Koinonia Gennaio 2021


EUCARISTIA E POVERI (II)*

 

Eucaristie incompiute                  

Le eucaristie si susseguono da secoli. E i poveri continuano ad esserci, a soffrire sulla terra e a crescere di numero. L’eucaristia ci è stata data perché il mondo intero diventi regno di Dio, che Gesù offrirà al Padre: perché tutti gli uomini possano arrivare a vivere la paternità di Dio, ripetendo l’esperienza dell’Abbà che fu propria di Gesù, e possano vivere da fratelli. L’esistenza dei poveri sta a dire che il Regno non è ancora compiuto, ma anche che le nostre eucaristie non sono compiute. Se ci sono poveri vuol dire che il potenziale liberatore dell’eucaristia non passa tutto nella storia, che le nostre innumerevoli eucaristie, in questo senso, sono ‘incompiute’. Ma la presenza dei poveri invoca anche il loro compimento. Il compimento delle nostre eucaristie significherebbe la pienezza del nostro essere figli del Padre e insieme la liberazione effettiva dei poveri, vicini e lontani. I poveri, col loro numero immenso e il cumulo di sofferenze della loro povertà, fissano lo scarto tra le nostre eucaristie e il loro compimento, ma indicano anche la strada da percorrere verso questa piena realizzazione. È la strada che passa attraverso di loro. Solidarizzando e condividendo la loro sorte per uscire insieme da quella povertà, dovremo anche comprendere e vivere sempre più profondamente il mistero della vita di Gesù radicata nella volontà del Padre e spesa per gli altri, della sua morte di povero, della sua resurrezione dalla morte di croce. E questa comprensione di fede diventerebbe forza per lasciare che le eucaristie si compiano, senza opporre loro la nostra resistenza. In questo senso, gli ultimi, vicini e lontani, sempre giudicano silenziosamente le nostre eucaristie.

 

Comunità di persone                                            

Una  condizione che si rivela indispensabile per costruire, in coerenza con `l’invocazione’ di ogni eucaristia, una comunità cristiana in cui nessuno sia bisognoso (cf. At 4, 34) o almeno ci si avvii verso questa mèta, è una certa trasparenza dei rapporti interpersonali. Non è facile risolvere il problema del sostanziale anonimato di molte eucaristie celebrate in grandi o medie parrocchie. E nel clima culturale che viviamo di disgregazione e incomunicabilità, in questa «cultura dei recinti», come qualcuno ha detto, il problema si pone anche per le parrocchie di dimensioni modeste. La comunicazione della fede è colpita da questi modelli culturali. Ed evidentemente anche la carità. Bisogna insistere, e in alcune parti si sta facendo, nel costruire comunità attraversate da relazioni personali vive e nel portare con discrezione queste relazioni dentro le celebrazioni eucaristiche. Pensando alla cena di Gesù con i suoi amici, pur iscritta nella sacralità di un rito, con la densità del rapporto personale che l’attraversava, e guardando l’immobile estraneità di molte nostre assemblee liturgiche, si misura una distanza troppo grande. L’eucaristia esige per quanto è possibile il superamento dell’anonimato, e domanda d’essere celebrata da fratelli che effettivamente si conoscono e si parlano. In questo contesto, si potranno veramente conoscere, senza umiliare, i «bisognosi» e si potrà con loro cercare la condivisione. Solo così sarà possibile, nella fraternità, evitare ogni paternalismo antievangelico e gli ultimi potranno sentirsi nella comunità profondamente accolti, come l’eucaristia esige. In caso contrario, un’eucaristia celebrata nell’anonimato diventerà inevitabilmente una concentrazione di astrazioni, di parole magari vere ma inopportune per la gente che le ascolta, e se produrrà slancio di carità l’orienterà verso la pericolosa e fredda direzione dell’impersonale.

