Koinonia Febbraio 2021
La “questione teologica” secondo il domenicano Gustavo Gutierrez
QUANDO LA TEOLOGIA NASCE DAL BASSO
ll soggetto della teologia
Il popolo al quale appartengo patisce una situazione di ingiustizia e di sfruttamento ed è, allo stesso tempo, credente. Il lavoro con quelli che possiamo chiamare genericamente movimenti e comunità cristiane o ecclesiali di base, espressione nella Chiesa della nuova presenza del popolo povero sulla scena storica latinoamericana e caraibica, mi mise in relazione con un mondo nel quale trovai un riscontro, ma anche molte novità. Una relazione che muove i suoi primi passi. Di più, con il passare del tempo comprendo anche che i progressi e le riflessioni che essa ha provocato sono ancora timidi e approssimati.
Inserendosi e lavorando nel mondo popolare si comprende che la prima cosa è l’ascolto. Ascoltare incessantemente le esperienze umane e religiose di un popolo povero, di cui si condividono sofferenze, speranze e lotte. Udire non con atteggiamento di accondiscendenza, bensì per imparare qualcosa sul povero e su Dio. La lezione che si riceve è semplice: nei racconti del vissuto che nascono a partire dal dialogo che si realizza in una comunità cristiana, c’è sempre incluso un elemento di riflessione, un modo di comprendere la vita e la fede. Ciò appare con chiarezza in ciò che viene chiamata la `revisione di vita’ - metodo adottato da molte delle comunità di cui ho condiviso la vita - in cui in prospettiva di fede si cerca di comprendere il vissuto alla luce di un testo biblico. La fede tradotta in impegno concreto e la speranza che si esprime in slancio verso la vita sono presenti fin dall’inizio della condivisione comunitaria, dell’analisi della realtà nel corso della nostra vita. La riflessione di fede può e deve essere condotta in modo più esplicito, però essa accompagna in qualche maniera tutto l’agire cristiano all’interno di un popolo che lotta per affermare la propria dignità umana e la propria condizione di figli e figlie di Dio. All’espressione verbale si unisce talvolta la versione scritta di un’esperienza di Dio, divenuta orazione e riflessione. È impossibile fare teologia nel nostro mondo senza tener conto di queste testimonianze e riflessioni che diventano ogni giorno più numerose.
Questa pratica portò alla scoperta - e Puebla lo raccolse con forza - del “potenziale evangelizzatore dei poveri”. Essi non sono solamente i destinatari dell’annuncio del Vangelo, ma anche i portatori. Questa capacità porta con sé, se mi si consente il termine, una “capacità teologizzante” dei poveri. Non sono parole vuote o una ricerca di simmetrie artificiali. Senza idealizzare, né sopravvalutare ciò che stiamo dicendo, è importante riconoscere che si tratta di un vissuto quotidiano e provocativo, che opera una rifondazione della nostra intelligenza della fede. La vicinanza dei credenti alla vita (e alle sue negazioni), e andando controcorrente, ai primi sforzi di un’intelligenza della fede nella vita della Chiesa, al servizio del suo impegno di annuncio del Vangelo e di collaborazione con coloro che hanno il compito di orientarla con il loro ministero pastorale e magisteriale.
C’è un diritto a pensare del popolo povero che deve essere rispettato, è espressione del diritto alla vita, che gli viene rifiutato in diverse maniere. La fede del povero, come ogni fede, cerca per esigenza intrinseca di comprendere se stessa, secondo il principio tradizionale “fides quaerens intellectum”. Il vero soggetto di questa riflessione non è il teologo isolato, bensì la comunità cristiana e, per mezzo di numerosi interscambi, la Chiesa intera con i suoi differenti carismi e responsabilità.
Quei membri della chiesa che chiamiamo in senso stretto teologi (in alcuni ambienti vengono indicati come “teologi di professione”) adempiono compiutamente il loro impegno nella misura in cui sono legati alla comunità cristiana, ne fanno parte e condividono quotidianamente con gli altri le ragioni della propria speranza. Diciamolo subito, non si tratta di raccogliere le domande che vengono dai poveri e di coloro che sono compromessi con essi, al fine di offrire le nostre risposte. L’argomento è più complesso. Condividere queste riflessioni insegna che in esse non solo si pongono domande, ma si danno anche linee di risposta che questi cristiani scoprono confrontandosi con le sfide che essi incontrano nella loro solidarietà con i poveri e gli oppressi. Molte delle espressioni e delle categorie utilizzate dalla teologia della liberazione provengono dalle comunità di base.
