Koinonia Febbraio 2021
E se fosse tutta una “questione teologica?
“QUAESTIO 1”
Adriana Zarri prende spunto da una quaestione della Somma teologica di San Tommaso per dare vita al suo romanzo, “Quaestio 98 - Nudi senza vergogna” (Camunia 1994). Il richiamo alla Zarri è solo per dire che, senza voler scrivere un romanzo, mi permetto di rifarmi anch’io ad una sne della Somma, la “Questio 1”, che può apparire del tutto inattuale nel panorama accademico ed ecclesiale del momento, ma che, sulla scia della Zarri, solleva una “questione teologica”, troppo ovattata o disattesa, quando invece è il nodo non risolto - o risolto gordianamente - nel dopo-concilio! Lo trovo espresso a mio conforto in queste parole di Giuseppe Colombo: “Vissuto sotto il segno del primato della prassi, il post-Concilio ripetutamente e in varie forme ha ritenuto di poter liberare la teologia dalla ‘razionalità scientifica’, mantenendola legata esclusivamente alla fede (- prassi)” (in M.-D.Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo.., p.14).
Una questione di fondo che andrebbe portata alla luce, per ritrovare l’orizzonte comune in cui inquadrare e coordinare tutte le altre questioni sul tappeto: e cioè per valutare i singoli aspetti dell’esperienza ecclesiale in una visione d’insieme e non presi come compartimenti stagni. Insomma per dirci subito quali sono l’orientamento e il punto di vista per guardare in maniera unitaria e differenziata i singoli punti in questione. Per far emergere la teologia sottesa e sottaciuta a modi di essere nella chiesa, se non vogliamo rimanere al “particulare”.
Ed allora, vediamo di fissare questo punto di vista teologico secondo la “Quaestio 1”, per dirci poi se, come e perché adottarlo e metterlo in funzione per le nostre problematiche. E anche per avere una piattaforma di confronto e di dialogo. La questione è come rapportarsi al “depositum fidei”, alla “sacra dottrina”, alla verità cristiana, all’insegnamento della chiesa, prima ancora che nei suoi specifici contenuti, in quanto patrimonio di rivelazione dato: e cioè come Parola di Dio da comprendere e da calare nella storia.
Quale attitudine avere come uomini e donne di fede dotati di intelligenza nei confronti delle Scritture come fonte del comune credere? Potremmo ricordare le parola di Giovanni XXIII, quando ci dice che non è il vangelo a cambiare, ma il nostro modo di comprenderlo, per evitare di prendere il vangelo in blocco ed interrogarci invece sul nostro modo di comprenderlo: se oltre ai tanti modi settoriali - biblico, spirituale, morale, pastorale, sociale - sia attivo un modo specificamente teologico come intelligenza della fede, che unifichi e verifichi criticamente tutti questi elementi ecclesiali interni, in ordine ad una valenza e comunicazione ad extra del vangelo stesso, in rapporto e a confronto col mondo. E quindi come cultura che nasce sì dalla fede, ma attraverso il vaglio di strutture mentali e di pensiero, che sono degli uomini nel proprio tempo: la Parola di Dio in linguaggio umano!
Si tratta di un ambito specifico di verità derivante dalle Scritture per rivelazione, ordinato alla conoscenza di Dio come salvezza. E se da una parte non può sottostare ad un regime di conoscenza razionale, dall’altra non può sottrarsi alle esigenze di intelligenza umana del credente, come fonte e materia di comprensione in maniera definita e comunicativa. Ma intelligenza tale che può costituirsi perfino in scienza, in un vero e proprio sapere, dentro la sfera mistica del credere: la fede come matrice di cultura.
Quindi non solo fatto esperienziale a carattere soggettivo, evocativo, simbolico, rituale, ma con connotati obiettivi che consentono un assenso mentale di ragione oltre che di fede, e quindi un compiacersi della verità (cfr 1Cor 13). È la “teologia come scienza”, con la stessa funzione critica che la filosofia e le scienze hanno nei confronti dell’esperienza e cultura umana: un discorso su Dio aperto, diverso dalla teologia come discorso su Dio interno alla fede, puramente religioso ed intimistico: quando cioè l’intelligenza della fede nei suoi contenuti diventa anche intelligenza in termini razionali e culturali, non per diluire il mistero ma perché abbia tutta la densità umana e diventi lampada da mettere sul candelabro.
Questo tipo di sapere riguarda le cose tutte, ma in una visione unitaria e critica; per questo è necessario che il punto di vista teologico - che riflette la scienza stessa di Dio - abbia una sua rilevanza conoscitiva formale - diventi un habitus - e non si fermi ai suoi dati materiali, “poiché si occupa più delle cose divine che degli atti umani, dei quali tratta solo in quanto attraverso di essi l‘uomo è ordinato alla perfetta conoscenza di Dio, nella quale consiste la beatitudine eterna” (q.1,art. 4).
Il ricorso ad una forma di sapere umano non è postulato da necessità intrinseca della fede in quanto tale, ma per esigenza della nostra ragione di credenti: “La scienza sacra può sì ricevere qualche cosa dalle discipline filosofiche, non già perché ne abbia necessità; ma per meglio chiarire i suoi insegnamenti” (q.1 art. 5, ad 2), per render più accessibile la sua comprensione. In questo senso la scienza teologica è sapienza, in quanto “si estende anche a ciò che di se stesso Dio solo conosce, e ad altri viene comunicato per rivelazione. Quindi la dottrina sacra è detta sapienza in sommo grado” (q.1, art. 6). Una sapienza spinta ad uscire da se stessa e dal proprio riserbo per comunicarsi, al tempo stesso in cui l’umano intelletto desidera addentrarsi nella rivelazione del mistero di Dio.
