Koinonia Gennaio 2021


Nell’VIII centenario della morte

“A TAVOLA CON SAN DOMENICO”

 

Celebrare il centenario della morte di san Domenico quasi come invito “A tavola con san Domenico”, sulle prime appare una dicitura alquanto bizzarra che incuriosisce. Poi si viene a sapere che questa scelta è legata alla “Tavola della Mascarella”, intesa questa volta come dipinto su legno che peraltro ritrae san Domenico a tavola con i suoi frati, e che quindi è emblema di convivialità: qualcosa di significativo che rivela uno spirito e uno stile di fraternità ben precisi, in ordine ad una missione apostolica.

Non sarebbe forse facilmente immaginabile dire “A tavola con san Benedetto” o “A tavola con San Francesco”, che esprimono stili e sfumature diverse di fraternità rispetto a quella domenicana, che però andrebbe ripensata per farla uscire dalle facili omologazioni di rito. Dalla benedettina, liturgica e compassata, si differenzia  senz’altro la fraternità francescana, estrosa e imprevedibile: la fraternità domenicana possiamo vederla caratterizzata da queste parole di sant’Alberto Magno, quando parla di un’esistenza vissuta “in dolce compagnia alla ricerca della verità” (In dulcedine societatis quaerere veritatem)!

Ma il singolare logo di presentazione del centenario - ”A tavola con san Domenico” - offre un’altra possibilità di interpretazione, che dà a questa ricorrenza un tono più familiare: possiamo immaginare di trovarci insieme a tavola con il Padre dei Predicatori, in dolce conversazione con lui, per sapere dei suoi intenti, delle sue scelte, delle sue prospettive, e per tentare idealmente un confronto aperto con lui ed interrogarci sulla rispondenza o meno al suo spirito. È il tentativo di entrare in un dialogo interiore e sussurrato che ci aiuti a chiarirci come continuare la sua opera nel mondo,  al di là di formule standard ma con la sua stessa passione.

Eccolo allora, il Padre dei predicatori, raccontarci di sé e far capire cosa ha inteso fare per prolungare nei secoli la sua missione, prendendo su di sé “l’ufficio del Verbo” e convertendosi da “uomo evangelico in apostolico”,  tanto da essere riconosciuto universalmente come “luce della chiesa” (lumen ecclesiae). Ci dirà che ha appreso tutto dal “libro della carità” da cui attinge tutta la sua carica di compassione per le necessità di tutti e per la “sorte dei peccatori”; della sua sete  di salvezza dell’umanità, che era il senso della sua vita e che volle come   “legge suprema” per il suo Ordine.

È questo sentimento profondo che lo porterà in prima istanza alla scelta del sacerdozio e della vita contemplativa in una comunità “regolare”. Ma quando le circostanze lo porteranno al di fuori del suo ambiente e gli consentiranno di rendersi conto della situazione reale della chiesa nella cristianità dell’epoca, questa sua passione interiore prenderà tutta un’altra piega: si rende conto che la “salvezza delle anime” non  basta cercarla attraverso la preghiera e la penitenza nel chiuso di una comunità o nell’ordinaria assistenza religiosa, ma passa anche attraverso la predicazione itinerante.

Sembra dirci che prende coscienza del fatto che il vangelo non è solo forma di vita cristiana ed ecclesiale, ma deve diventare comunicazione e testimonianza  aperta di verità, non come qualcosa di aggiuntivo o facoltativo rispetto ad altro, ma come irradiazione naturale della chiesa nel suo insieme e di ogni comunità cristiana. E allora si capisce perché egli non si contenta di parlare con Dio, se al tempo stesso non passa a parlare di Dio. Per cui la contemplazione si fa azione, nel senso che il mistero della salvezza vissuto nella fede viene condiviso  nell’annuncio del vangelo, nella partecipazione al cammino storico della chiesa!