Un ruolo importante perché l’eucaristia sia anche incontro di fratelli è quello di chi la presiede. Non pensiamo tanto al “saper fare” liturgico, che non tutti i sacerdoti possiedono in misura adeguata, quanto al tratto umano che è capace di “far nascere relazioni” dentro la comunità. Infatti è molto facile, nelle nostre parrocchie che patiscono ancora una strozzatura clericale, realizzare un’apparente comunità intorno al prete: è lui il centro a cui tutti fan riferimento, senza però incontrarsi veramente tra loro. Come succede ai raggi di una ruota. Ma la centralità del prete, se non è unificatrice, diventa autoritaria. E il servizio dell’unità va esercitato favorendo le relazioni trasversali nella comunità: tra persone e persone, tra gruppo e gruppo, tra “forti e deboli” nella fede, come direbbe Paolo. Se il prete sarà un vero, quasi naturale amico degli ultimi, ecco che essi entreranno nel circolo comunitario con una certa spontaneità. Dando per scontate le critiche al sacerdote, inevitabilmente giudicato da alcuni incapace di essere al di sopra dei gruppi, sequestrato da una categoria sociale e quindi parziale. “Ma - dice il Concilio - anche se sono tenuti a servire tutti, ai presbiteri sono affidati in modo speciale i poveri e i più deboli, ai quali lo stesso Signore volle dimostrarsi particolarmente unito (cfr. Mt 25,34 ss) e la cui evangelizzazione è mostrata come segno dell’opera messianica (cfr. Lc 4, 18)”(PO 6). Uomo di tutti, ma particolarmente dei poveri: questo è l’unico modo evangelico per un prete di tessere unità tra i discepoli di Gesù.

Quando il Card. Lercaro chiedeva al Concilio di approfondire i legami “ontologici” che uniscono la presenza del Cristo nei poveri, la presenza del Cristo nell’Eucaristia e “nella sacra gerarchia”, apriva un’impegnativa direzione di ricerca, che non siamo in grado di ripercorrere. Tuttavia poniamo il problema che tocca i Vescovi e di conseguenza i preti: è la misteriosa identificazione di Gesù coi poveri che obbliga a considerare non solo il rapporto tra eucaristia e poveri, ma anche quello tra ministero gerarchico e poveri. “Nella persona dei Vescovi, ai quali assistono i sacerdoti, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, Pontefice Sommo”(LG 21): affermazioni di questo genere, frequenti nel Concilio e tradizionali nella dottrina della chiesa, vanno coniugate con l’altra anch’essa frequente nel Concilio e tradizionale nella dottrina della chiesa: “nei poveri è presente Cristo” (LG 8, 41; PO 6). Le conclusioni potrebbero rivelarsi esigentissime per chi deve essere nella comunità segno della presenza di Gesù povero e solidale coi poveri.

 

Linguaggio emarginante  

“Nell’eucaristia c’è la radice dell’unità e della fraternità. Ogni divisione è chiusura su di sé, ogni settorialismo la inquina alla radice. L’attenzione al povero e il servizio reciproco per farci carico gli uni dei pesi degli altri la rendono autentica” (ECC 28). Non è quindi “settorialismo” l’attenzione al povero. Anzi: senza di essa, si è “settari” perché si esclude il povero. L’eucaristia invece “plasma la comunità” perché sia “una casa accogliente per tutti”. Ma, per non emarginare gli ultimi dalle nostre eucaristie, occorre por mano con coraggio al linguaggio delle nostre liturgie. E’ un problema complesso, ma ineludibile. A chi tocca affrontarlo? A tutti, in modi diversi. Dicendo linguaggio non pensiamo solo alle parole, ma anche al segno e al gesto. E’ vero che ci sono nodi teorici da risolvere: il Concilio chiedeva alla riforma liturgica di rendere più comprensibili i riti (SC 21), ma quando un rito può dirsi sufficientemente trasparente, tanto più in un contesto culturale che sembra essere sempre più estraneo alla forma rituale in quanto tale? E, radicalmente, qual è il rapporto tra l’eucaristia e il rito? Ma al di là dei necessari approfondimenti teologici e sociologici, nella vita quotidiana delle nostre parrocchie è possibile celebrare eucaristie non emarginanti.

Quanto più profonda sarà stata l’assimilazione nella fede del mistero eucaristico, quanto maggiore sarà la docilità al dinamismo che esso comunica, tanto più efficace, corretta e coraggiosa riuscirà l’operazione. Continuiamo a credere che non bisogna sovraccaricare le celebrazioni di attese sbagliate o di compiti impropri. Ma crediamo anche che spesso non c’è da parte delle nostre comunità una sufficiente attenzione a evitare i formalismi, l’anonimato, la ripetitività. Indubbiamente i testi e i riti liturgici oggi presentano delle possibilità, non ampie, ma reali per superare il fissismo totale. Non vengono però utilizzate frequentemente. O, se c’è un’utilizzazione, ne è protagonista solo il sacerdote.