Ma ecco all’articolo 7 ciò che ha acceso l’attenzione e la voglia di riandare alla “Quaestio 1”, illuminante per il nostro cammino ecclesiale, se ne vogliamo fare tesoro. È quando san Tommaso chiede ”se Dio sia il soggetto [di studio] di questa scienza”, questione tutt’altro che ovvia o peregrina, in un tempo in cui di tutto si fa teologia tranne che di Dio stesso, a cui si fa riferimento nominale in maniera accomodatizia, marginale, frammentaria, in maniera debole e non in maniera forte.
Ed ecco allora le parole che aprono gli occhi e ci mettono davanti al fatto che neanche i misteri della salvezza sono oggetto o contenuto proprio della teologia, se non in relazione al mistero stesso di Dio come sostanza della fede: “Ora, nella dottrina sacra tutto viene trattato sotto il punto di vista di Dio: o perché è Dio stesso o perché dice ordine a lui come a principio e fine… Altri tuttavia, guardando più agli argomenti trattati da questa scienza che al punto di vista sotto il quale vengono considerati, ne hanno assegnato diversamente il soggetto: chi le cose e i segni, chi le opere della redenzione, chi il Cristo totale, cioè il Capo e le membra. Di tutte queste cose infatti tratta la dottrina sacra, ma in quanto dicono ordine a Dio” (q.1 art 7). Un Dio che non è solo oggetto di conoscenza ma ne è il principio e il fine!
Viene da pensare alla fioritura delle tante “teologie” nate grazie al Concilio, che alla fine però lo hanno decentrato rispetto alla necessità e all’intento di ripensare la fede nella sua sostanza per una nuova provvisoria comprensione. Alla luce di quanto detto finora, i contenuti particolari e immediati di tutte queste teologie hanno preso il sopravvento, lasciando in secondo piano Dio come soggetto e principio primario della teologia, così come lo è della fede. E mentre tutte queste teologie avevano successo, questo Dio rimaneva relegato al culto, alla devozione, alla pietà tradizionale, sotto il dominio della religione civile, del cristianesimo convenzionale, dentro un impianto di pensiero e di cultura che poco o nulla dice al mondo circostante in termini di comprensione. Sembra insomma che una teologia trovi la sua forza nei temi trattati più che derivarla dalla scienza di Dio di cui siamo fatti partecipi come adoratori in spirito e verità!
Si è detto a ragione che a fare il Concilio Vaticano II sono stati i teologi, o meglio una teologia che per un certo tempo ha ritrovato la sua vocazione di intelligenza e comunicazione della fede in tutti i suoi aspetti. Questa forte corrente di fede e di pensiero non ha trovato modo di proseguire dopo il Concilio con la stessa intensità e unitarietà, disperdendosi in tanti rivoli e trasformandosi in tante enclaves ecclesiali che ci hanno portato alla situazione attuale di reale frammentazione sotto il velo di un efficientismo pastorale di facciata.
Si deve dire per la verità che non sono mancati da parte di voci tonanti e profetiche del dopo-concilio atteggiamenti e pronunciamenti di denigrazione del pensare teologico complessivo come funzione ecclesiale, a favore dell’ortoprassi e delle sfide storiche che il mondo poneva, senza il contrappeso di una fede della chiesa da cui attingere luce ed energia, quando non succedeva che facesse da schermo alla luce di Cristo nel mondo. Così come non sono mancati interventi d’autorità che hanno fatto da freno e da arginamento allo sviluppo teologico del Vaticano II, che è rimasto allo stato infantile nella sostanza del credere, mentre abbiamo avuto fioriture di modernizzazioni funzionali alla stabilità del sistema.
Se davvero facessimo nostro il punto di vista teologico secondo le indicazioni di questa “Quaestio 1”, non potremmo evitare tante operazioni mentali e pastorali di non facile attuazione. Ma un’ultima osservazione me la voglio consentire in attesa di qualche riscontro a questa esternazione del tutto libera e non sufficientemente approfondita. Ed è questa: il dopo concilio è stato caratterizzato, oltre che dalla parola “partecipazione”, anche dalla parola “riappropriazione”: della Bibbia, dei sacramenti, della liturgia, della comunità, e quindi della libertà di intervenire, di pronunciarsi, di decidere come Popolo di Dio messianico e sacerdotale.
Per quanto riguarda invece essere Popolo profetico - e cioè interprete e testimone della Parola - difficilmente si è parlato di riappropriazione della teologia, intesa come libertà e responsabilità di pensare o ripensare la propria fede come nuova intelligenza o sensus fidei del Popolo di Dio, lasciando i teologi di professione elaborare teorie e sistemi di pensiero avulsi, attrattivi per se stessi ma poco incisivi per una maturazione dal basso: e cioè per sviluppare un modo di pensare la fede significativo e comunicativo, proponibile al di fori della propria cerchia. In sostanza non ci siamo riappropriati di quello spazio libero riservato a tutti i credenti in quanto tali, preferendo guardare ad ambiti che tutto sommato sono settoriali e secondari rispetto alla presenza profetica del Popolo di Dio nel mondo: quello regale e sacerdotale, dei ministeri e dei sacramenti, dei ruoli e del potere.
Porre e porsi una “questione teologica” è tutt’altro che un lusso accademico: è riaffermare il primato della Parola di Dio e la nostra responsabilità di renderlo effettivo nel nostro modo di pensare e di essere come “quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori” (Gc 1,22), coloro che si fanno comunitariamente interpreti e testimoni della Parola. È una pista aperta per noi da Adriana Zarri con la sua “esistenza teologica”, a cui possiamo guardare come guida.
P.Alberto B.Simoni op