Koinonia Febbraio 2021
IL POTERE DEL MONDO E I SUOI INGANNI (IV)
Parte quarta: Il Re portato a spalle
È possibile che proprio a noi tocchi davvero di essere giunti alla penosa quanto vergognosa condizione per cui - come diceva Paolo (cfr. 1Cor 15,34) – non si riesce più ad avere nemmeno l’idea di Dio, non si riesce cioè nemmeno più a comprendere come Dio sia Dio e non un uomo qualsiasi, sia quando sprofonda negli abissi della croce, sia quando vince e per sempre la morte, sia quando semina “nella debolezza”, sia quando fa risorgere “nella potenza” (1Cor 15,43).
L’evangelista Matteo dice che quando Gesù crocifisso “di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito … Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti, risuscitarono”, e che quando “uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti” (Mt 27,50-53). A sprigionare potenza e spirito di vita è Gesù che muore prima e ancor più di Gesù che risorge: non era possibile ottenere salvezza e vita eterna se non al prezzo infinito della debolezza e della morte di Dio. Solo il “chicco di grano, caduto a terra” che “muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).
Ma ciò non può essere compreso da una mente prigioniera della sola ragione, incapace anche solo di immaginare le ragioni della fede e del cuore, quelle attraverso cui soltanto è possibile arrivare a conoscere “le profondità di Dio”, “i segreti di Dio”, quelle cose mai viste né udite che “lo Spirito” conosce bene e che Dio da sempre prepara “per coloro che lo amano”. Se siamo mossi dallo Spirito già ora infatti possiamo giudicare “ogni cosa” riuscendo ad avere in noi “il pensiero di Cristo” (1Cor 2,9-16), restando ben saldi in quella “profonda convinzione” che viene non da noi, ma dalla “potenza dello Spirito Santo” (1Ts 1,5). Non comprendere questo, intestardendoci a comprendere da soli, significa restare prigionieri di “quei deboli e miserabili elementi” (Gal 4,9) a cui volge ogni attenzione un mondo senza più Dio.
La risurrezione dei morti, come già quella di Cristo, non ha nulla a che fare coi processi della natura e dell’evoluzione, col normale scorrere della storia, ma con la potenza di cui solo Dio dispone e con la quale improvvisamente irromperà sconvolgendo e vincendo tutte le potenze nemiche del qui e ora, compresa l’ultima, la morte. Poiché la realtà ultima e decisiva al compimento di tutto, alla “fine, quando egli consegnerà il regno di Dio al Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza…, perché Dio sia tutto in tutti”, è quella della risurrezione dei morti, dell’annientamento dell’“l’ultimo nemico”, la morte (1Cor 15,24-28). Senza questo “prodigio di Dio” – come l’ha chiamato Karl Barth – che impone definitivamente “l’alt anche alla morte”, non potrà esserci compimento, entrata nel regno di Dio da lungo tempo promesso.
Gesù è colui che fin da subito entra in un contesto di violenza. “Dai giorni di Giovanni il Battista” fino al momento in cui Gesù se ne fa consapevole, “il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12). E da li in avanti infatti le cose per lui andranno di male in peggio: anche le potenze del mondo sono molto potenti. Il Cristo che di nuovo verrà nella gloria come giudice sarà costretto a piombare nel mondo di notte, come il ladro, per riuscire a legare con violenza l’“uomo forte” che avrà spadroneggiato fin lì nel mondo, “soltanto allora potrà saccheggiargli la casa”, non prima. E non può comprendere questo intimo e infinito bisogno di Dio che si è a noi manifestato nel Cristo, chi arriva a fraintenderlo, credendolo addirittura “posseduto da uno spirito impuro”, un equivoco che ci renderebbe addirittura bestemmiatori “contro lo Spirito Santo”, rei di una imperdonabile “colpa eterna” (Mc 3,23-30).
Gesù è venuto già duemila anni fa come Salvatore e Giudice glorificato dal Padre per il “giudizio di questo mondo”, desideroso dell’“ora” in cui “il principe di questo mondo” avrebbe dovuto essere già “gettato fuori”. Ma a un certo punto fu costretto a parlare di “luce” che splende e di “tenebre” che non solo non l’hanno “vinta”, ma nemmeno (catelaven), compresa, accolta; costretto a parlare del “Figlio dell’uomo che doveva essere innalzato”; ma “la folla” non capiva, tanto che Gesù, dopo avere detto tali cose, fu costretto a nascondersi (Gv 12,28-36). Questo è il dramma del cristianesimo, senza il quale non si capirebbe nulla di ciò che Gesù ha fatto e detto spesso scandalizzandoci. Anzi, diceva ancora Barth, cose che solo scandalizzandoci, non prima, potremmo dire di avere compreso fino in fondo.
Non si può comprendere appieno quanto espresso dai vangeli se non si tiene conto dell’infinito bisogno che Gesù ha, in quanto Messia, di farci comprendere una parola che “è dura”, inascoltabile (Gv 6,60), un bisogno che emerge soltanto quando si ha a che fare con “amici” che devono “conoscere” ogni cosa (Gv 15,15). Gesù non sapeva come sarebbe andata a finire, fino a che punto sarebbero giunti a fraintenderlo persino coloro che pure lo amavano molto. E temette il rifiuto, soprattutto verso il termine della sua vita. Fino all’ultimo egli ha lottato non solo col potere religioso che non l’avrebbe accolto, ma anche coi discepoli che non l’avrebbero seguito fino in fondo. Non comprendere questo è non comprendere il dramma della croce, quel “calice” che nemmeno il Padre in quel momento sarebbe stato più in grado di evitargli (Mt 20,22; 26,27; 26,40).