Qualcosa si muove lì dove i laici vengono coinvolti nel ‘ripensamento’ della liturgia, e non solo i laici familiarizzati con la teologia e la catechesi, ma anche la gente semplice, i poveri. Questi ultimi vanno ascoltati seriamente su come si trovano e su cosa vorrebbero trovare nelle nostre eucaristie. Anch’essi naturalmente si dovranno poi confrontare col “dato ricevuto”. Altrimenti assisteremo, come già accade, a degli adattamenti magari ortodossi e intelligenti, ma ancora emarginanti i più deboli. Il remoto e abituale coinvolgimento di tutti, poveri compresi, in un dialogo comunitario sui fatti della vita e il loro senso cristiano, resta premessa indispensabile per ogni vero rinnovamento del linguaggio liturgico.

Siccome nelle nostre parrocchie la messa domenicale è, di fatto, il momento d’incontro di gran lunga più costante per la comunità e, di principio, il momento che dovrebbe strutturarla e fissarne lo stile di vita, è importante non abbandonarla a un meccanismo ripetitivo che stritolerebbe innanzi tutto i poveri, lasciandoli prima al margine dell’assemblea eucaristica e poi al margine della comunità stessa. Per questo occorre sfruttare fino in fondo tutti gli spazi che nel rito vengono espressamente lasciati alla creatività e al legame con gli avvenimenti storici della comunità e del mondo. Se nella comunità, come è auspicabile, ci sono i poveri, bisogna trovare il modo, rispettoso ed evangelico, di renderli partecipanti attivi. Non si può solo parlare e cantare sui poveri: occorre che gli spazi liturgici siano resi accessibili anche a loro. I modi concreti varieranno da luogo a luogo e da tempo a tempo. In questo lavoro, una parte rilevante tocca al sacerdote. Pensiamo ai suoi interventi prima dei momenti più importanti della celebrazione e all’omelia: gli uni e l’altra preparati con i laici? Chi ha provato, prete o laico, sa quanto è difficile e dura, concretamente, questa soluzione. Ma se nei fatti essa si rivela non praticabile, occorrerà percorrere una strada più esigente ancora: quella di un radicale coinvolgimento del sacerdote nella vita della gente, soprattutto dei poveri. E poi una parte molto importante tocca ai laici stessi che dovrebbero essere protagonisti, almeno, dei momenti d’accoglienza e di commiato e della preghiera dei fedeli: gli uni e gli altri da costruire pazientemente in consonanza col senso stesso dell’eucaristia. Non è indifferente per una messa che vuole essere celebrata in un linguaggio totale, accessibile anche agli ultimi, il come ci si incontra e ci si parla all’inizio, il come ci si saluta alla fine, il come si fa sentire la propria voce in assemblea. Nel silenzio dell’arrivare al proprio posto in chiesa, nel frettoloso cenno di saluto finale, nel leggere ad alta voce le preghiere scritte dal centro diocesi sul foglietto, c’è ben poco spazio per l’attenzione alle persone concrete, soprattutto ai poveri. E un’impresa ardua schiodare certe eucaristie dalla fissità consolidata. Ma va perseguita, pur sapendo che il suo successo si prepara probabilmente altrove: nei rapporti personali dei cristiani e nel loro assimilare la parola del Vangelo.

Un’ultima osservazione sulla povertà che l’eucaristia, memoriale di Gesù crocifisso e risorto, impone alle nostre celebrazioni. A volte, per questo discorso, c’è una certa insofferenza, forse eco di aspre polemiche passate. Ma non lo si può accantonare, se si rispettano i poveri e l’eucaristia. I problemi della bellezza e della dignità del culto sono sempre compatibili con la povertà e in ogni caso vanno sempre ripensati nel tempo e dentro le singole culture, anche di gruppi umani a dimensioni ridotte. Resta però oggi ancora sul tappeto il rapporto tra messa e denaro. Non se ne parla quasi più, tranquillizzati forse dal pudore verbale che lo avvolge: non si `paga’ più la messa, ma si `fa un’offerta’; non c’è più `un’offerta fissa’, ma solo `un’offerta libera’... Eppure c’è un groviglio di problemi dottrinali e pratici intorno a questo denaro legato di fatto alla messa: ogni comunità cristiana con i suoi preti dovrebbe lealmente affrontarlo e risolverlo in un’ottica che consideri l’eucaristia, la povertà e i poveri.

 

Franco Marton

(2.fine)

 

*Comunione  e comunità a partire dai poveri, EMI, 1984,pp.

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