L’impegno del teologo consiste allora nell’apportare alla comunità quanto l’attività accademica gli ha consentito di acquisire nel campo della conoscenza e familiarità con la Sacra Scrittura, della tradizione e dell’insegnamento ecclesiale, della teologia contemporanea. La teologia non è un impegno individuale, ma una funzione ecclesiale. Essa si realizza a partire dalla parola di Dio, accolta e vissuta nella Chiesa, in vista del suo annuncio ad ogni persona umana e, in modo speciale, ai diseredati di questo mondo. Però, è bene tener presente che la solidarietà con le sofferenze e le ingiustizie che vivono i poveri e gli ultimi, con la loro lotta per costruire una società umana giusta e libera, così come con lo sforzo di molti di essi di testimoniare il Vangelo a tutti non sono l’unica condizione per realizzare quella che viene talvolta chiamata una `teologia che si compromette’. È anche indispensabile - per quanto ciò non venga talvolta avvertito - per ottenere un discorso sulla fede che risponda alle autentiche e più acute questioni del mondo contemporaneo. In ultima istanza, è condizione per elaborare una teologia seria, rigorosa e attenta alla comunicazione del Vangelo nel tempo in cui viene elaborata.
Due linguaggi su Dio
Così inteso, il lavoro teologico non è esente da tensioni. Ad esempio, come si concilia l’appartenenza a una comunità con i suoi problemi quotidiani con un impegno intellettuale che ha le sue esigenze e richiede uno spazio e un tempo propri? Come intraprendere una laboriosa intelligenza della fede mentre i poveri si confrontano con necessità immediate che riguardano la propria sopravvivenza fisica, con tutto ciò che questo implica per la propria esistenza cristiana? Queste domande si impongono con sempre maggiore esigenza, ogni giorno. Però, non sono contraddizioni, ma feconde tensioni.
Per essere leali, dobbiamo dire che questi interrogativi rimangono aperti. Non riusciamo a dare una soluzione soddisfacente; certo, sappiamo che non è possibile rinunciare a nessuno dei suoi due estremi. Inoltre, al di là di tutto, è realmente importante possedere una risposta definitiva a queste domande? Non si tratta precisamente di una tensione che suscita un discorso su un’esperienza di fede che sia realmente vicina alla realtà e al servizio dell’impegno di evangelizzazione - gesto e parola - della Chiesa? L’angustia che questa tensione provoca talvolta non è piuttosto frutto del disagio del teologo, che si ritrova collocato fra due esigenze: quella della necessità di fare teologia e, cosa ancora più importante, quella di essere inserito nella storia e nella comunità cristiana, in funzione delle quali questa riflessione deve situarsi ed essere fatta?
Né si dà una risposta perentoria a tali domande. Talvolta esse verranno a risolversi - o scomparire lungo il cammino. Talvolta condurranno su sentieri imprevisti, ma che sono adeguati ai problemi iniziali e che ci portano a considerare le antiche domande da prospettive differenti. Si cerca e si costruisce in tal modo un linguaggio su Dio (questo è una teologia) con un popolo che vive la fede, in una situazione di ingiustizia e di sfruttamento che è negazione di Dio; la speranza in un atteggiamento di gioia, nonostante le proprie sofferenze; e la carità, nella solidarietà con i più poveri ed emarginati della società. Un linguaggio contemplativo, che ha il suo punto sorgivo nel silenzio orante davanti al mistero di Dio e alla gratuità del suo amore e un linguaggio profetico, che vede nel Cristo il legame inscindibile tra il regno e la giustizia. Un linguaggio che nasce, in America Latina e in altri continenti, come nel libro di Giobbe, nel contesto storico dell’esperienza della sofferenza dell’innocente. Una voce che, tra le altre, ha il diritto di farsi ascoltare nella nostra società e all’interno della comunità ecclesiale. Una teologia che tenta di costituirsi, con una metodologia che si identifica con una spiritualità, quale ermeneutica della speranza nel Dio della vita.
Senza dubbio, rispetto a quanto detto fin qui, sono molti gli aspetti, metodologici e di altro tipo, da precisare e da esporre in modo critico, se non vogliamo essere presi da entusiasmi superficiali e formule facili. Restiamo però convinti che solo a partire dalla sequela di Gesù, da una spiritualità, è possibile fare un fecondo discorso sulla fede. È un camminare verso il Padre e un vivere secondo lo Spirito. Un procedere per vivere e riflettere sulla fede in relazione con ciò che Giovanni XXIII chiamava “la Chiesa di tutti e, in particolare, la Chiesa dei poveri”.
Vorrei terminare con un piccolo aneddoto, che ho già raccontato in qualche altra occasione, perché sento che mi aiuta a esprimere il senso del fare teologia. Alcuni anni fa, un giornalista mi chiese se oggi scriverei il mio libro “Teologia della liberazione” come quando lo pubblicai. Gli risposi dicendogli che il libro, negli anni trascorsi, seguitava ad essere uguale a se stesso, mentre io ero vivo e, di conseguenza, cangiante e in cammino grazie all’esperienza, alle osservazioni critiche ricevute, alle letture e alle discussioni. Di fronte alla sua insistenza gli chiesi se egli avesse scritto oggi una lettera d’amore alla sua sposa con le stesse parole adoperate venti anni prima; mi rispose di no, però riconobbe che il proprio affetto rimaneva ... Per me fare teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa e al popolo a cui appartengo. L’amore continua a essere vivo, però si approfondisce e cambia la maniera di esprimerlo.
Gustavo Gutierrez op
in Le figlie e i figli di Domenico fanno teologia, IDI, Napoli 2005, pp.50-53