Dunque anche Gesù alla fine si trovò in bilico, tra speranza e disperazione, quando “cadde faccia a terra e pregava, dicendo: ‘Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!’” (Mt 26,39). Egli sperava con tutte le forze di portare a compimento il suo compito di Messia e Salvatore in mezzo a un mondo che lo accogliesse a braccia aperte ma anche temendo, al tempo stesso, con anima “triste fino alla morte” (Mt 26,38), la possibilità reale e tremenda del rifiuto e della croce.
Ma non è costituita anche per noi oggi, forse soprattutto oggi, dello stesso timore, dello stesso restare in bilico tra speranza e disperazione la nostra fede, dello stesso restare come lui e insieme a lui appesi alla croce e per sempre se egli non dovesse più tornare a salvarci nell’ultimo giorno? Non è la fede una povera “vedova” che grida “giorno e notte” nel bisogno estremo e con una gran paura addosso che “il giudice” non venga a farle “giustizia” (Lc 18,1-8)?
Il Grande Inquisitore lo dice apertamente al Cristo: “Da lungo tempo non siamo più con Te, ma con lui, sono ormai otto secoli. Sono otto secoli che accettammo da lui, ciò che Tu avevi rifiutato con sdegno, quell’ultimo dono che egli Ti offriva, mostrandoti tutti i regni della terra: noi accettammo da lui Roma e la spada di Cesare e ci proclamammo re della terra, gli unici re, sebbene non abbiamo avuto il tempo di compiere interamente l’opera nostra” (I fratelli Karamazov).
Chi muove i fili di tutto è insomma lui, che non appare mai e sembra non esistere. Anzi ormai tutti hanno finito per ridere in faccia a coloro che ancora osano anche solo far cenno alla sua esistenza. E pericoloso è Satana non perché sia un dio pure lui, il dio del male, per così dire. No, pericoloso è Satana perché è anch’egli creatura di Dio, creatura potentissima che succhia energia dall’amore con cui Dio ama il mondo e l’umanità, penetrando persino dentro di noi in maniera subdola e nascosta. Al punto che “Satana”, può diventare lo stesso “Pietro… pietra” su cui è edificata la Chiesa” di Cristo, quando cerca di mettersi davanti anziché “dietro” al Cristo, finendo cioè per pensarla “secondo gli uomini” anziché “secondo Dio” (Mt 16,18-23).
Ecco, tutto quanto fin qui detto, mi ha fatto tornare addirittura in mente il clima vissuto dal primo gruppetto che si ritrovò insieme a Sergio Quinzio presso il Monastero di Montebello, a Isola del Piano nelle Marche. Si era agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, e si scrivevano vere e proprie lettere, per annunciare quanto a loro stava molto a cuore in quel momento. Io in quel periodo, pur abitando lì a due passi, assistevo da lontano e ne intuivo appena il valore, essendo nulla più che un curioso adolescente.
E non dimentichiamo che in quei primi momenti si viveva l’essenziale della fede in mezzo a delle rovine, invocando il Signore alla maniera delle prime comunità cristiane, percependo addirittura possibile “affrettare la piena manifestazione della potenza di Dio”. Non solo, ma avendo come unica “regola, amore per la povertà”, fino a confidare che qualche generoso lettore di quelle lettere potesse inviare “un’elemosina” che aiutasse “a pagare le spese” (Presentazione a Lettere dal monastero di Montebello, S. Pasqua 1973). Uno stile che ho ritrovato leggendo dell’esperienza di Koinonia, nata nel 1976 a Querceto (Sesto Fiorentino), dando di seguito vita al suo periodico di collegamento che vive da allora la sua ispirazione evangelica di testimonianza e di dialogo ogni mese. Esperienza alla quale tra l’altro ho cercato in qualche modo di unirmi più avanti, dando con gioia il mio modesto contributo fino a oggi, cercando cioè di essere - come padre Alberto ha scritto ringraziando tutti nel presentare l’ultimo bilancio del 2019, parafrasando Caterina da Siena – “quello che dovremmo essere”.
Di fronte all’insopportabile ritardo il credente può continuare ad attendere soltanto se considera come “unico vero tempo” quello del “regno di Dio” che aspettiamo – scriveva Quinzio in quegli stessi lontani anni – e tutto quello che “accade prima… come un momento di una battaglia al quale seguono altri momenti della stessa battaglia e altre battaglie fino alla vittoria definitiva che istituisce la vera, la giusta realtà, il cui re vittorioso è il vero re ed estende il suo dominio proiettandolo anche nel passato, tanto che lui che era in un certo momento delle sue lotte in fuga, ferito, soccombente (forse l’ultimo dei suoi soldati l’ha salvato portandolo a spalla), risulta adesso, in ogni momento anche nel passato, re ascendente sul trono. Il tempo escatologico abbraccia (abbraccerà) nella sua signoria anche il tempo mondano finalmente vinto e forzato ad essere, in conformità al suo esito, tempo precario e capovolgibile in tutti i suoi contenuti. La morte di Dio è la realtà del vecchio eone in cui Dio è assente, e la vita di Dio è la realtà del nuovo eone in cui Dio è presente, ultima e definitiva, quindi unica, realtà… La risposta ormai anche per noi non può essere che il miracolo del regno, la consolazione del regno. Importante è non eludere la verità della crocifissione di Dio per renderci più credibile la fede nella salvezza” (Dalla gola del leone).
Ci sia dato di comprendere, fino all’ultimo giorno, nostro o del mondo, quanto sia prima di tutto Dio ad avere bisogno della venuta del suo regno, almeno ogni volta che recitiamo l’unica preghiera che Gesù ci ha insegnato.
Daniele Garota
(4.fine)