Koinonia Febbraio 2021
“TEOLOGI SENZA SAPERLO”
MA SAREBBE MEGLIO SAPERLO
La teologia è una scienza?
La teologia è una scienza? Problema indubbiamente tecnico, nonché scolastico, e in effetti trattato dai teologi nelle loro discussioni professionali. Ma a noi semplici credenti non interessano tali discussioni da iniziati, né possediamo la competenza necessaria per entrar in merito, e dubitiamo piuttosto che lo sguardo della nostra fede venga ostacolato dall’indiscrezione di una simile curiosità razionale. In ultima analisi, non è un contaminare la Parola di Dio, nella sua rivelazione, il fatto d’introdurre così nella nostra docilità fervida ed adorante oggetti e metodi che la ragione, cosiddetta scientifica, avrà dal canto suo, elaborati? La semplicità del Vangelo è il segno stesso della sua divina trascendenza.
Questo è appunto il problema. Anche ai nostri giorni, non è una questione di scuola o di specialisti porre il problema: è il desiderio stesso dei fedeli, in una spontaneità vitale che costituisce, al di là di ogni ricerca tecnica, una prova di salute morale. In realtà, nel momento attuale, non esiste indice più valido dell’equilibrio del popolo cristiano di questa aspirazione ad una cultura teologica, come ne fanno testimonianza moltissime pubblicazioni grandemente diffuse. Il movimento biblico, il movimento liturgico, il movimento missionario, le aspirazioni ecumeniche, il rinnovato fervore pastorale, sono risvegli cristiani di prima grandezza: avrebbero potuto, tutti presi dal loro nobile fine e dal loro fervore, chiudersi in se stessi. Ciò avrebbe determinato uno squilibrio, se non degli individui, per lo meno della comunità ecclesiastica. È ammirevole il fatto che, senza minimamente ridurne la portata, si sviluppi in seno ad essi questa curiosità organica della fede che i teologi hanno il gradito compito di soddisfare.
Non è proprio il gran pubblico, come comunemente si dice, a interpellare direttamente i teologi onde averne il parere sulle «attualità?» Si cerca il loro appoggio, di cui si usa secondo i propri interessi, senza discrezione. Le stesse questioni interne della Chiesa, sulle quali essi sono allora espressamente chiamati a parlare, destano la simpatica curiosità della stampa a grande tiratura. Non potrebbe il teologo, dopo molti secoli di disgrazia, incontrarsi con l’uomo della strada?
“Io credo a ciò che insegna il mio parroco”. Ci fu un tempo in cui si seguiva non senza compiacenza questa regola di fede, con una punta di ingenua sfida alla quale il genio stesso di un Claudel si prestava volentieri. Una certa semplicità della fede, in una forma di obbedienza infantile, conferisce a questo detto la parte di verità che esso esprime. Ma se non si fa attenzione al riguardo, questa semplicità degenera rapidamente in semplicismo, questa autorità in clericalismo, questa docilità dei figli di Dio in infantilismo. La «fede del carbonaro» può andar bene per il carbonaro, un carbonaro d’altri tempi, ma non è certo valida per un uomo del 1958, che si trova a vivere in un mondo in cui bisogna essere adulti non soltanto per guadagnarsi la vita, ma per credere. Una fede adulta si nutre di «teologia», in una intelligenza interiore della Parola di Dio, che costituisce il più bell’omaggio che un essere possa tributare a questo Dio che gli parla.
Si riscontra, nella lettura del Vangelo, un certo semplicismo che, sotto la sua seduzione, nasconde una inconsapevole e inavveduta limitazione alla verità umana del dialogo che Dio svolge con l’umanità, da Abramo, padre dei credenti e, poi in maniera suprema, col Cristo Figlio di Dio incarnato. L’incarnazione di tale Parola segue il suo corso nel mio spirito il quale, nella luce della fede, si accinge a parlare la Parola di Dio. Lo choc che essa produce in me, grazia infinitamente gratuita, non si esaurisce in se stesso: fa al contrario vibrare tutte le fibre della mia intelligenza e mi induce a costruire in me, secondo la struttura razionale di questa intelligenza, gli elementi di tale Parola. Certo, un lavoro del genere avrà le sue leggi, le quali non si ridurranno a quelle che il linguaggio corrente definisce scientifiche: è nostra intenzione farlo ora presente; ma cominciamo col provare la validità religiosa di un tale lavoro, nei suoi differenti livelli.