E quando si rende conto che questo è un compito intrinsecamente ecclesiale e non solo carisma personale, passa a coinvolgere altri, non tanto per creare un’organizzazione a tavolino, ma come necessità di risposta alle urgenze del momento, e anche per dare alla missione altro respiro ed altra risonanza. Così come lascia capire che per rispondere ad istanze profonde di fedeltà al vangelo e di responsabilità ecclesiale non basta mantenere le proprie posizioni di rendita e di prestigio, ma bisogna ripensare se stessi e ripartire daccapo: farsi appunto itineranti e mendicanti, in modo da ristrutturarsi nel proprio sistema e stile di vita, in funzione primaria del servizio del vangelo in mondi sempre nuovi. E questo al di là di ogni facile retorica, ma in attitudine e disponibilità di coinvolgimento radicale per la salvezza in nome del vangelo e in quanto chiesa. Non possiamo sottovalutare quello che di Domenico si legge nel prefazio della liturgia della sua festa: e cioè che “facendo scaturire l’apostolato dalla contemplazione, si votò totalmente al rinnovamento della Chiesa”. 

Ma come arrivare ad essere uomini evangelici sulla sua falsariga, dediti totalmente al rinnovamento della chiesa?  Ecco allora indicarci la via dello studio, della preghiera liturgica e della povertà, mentre il tutto dovrebbe trovare nella vita del convento il suo crogiuolo come “casa di predicazione”: cioè laboratorio di maturazione umana, spirituale e teologica per una non facile avventura nel mondo. Il “convento” non come denominazione generica  di “casa religiosa” né come  semplice sinonimo di “monastero”, ma genere nuovo di vita in una chiesa che si vuole evangelizzatrice per natura in senso specifico. Ragion per cui è stato giocoforza per Domenico ottenere a fatica tutte le approvazioni canoniche necessarie per innestare istanze nuove in ordinamenti antichi. Ed anche in questo egli si è dimostrato uomo di saggezza e di governo

Stando a tavola in tacita “conversazione col Padre dei Predicatori”, è così che si rivela la sua fisionomia, per dire anche a noi stessi cosa gli premeva, cosa proponeva, cosa richiedeva, se si vuole  orientare  la nostra azione al proseguimento della sua opera nella storia: si capisce subito che la sua consegna deve tradursi in orientamento e scelte di vita apostolica ben precise, senza scadere in comportamenti pastorali  scontati quanto autoreferenziali. Domenico ha voluto farci capire che lui non ha creato un’organizzazione per determinati scopi e programmi da attuare: ha cercato semplicemente di forgiare donne e uomini desiderosi di rigenerare la fede della chiesa e una chiesa della fede: far rinascere la comunità cristiana per riportarla alla sua stessa ragion d’essere nel mondo, e quindi come memoria profetica.

Ed è a questo scopo, appunto, che Domenico ha suscitato e promosso una vita “conventuale” come segno e strumento di evangelizzazione prima che come luogo di perfezionamento spirituale. Se vuole il convento come “casa di predicazione”, sta a dire che questa predicazione è in quanto chiesa, sia come soggetto  che come obiettivo. Questo intento è passato nel “Libro delle costituzioni dei Frati Predicatori” in questi termini: “I  frati… edifichino prima nel proprio convento la Chiesa di Dio, che poi con la loro opera devono diffondere nel mondo” (3 § II). Siamo alquanto lontani da una concezione di convento come pura assistenza religiosa, centro di attività spirituali, luogo di manifestazioni culturali, senza la necessaria organicità evangelica polivalente!

Proprio questa ampiezza ecclesiale spiega come mai si possa partecipare all’opera di evangelizzazione rilanciata da Domenico pur non facendo parte formalmente del suo Ordine, che peraltro è chiamato a promuovere nella chiesa intera il proprio carisma in forme diverse  in  quanti nutrono la stessa passione. È quello che santa Caterina da Siena lascia capire quando parla dell’Ordine dei Predicatori come “religione tutta larga”, fondata più sulla consacrazione di sé alla missione che sul perseguimento di risultati mirati. Ad essere regolamentato e governato perciò non è l’ordine dei fini ma quello dei mezzi, non quello dei valori ma quello degli strumenti. La dimensione carismatica non coincide con quella istituzionale, ma la trascende in rapporto dialettico. Sempre santa Caterina, a proposito della navicella di Domenico, riferisce che “egli l’ordinò con ordine perfetto, ché volle che attendessino solo a l’onore di me e salvezza delle anime col lume della scienzia”. È chiaro che tutto questo non può risiedere nelle prassi codificate e nelle strutture anonime, ma prevede liberi interpreti che se ne facciano carico

