Koinonia Gennaio 2021


“… L’ALTRO PER SAPÏENZA IN TERRA FUE

DI CHERUBICA LUCE UNO SPLENDORE”

(PARADISO  XI, 38-39)

 

Il Canto XII del “Paradiso” è ambientato nel Cielo del Sole, in cui si presentano a Dante gli spiriti sapienti. In particolare il testo qui riportato costituisce l’elogio di San Domenico, pronunciato dal francescano Bonaventura da Bagnoregio, elogio simmetrico a quello che nel canto XI il domenicano Tommaso d’Aquino fa di San Francesco, secondo una tradizione di “amicizia” tra i due Ordini mendicanti ancora oggi seguita. Dante parte dalla constatazione che i due santi furono inviati dalla Divina Provvidenza in un momento di grave crisi della cristianità: “lo ‘mperador che sempre regna / … a sua sposa soccorse / con due campioni, al cui fare, al cui dire /lo popol disviato si raccorse”. Mentre Francesco fu “tutto serafico in ardore”, Domenico fu “di cherubica luce un splendore”: diversi quindi i loro carismi, diversa la loro spiritualità, ma le loro azioni mirarono ad un solo scopo, che la Chiesa “andasse ver’ lo suo Diletto /... in sé sicura e anche a lui più fida”.

La biografia di Domenico – che Dante riprende in gran parte dalla Legenda ufficiale compilata dal domenicano Teodorico d’Appoldia, dallo Speculum di Vincenzo di Beauvais e dalla Legenda aurea di  Jacopo da Varagine – inizia con la descrizione del luogo di nascita, Calaruega nella Vecchia Castiglia. Il riferimento allo “Zefiro dolce” che fa germogliare le fronde primaverili non può essere casuale: Dante vuole probabilmente suggerire un paragone fra il vento primaverile portatore di vita e Domenico, anch’egli portatore di benefici effetti, quasi una vivificante primavera per la Chiesa.

Seguono i sogni premonitori della madre e della madrina: la madre in gravidanza sognò che avrebbe partorito un cane bianco e nero (i colori dell’abito domenicano), che portava in bocca una fiaccola con cui incendiava il mondo (il fuoco della predicazione). La madrina sognò invece il bambino con una stella in fronte, che illuminava il mondo guidandolo alla salvezza. E dal cielo discese l’ispirazione a chiamarlo con l’aggettivo possessivo di colui (Dio) al quale egli apparteneva anima e corpo (Dominicus possessivo di Dominus, quasi “proprietà del Signore”). È la convinzione medievale che ci sia un nesso fra la cosa nominata e il nome, che ritroviamo anche più avanti in riferimento ai nomi dei genitori di Domenico.

Vediamo poi i diversi momenti della sua esistenza. Il primo amore che egli rivelò fu per l’umiltà e la povertà. Presto si dedicò agli studi di teologia e si fece dottissimo, non per conseguire ricchezza e onori, ma per acquistare la vera sapienza, quella che ha per fine la salvezza della Chiesa. Segue il rifiuto di ogni beneficio, di ogni carica ecclesiastica, del godimento delle decime, in un susseguirsi martellante di “non” che suggerisce lo spogliarsi da ogni bene terreno. L’uso della lingua latina conferisce solennità al passo e alla polemica contro l’avidità di molti uomini di Chiesa, che in Dante è molto frequente e violenta.

Infine, una volta ottenuta l’autorizzazione da Onorio III, Domenico si impegna con la potenza di un fiume prorompente e incontenibile nella lotta contro gli eretici, particolarmente in Provenza, centro dell’eresia degli Albigesi.

Anche dal lessico si può vedere che motivo portante dell’elogio è la rappresentazione di Domenico come “guerriero della fede”: il campo semantico è infatti connesso con i concetti di “forza” e “esercito” (scudo, atleta, a’ nemici crudo, combatter, percosse). A questa immagine guerriera si affianca quella altrettanto energica del buon contadino (agricola, orto, vigna, vignaio, arbuscelli), a suggerire anch’essa sensazioni di forza inarrestabile e travolgente.

La simmetria fra i canti XI e XII è completata dalla condanna della decadenza degli Ordini domenicano (XI) e francescano (XII), decadenza che deriva dal perseguire i beni terreni, dal non distinguere fra spirituale e temporale, dove temporale significa soprattutto interesse al potere politico e asservimento al denaro. Contro la “maladetta lupa” dell’avarizia e l’ingerenza politica dei papi, Francesco e Domenico rappresentano la chiesa umile e povera, spirituale e ascetica voluta da Cristo. Dante non esprime il pessimismo di una caduta irreparabile, ma la possibilità di una riaffermazione della legge evangelica attraverso le riforme realizzate dai due Santi, nella coscienza che la Chiesa è istituzione insostituibile: una volta che ne sia stata estirpata la “mala coltura”, la Chiesa, insieme con l’Impero, tornerà alle sue origini e, ritrovato il suo volto più autentico, ricondurrà l’umanità a Cristo.

 

Giovanna Mori

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