Ad uno di questi livelli noi troveremo il problema tecnico di una teologia-scienza, problema insito nella posizione generale di questa intelligenza della fede. Ma noi tralasceremo volutamente nella nostra trattazione, secondo i fini della presente collana, il settore specifico di una teologia in cui gli specialisti ordinano sistematicamente le loro proposizioni ed elaborano le loro conclusioni. In effetti questo lavoro tecnico si inserisce in una elaborazione di proporzioni più vaste in cui, dalla lettura della Scrittura sino alla condotta della mia azione, sono messe in opera, per l’intelligenza del contenuto della rivelazione e sotto la luce della fede, le molteplici risorse dello spirito. Così S. Tommaso, secondo i Padri, dava alla parola teologia, letteralmente «dottrina sacra», il suo pieno significato, senza che ne venisse danneggiata la funzione formalmente scientifica.
Proprio in questo equilibrio e secondo questa ampiezza, vorremmo rispondere all’interrogativo che ci siamo posto ed istruire così, con un criterio quanto mai valido, i cristiani di oggi, desiderosi, nella loro fede cosciente, di fare della teologia. (pp.5-8)
Teologi senza saperlo
Senza saperlo, voi fate della teologia, e quanto più se siete credenti pervasi da una pura fede evangelica. Ave- te partecipato alla celebrazione della S. Messa, in cui l’altare del sacrificio era volto verso il popolo; dopo un attimo di sorpresa dinanzi a tale innovazione (fondata nella tradizione, del resto), avete compreso il significato di questo atteggiamento e il termine stesso «partecipare», che usate al posto dell’espressione «assistere alla messa», dimostra una intelligenza del mistero sacro, che va oltre un semplice rinnovamento di fervore. In questa intelligenza della fede sta la vostra teologia.
Avete letto il Cantico dei cantici, questo libro mirabile che narra le nozze di Dio e dell’umanità. Il realismo delle descrizioni non vi ha turbato, perché avete compreso che, nel libro sacro, è normale rendere con immagini oltremodo terrene la vita di Dio. Avete così interpretato il testo secondo le leggi del genere letterario che, nella parabola, costruisce la similitudine non sull’allegorismo di ogni singolo particolare ma sul complesso generale della metafora. In questa lettura critica della Parola di Dio, sta la vostra teologia.
Voi trovate nella lettura delle opere di S. Teresa non soltanto motivi di fervore contemplativo, ma una concezione dell’unione con Dio, della conquista delle virtù, dei progressi della grazia, che riscuote il vostro generoso consenso, mentre la Pratica della perfezione di Rodriguez non esercita su di voi influenza ed attrattiva alcuna. Certo vi asterrete dal giudicare sull’ortodossia di queste due spiritualità, la cui differenza è evidente, ma che sono entrambe accreditate, in seno alla Chiesa; ma voi optate sperimentalmente e dottrinalmente per Santa Teresa e, come si dice, per la sua scuola. Voi fate così della teologia.
Vi siete iscritto ad un gruppo di Azione Cattolica, e il vostro comportamento è stato compenetrato da una particolare visione della salvezza del mondo, e questo è avvenuto non soltanto per fervore apostolico, ma per una percezione caratteristica delle condizioni della grazia in Cristo: avete scoperto di nuovo il mistero dell’Incarnazione, siete profondamente sensibile, nella vostra meditazione, all’umanità di Cristo nell’unità del suo essere divino; vi compiacete di alimentare la vostra fede nel corpo mistico di Cristo. Fate così della teologia: senza conoscere le antiche controversie sull’Incarnazione, senza sapere che i Padri di Antiochia guardavano all’unità di Cristo, mentre gli Alessandrini preferivano contemplare il Verbo nella sua unità, avete, senza accorgervene ma penetrandola a fondo, seguito una corrente teologica che, sempre valida nella Chiesa, equilibra in maniera diversa i dati complessi del mistero dell’Incarnazione.
Eccovi alle prese con il problema del cristiano nel mondo; desideroso di affermare i principi della giustizia e dell’amore fraterno, vi trovate dinanzi al fenomeno sociale dell’appropriazione dei beni materiali da parte del singolo, fenomeno indubbiamente naturale, ma subito minacciato da eccessi odiosi, anzi, portato alla ribalta, nelle sue forme concrete, dalle strutture di una società nuova, in cui la distribuzione non può effettuarsi in un clima di giustizia e di amore, se non con l’intervento di poteri stabiliti, professionali o politici. Eccovi portato a riflettere sulla ragione d’essere della proprietà privata, sia che voi la considerate il mezzo atto a concedere all’individuo il suo spazio economico vitale, sia che scorgiate il procedimento meno inefficace per realizzare concretamente, nella loro distribuzione, la sorte collettiva delle ricchezze per il bene comune dell’umanità. Vi accingete a fare della teologia, e a scegliere addirittura tra due teologie della proprietà.