Ed è proprio a questo proposito che la conversazione a tavola con Domenico consente di interrogarsi sulla fedeltà o meno ai suoi propositi: quella secondo lo spirito che guarda ai fini da tenere presenti e vivi, o quella secondo la lettera che guarda ai mezzi che non possono diventare fini.  Non è perciò fuori luogo sentirsi chiamati in causa  anche come Koinonia, in quanto espressione di  un’iniziativa nata alla luce e nella linea di Domenico, allo scopo di sintonizzarci meglio col suo spirito davanti alle istanze di evangelizzazione ai nostri giorni. Per la verità, non abbiamo mai dato molto rilievo alla sua dimensione “domenicana”, interessati sul suo esempio alle urgenze evangeliche della chiesa più che al protagonismo di famiglia. Ma non serve a nessuno nascondersi che la matrice da cui Koinonia nasce e l’ambiente in cui è sempre vissuta ci riportano all’Ordine dei Predicatori. Basterebbe fare l’elenco dei vari luoghi in cui è trasmigrata: Monastero san Domenico di Querceto, Convento san Marco di Firenze, Convento san Domenico di Pistoia, Convento san Domenico di Fiesole.

Il punto è, comunque, se oltre che muoversi in ambito domenicano, Koinonia esprima a suo modo lo  spirito di Domenico, così come abbiamo cercato di coglierlo attraverso l’intimo scambio con lui a tavola, per riscoprire insieme la sua proposta di predicazione del vangelo al di fuori di automatismi pastorali rassicuranti. Comunque siano andate le cose nel nostro lungo percorso, crediamo di essere rimasti  fedeli alle linee tracciate al momento di varare l’iniziativa, partita con tanto di approvazione canonica dell’Ordine, nel quale peraltro rimaniamo.

L’ispirazione e la spinta propulsiva erano indicate in queste motivazioni  addotte  nella  richiesta di approvazione: “La necessità di ricercare ed attuare un modo più autentico di assolvere oggi una responsabilità di ministero della Parola di Dio... Il desiderio di portare un contributo di esperienza e di riflessione alla riscoperta pratica di una più adeguata collocazione sacerdotale e domenicana all’interno della chiesa e tra gli uomini”.  Eravamo nel 1972, a qualche anno dal Concilio, e dentro ad istanze che sono più che mai  davanti a noi come compito.

Basti dire che tutto è servito a trasformare un’ipotesi di lavoro e relativa  sperimentazione in ferma certezza: e cioè che l’annuncio del vangelo è un ministero e compito specifico da assumere e da assolvere come ragione primaria di vita, da svincolare da tutte le pastoie procedurali e di comunicazione in cui necessariamente ci troviamo ad operare; qualcosa da vivere dentro e al di sopra delle condizioni di fatto, e cioè come consacrazione di vita prima che come esecuzione di un programma. E questo in tutte le forme possibili e compatibili, ma senza lasciar cadere la tensione animatrice simboleggiata dal cane con la fiaccola. Non a caso, tracciando un profilo di Domenico, G.Bernanos ha intitolato “L’incendiario di Dio”!

Sempre a tavola con lui, Domenico potrebbe dirci del suo sogno mai realizzato, che però rimane la stella polare  della missione dell’Ordine nella storia: “andare ai Cumani”, oltrepassare le barriere della cristianità per evangelizzare nuovi popoli! Sembra infine volerci ricordare di persona che nella Regola di sant’Agostino da lui scelta viene detto di comportarci “non come schiavi sotto la legge, ma come liberi, stabiliti nella grazia”: è la formula giusta per coordinare e conciliare fedeltà al carisma e lealtà istituzionale in ordine ad una predicazione  del vangelo costitutiva di una originale forma di vita.

“A tavola con san Domenico” diventa così un invito per tutti a partecipare in qualche modo alla comprensione e all’attuazione di un servizio del vangelo che sia sempre meno un modo di dire e sempre più una passione da vivere! Buon centenario!

 

 

Alberto Bruno Simoni  op

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