgeva attorno ad esse e scavando tra la cultura laica e la cultura cattolica un abisso che è ancora largo e profondo.
Il recupero di quel tempo perduto (ed occupato in ripetizioni manualistiche) non si rivela molto facile, né facile affatto si rivela l’esercizio di quella libertà alla quale eravamo disavvezzi. Si tratta di compiere un lavoro di riadattamento mentale, morale, ascetico non certo privo di incidenti. Sono incidenti prevedibili e che pure - se tale e tanto è lo sconcerto - non dovevamo aver previsti.
Volevamo la libertà senza i pericoli che comporta; pretendevamo la riforma, tutta ordinata e pettinata, senza quelle scarmigliature inevitabili nel passaggio da un ordine a un altro. Volevamo un po’ troppo: una situazione che non esiste in natura.
Del resto anche il passato ci ammonisce contro queste illusioni troppo facili.
Abbiamo forse avuto un’autorità senza autoritarismo? Una tradizione indenne da quei pericoli di stasi che le son quasi connaturati? No: non le abbiamo avute. Abbiamo avuto una saldezza, irrigidita in forme di un certo greve istituzionalismo; abbiamo avuto una tradizione che quasi pareva voler chiudere il vasto campo dell’indagine. E allora, se abbiamo tollerato le deviazioni di quello spirito di sicurezza (e la Chiesa non è crollata per questo), dobbiamo tollerare le deviazioni analoghe (anche se geometricamente contrapposte) dello spirito innovatore, certi che nemmeno per questo la Chiesa crollerà. Dobbiamo combatterle - s’intende - ma senza combattere la riforma, con il pretesto facile del falso riformismo. I falsi si coniano sopra allo stampo di tutte le monete valide, e non solo delle monete “ moderne” e “progressiste”. Si sono coniati e si coniano tuttora anche a contraffazione delle antiche e ultratradizionali. Abbiamo contraffatto l’obbedienza e ne è venuto fuori il servilismo o la delega al vescovo delle nostre più personali responsabilità; abbiamo contraffatto la castità e ne è venuta fuori “la bella virtù” di stampo moralistico con un corteo di inibizioni. In antico il culto della verginità era sfociato in autentiche eresie. Quelle eresie non sono ancora morte. La tensione con cui in certi ambienti “devoti” si parla ancora del matrimonio e dei problemi del sesso, rivela un catarismo pratico, non ancora sradicato dalla psicologia corrente.
Sempre in antico - quando forse eravamo più robusti ancora capaci di eresie - il culto alla divinità di Cristo ci portò al docetismo. Anche il docetismo sopravvive. Chiarito e rifiutato sul piano dottrinale permane oscuramente a livello istintivo e psicologico. Quando si nega alla Chiesa una dimensione umana e storica, pretendendola fissa e al di fuori del tempo; quando si attende che sia soltanto il mondo ad adeguarsi alla Chiesa e non anche la Chiesa a chinarsi verso la vita umana, si pecca di docetismo ecclesiale: si nega praticamente al Cristo mistico quella natura umana e quella corporeità concreta che si negò al Cristo storico.
L’elencazione potrebbe proseguire, con esempi tratti dai tempi antichi e da quelli moderni; ma forse è sufficiente a dimostrarci come anche da quella parte che siamo soliti considerare più sicura, esiste il margine dell’insicurezza, c’è stato l’incidente dell’errore. Le deviazioni di un certo spirito eternista, sovrannaturalista, ascetico, non sono state meno numerose né più lievi delle deviazioni di tipo temporalistico e umanista. Perciò la vigilanza - questa dea tutelare cui sembra talora che si affidi la stessa vita della Chiesa - è insufficiente e miope, quando si eserciti da una sola parte.
Temiamo i rischi della discussione (è giusto, perché la discussione comporta rischi) ma dobbiamo temere anche i rischi dell’accettazione supina e del silenzio. Non sono minori. Temiamo i dubbi palesi e non ci preoccupiamo, di quelli occulti. Forse, perché non vengono espressi, ci illudiamo che non esistano; e invece la loro mancanza di espressione è dovuta a timore, a regime autoritario, a scarsa libertà: tutti elementi che con la fede non hanno nulla a che vedere.
“Sarebbe un errore molto grave ritenere che non esistano dubbi solo perché le idee e le opinioni... non vengono portate alla luce. Non è forse giustificato chiedersi se una discussione aperta, pubblica, anche quando ecceda alquanto, non sia preferibile ad un fuoco latente? È una prova della vitalità della Chiesa il fatto che le discussioni e le tensioni non riescano a scalfire l’unità”.
Chi ha scritto questo è il cardinale Alfrink, primate dell’Olanda: uno dei paesi oggi sotto processo. Processiamolo pure e denunciamone gli errori. Però ricordiamoci anche di dire che, in quel paese così teologicamente malfamato (e forse un poco diffamato), la frequenza alla messa festiva oscilla dal 70 all’80 per cento; mentre nel nostro fedelissimo si aggira, su per giù, sul 20. Questa fermezza nella “fede”, di cui andiamo tanto fieri, si dimostra, perciò, piuttosto sterile; e poiché la fede è feconda dobbiamo credere che più che di fede si tratti di imposto e accettato silenzio, di conformismo mentale, di disinteresse religioso che uccide, in una, l’eresia e la teologia. Ci illudiamo che il nostro sia un popolo fedele perché non ha prodotto alcuna apprezzabile eresia: in realtà è spesso un popolo sottoereticale: incapace di errore perché incapace di profondo interesse religioso. Anche a livello popolare, come a livello teologico, l’immobilismo è la nostra eresia più perniciosa: un’eresia latente, sorda, implicita che ci ha “salvati” (se qui si può parlare di salvezza) da altre eresie più consapevoli e precise per mantenerci nel letargo della tranquillità senza problemi.
È molto dubbio che questa sia situazione più felice di certa intemperanza teologica, nata dalla passione di una profonda fede religiosa. Ciò nonostante noi seguitiamo a preferire questa massiccia disciplina che tiene tutti nelle righe alla impetuosa libertà che mette sotto accusa qualche ordinamento. Diciamo - e diciamo benissimo - che la libertà va inquadrata nell’obbedienza; ma non diciamo - o diciamo troppo sottovoce - che l’obbedienza deve essere animata dalla libertà.
Ma a che ci servono le righe se, dentro, gli uomini non credono o credono in modo puramente ereditario? Quei ranghi compattissimi, di cui andiamo tanto fieri, rischiano di diventare degli apparati inutili. Non mostrano fessure non perché han molta fede ma perché han molto disinteresse. Sovente sono tutte fessure, tutto vuoto, tutto assenza e apatia. Sarebbe forse questo ciò che chiamiamo una “cristianità sicura”?
Adriana Zarri
in Teologia del probabile. Riflessioni sul post-concilio, pp. 218-222