<…> Alle prese con i problemi dell’organizzazione del lavoro, desideroso dell’emancipazione economica e politica dei popoli meno evoluti, tormentato dall’ambiguità dei nazionalismi, solidale, che lo vogliate o no, con i non cristiani nei bisogni e nelle speranze della umanità, portato a costatare la presenza presso atei di giuste scoperte di nuovi valori terreni, vi sentite dubbioso sugli incontri ai quali acconsentire e sulle istituzioni a cui collaborare, consapevole dell’irriducibile distacco del cristiano nel mondo e, nello stesso tempo, convinto nella vostra fede dì essere il lievito evangelico gettato nella pasta. Che fare? Che fare in linea di massima? Che decidere di fatto. Ascoltate questa lezione di teologia, tenuta sull’argomento dallo stesso Pontefice Pio XII, in un discorso in cui troverete la duplice luce di un insegnamento autentico del magistero ed una analisi teologica della condizione umana in un mondo in progresso, una teologia, diciamo, della natura e della grazia. “... Ciò significa che non si può collaborare al servizio della comunità mondiale nelle istituzioni in cui Dio non è espressamente riconosciuto quale autore e legislatore dell’universo? Qui è d’uopo distinguere i livelli di cooperazione. Infatti senza dimenticare che il suo scopo ultimo è quello di contribuire alla salvezza eterna dei propri fratelli, il cristiano terrà presente che l’avvento del Regno di Dio nei cuori e nelle istituzioni sociali richiede molto spesso un minimo di espansione umana, pura esigenza della ragione, alla quale ogni uomo normalmente si sottomette, anche se non ha la grazia della fede.
“Il cristiano sarà quindi pronto a lavorare per il sollievo di tutte le miserie materiali per lo svolgimento universale di un insegnamento dì base, (Pio XII si riferiva al programma educativo dell’Unesco per i paesi sottosviluppati, che alcuni rifiutavano a causa della sua neutralità religiosa) in una parola, per tutte le imprese che mirano direttamente al miglioramento della condizione dei poveri e dei diseredati, certo di compiere un dovere di carità collettiva, di preparare l’accesso di un più grande numero di uomini ad una vita personale degna di questo nome... Poiché la sana ragione è sufficiente a stabilire le basì del diritto delle genti... Per questo la cooperazione dei cattolici è desiderabile in tutte le istituzioni che rispettano, in teoria e in pratica, i principi delle leggi naturali” (Pio XII).
La vostra devozione alla Vergine vi sembra a ragione una prova della verità della vostra fede nell’economia dell’Incarnazione. Cercate istintivamente, per un solido equilibrio, di dare un fondamento a questa fede così pervasa di delicatezza, sia per comprendere le grazie di questa Donna, sia per misurarne i privilegi. E comprendete, certamente non per averne studiato la dottrina, ma perché costruite la vostra fede, che il valore essenziale di queste grazie e la misura di questi privilegi stanno nella maternità divina di Maria. Traete così beneficio dalla teologia che, da alcuni decenni, ha fatto mirabili progressi sino alla recente proclamazione del dogma dell’Assunzione della SS. Vergine.
E così di seguito. I casi sono innumerevoli. Certo, voi non frequentate corsi di teologia, il che non è per voi strettamente necessario, ma, dovete riconoscerlo, può essere richiesto per una conoscenza più organica di tutti questi elementi della fede, in una società che ne ha il deposito sacro. Voi fate della teologia, senza saperlo; ma sarebbe meglio saperlo. L’uomo diviene adulto in quanto sa ciò che fa. Altrettanto avviene al cristiano. L’adulto è colui che, divenendo cosciente di ciò che porta in sé, vi riflette sopra, ne considera gli elementi, ne costruisce le risorse, ne unifica la vita. Il teologo è un cristiano adulto il quale, divenendo cosciente di ciò che porta in sé, vi riflette sopra, considera il complesso contenuto della sua fede, lo costruisce, lo unifica. (pp.14-18)
Teologia e fede
Comunque stiano le cose - e d’altronde la forza delle obiezioni sta proprio nel basarsi su questa affermazione - la scienza teologica non può nascere e costruirsi che nell’ambito della fede. Come è possibile concepire una teologia senza la fede? Alcuni hanno tentato di costruire un simile sapere, ma noi non vediamo in questo tentativo che una deplorevole infiltrazione, nella metodologia teologica, del razionalismo che, nel secolo XVIII, al tempo del cosiddetto «illuminismo», esaltò, come unico tipo di conoscenza, quella razionale secondo le strutture della conoscenza scientifica (nel significato moderno della parola). Vi compariva anche una certa concezione della stessa fede, ridotta ad una semplice modalità soprannaturale della comune credenza religiosa. Gli stessi filosofi hanno, fin da allora, reagito a questa definizione univoca della intelligenza e riaffermato, fin nella loro opera, i valori della credenza religiosa, o della testimonianza, come via d’accesso ad alcune realtà umane. Condanniamo, in ogni caso, una simile contaminazione del sapere teologico ad opera della mentalità scientifica. Con qualsiasi attributo la si qualifichi, la teologia non può acquistare significato e contenuto che nella luce e sotto la luce della fede.
Inizialmente, e da un punto di vista elementare, questo oggetto divino non esiste per l’uomo che in una rivelazione, uno svelarsi, in cui Dio si dice tale: “Ciò che Dio solo conosce di se stesso, e che ci ha comunicato per rivelazione”, è la definizione di S. Tommaso (Somma Teologica, I, qu. 1, art. 6). Sono questi dei dati che io non posso neppure immaginare, al di fuori di questo magistero divino, definito ed esercitato nella sua Chiesa. Ricevere questi elementi di fede, farne come l’inventario, è il primo atto del teologo. Non sono forse questi «articoli di fede», i principi del suo sapere?
Da un punto di vista più profondo, la fede è necessaria per innalzare la mia intelligenza al livello di questo oggetto che, per natura, le rimane impenetrabile soltanto a questo livello - comunione col pensiero di Dio - una teologia (teo-logia) è non soltanto normale, ma possibile. Nella conoscenza di Dio, come in ogni conoscenza, l’oggetto conosciuto non si trova in noi come una materia, introdottavi tale e quale, come una pietra in un organismo; conoscere è divenire l’altra persona. Realismo di una omogeneità (i medioevali dicevano continuitas, continuatio, traducendo la lingua e lo spirito del grande Dionigi) la quale, in tal caso, è chiaramente l’effetto di un beneficio gratuito. Il teologo pensa ed opera nell’ambito di questa divina omogeneità.
Un individuo che non crede non potrebbe, una volta stabiliti i dati della rivelazione, e dopo averli presi in esame come materia di analisi, di definizione, di deduzione, fare della teologia? Se, ad esempio, stabilita come cosa certa l’umanità di Cristo, egli giungesse alla conclusione che esiste in lui una scienza umana accanto alla sua scienza divina, il suo ragionamento non sarebbe forse valido? Materialmente, sì; ma nell’insieme delle proposizioni, nei mezzi termini di questa dialettica, non scenderà la luce interiore da cui scaturisce l’intelligenza reale del fatto analizzato. Si tratterebbe in tal caso di una semplice lettura critica dei testi della Scrittura, Parola di Dio: senza la fede, non è che un rosicchiare la scorza (S. Gregorio). Non soltanto il lavoro del teologo è allora sprovvisto della delicatezza spirituale richiesta, dello spirito di fede, si dice comunemente, con un’espressione peraltro alquanto discutibile; ma gli manca una qualità, quella «qualità» essenziale, che si produce nello spirito ad opera della comunione oggettiva di una «co-nascenza» (nascita con), secondo l’allitterazione verbale con cui Claudel definisce la conoscenza. «Considerare i dati rivelati come enunciati puramente teorici, dimenticare l’involucro vivente, psicologico e sociale da cui la si fa derivare, è già rischiare di fraintenderli; trasformarli in pure speculazioni metafisiche, non vedervi dovunque l’amore infinito di Dio che si rivela agli uomini, significa non comprenderli affatto». Chi perde la fede, perde la teologia.
In verità, la teologia è una partecipazione alla conoscenza di Dio, proprio per opera sua, “quaedam impressio divinae scientiae” (S. Tommaso, Somma Teologica, I, qu. 1, art. 3, 2). Se dunque è una scienza, non lo sarà per una eliminazione o riduzione della fede, come se a poco a poco il credente, a forza di intelligenza, eliminasse il mistero. La mia intelligenza di credente, nel suo desiderio di conoscere, potrà avvalersi di mezzi di penetrazione, dare un indirizzo alle sue indagini, sviluppare quello che, per analogia, potremmo chiamare spirito scientifico; ma, ben inteso, ciò non avverrà che sotto l’influsso permanente della luce infusa della fede. (pp.23-26).
M.-Dominique Chenu op
In: M.-Dominique Chenu, La teologia è una scienza?, Edizioni Paoline, Catania 1958.