Koinonia Gennaio 2021


Ricordando l’amico Piergiorgio Cattani

UNA VITA DI FEDE

 

Domenica 8 novembre 2020, a seguito di un improvviso attacco cardiaco, Piergiorgio Cattani ci ha lasciati. Non è facile dire qualcosa di lui, sarebbe forse necessario un timore e un tremore simile a quello necessario davanti alla Parola di Dio, davanti al “Verbo” che “si fece carne” e carne crocifissa, abitando tra noi quale “amico” tra gli ultimi, i più sofferenti, oltre che bambino tra i bambini.

Mi danno coraggio per iniziare le parole che mi ha detto sua madre Monica al telefono: “Caro Daniele, è accaduto tutto all’improvviso, nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Al mattino mi parlava dell’articolo che avrebbe dovuto scrivere per il giornale, era molto attivo, come sempre. Poi avevamo deciso di non uscire per la messa con questa storia del virus, ma di guardarla in televisione. Finita la messa mi ha detto: ‘Prenderei un caffè’. Il tempo di prepararglielo e quando sono tornata aveva già gli occhi chiusi e non ha più dato segni di vita. Il medico ci ha detto che non si è accorto di nulla, un po’ come quando ci si addormenta”.

E c’è poi una seconda cosa che mi ha colpito, in particolare pensando che è stata sua mamma a dirmela: “Sai, aveva 44 anni e conosceva già da tempo il limite che ci avevano comunicato i medici con una malattia come la sua: massimo 32 anni. Perciò ci diceva: ‘Sono ormai vecchio!’, e lo diceva così, ridendo, sai com’era”.

Ecco, Piergiorgio - oltre a essere l’intellettuale che era e il cui valore tutti gli riconosciamo, anche soltanto dopo avere letto i suoi ultimi articoli, nei quali acutamente rifletteva su quanto sta accadendo qua e là nel mondo - era pure ironico. Era andato a scuola da Paolo De Benedetti, del quale ha scritto forse la biografia più bella e completa, e dal quale imparò a conoscere, oltre che il Dio della Bibbia, anche quell’ironia tutta ebraica che vi si respira per affrontare con coraggio il male che ogni volta ci piomba inesorabilmente addosso; per resistere e mantenersi ancorati alla bellezza e alla bontà della vita che ci è donata. A me ha commosso la dedica che ha scritto all’inizio di quella biografia, che ha per titolo Dio sulle labbra dell’uomo e che è uscita nel 2006: “Ai miei tre nipotini, affinché crescendo abbiano il desiderio di studiare e interpretare la Bibbia”.

E da Paolo, anch’egli ora in attesa tra i morti, sia io che Piergiorgio avevamo imparato almeno due cose. La prima: riuscire a dire spesso “non so”, restando cioè dalla parte della domanda, essendo la stessa fede “domanda incessante”. La seconda: il Dio della Bibbia è un Dio che soffre e che ha bisogno di noi (se così si può dire) quanto noi di lui.

Ecco, credo che pensieri come questi, assorbiti fin dai suoi anni di scuola (era riuscito a ottenere due lauree), l’abbiano molto aiutato nel suo percorso di malattia e dolore.  Percorso che racconta in un altro suo straordinario libro: Guarigione, un disabile in codice rosso, uscito nel 2015. Pagine in cui ha voluto non solo raccontare di sé ma soprattutto, come mi ha scritto in dedica regalandomene una copia: per riflettere sul mistero “della vita e della morte”.

È libro in cui troviamo il suo grido e il suo pianto, le sue ferite aperte, l’amore dei suoi genitori e tante altre cose. Ma in modo del tutto singolare troviamo la sua fede cristiana, il suo andare decisamente e con profondità di pensiero al nocciolo delle questioni, con domande fuori dal comune, a Dio e a se stesso, dettate da gratitudine e grande esigenza insieme. Leggiamone alcuni brani: “Sono credente e penso che Dio possa fare miracoli, ma non per me. Chiedo la forza di accettare il limite e di compiere ciò per cui sono stato, senza volerlo, chiamato una volta all’esistenza. La mia vita continua, non so per quanto. Alcuni hanno pregato, proprio nei minuti decisivi, proprio per la mia salvezza. Dio li ha ascoltati. Ma perché non ascolta il grido delle moltitudini di agonizzanti che ogni giorno lasciano questo mondo?”.

E ancora: “Non credo che con la morte sia finito tutto. Credo invece che al di là delle tenebre mi accoglierà la perenne luce di Dio. Il paradossale annuncio della fede dice che dopo la morte continueremo a vivere ricordando il passato, capendolo fino in fondo, rivivendolo, senza dolore, nella sua pienezza. E proseguiremo in un modo che ora è arduo immaginare, una vita intessuta di relazioni con i nostri cari, con la natura rinnovata, con Gesù Cristo e quindi con Dio. Questa è la speranza cristiana.

Una speranza concreta che riguarda la materialità del nostro corpo. Per questo l’annuncio cristiano prevede che, in un modo misterioso ma reale, la nostra corporeità, destinata inevitabilmente a farsi di nuovo polvere, ritorni in vita. Senza corpo la salvezza non potrà mai essere completa”.

Sapendo che a dirlo era uno che sognava anche soltanto di provare per un attimo la semplice gioia di correre in un prato respirando aria a pieni polmoni, come tutti noi possiamo fare quando e come vogliamo senza problemi, ci è dato comprendere quanto la fede e l’invocazione fossero già vive nel bisogno stesso del suo corpo, un bisogno di cui il Signore certamente terrà conto.

 

Ma c’è un altro suo libro nel quale riesce ad esprimere ancor più compiutamente la sua fede, Cara Valeria, uscito nel 2008: una serie di lettere in cui cerca di raccontare i suoi pensieri a una sua amica. Ma sono lettere in fondo adatte a tutti coloro che sono in ricerca, agli assetati di verità, a coloro che sono disposti a mettersi in discussione pur di giungere a verità. E Piergiorgio testimonia che nella sua vita soltanto attraverso la fede gli è stato possibile avvicinarsi a verità. A quella verità tuttavia crocifissa nel mondo così com’è stato crocifisso il Signore, che pure è “verità e vita”.

Piergiorgio aveva un cuore capace di sperare e credere in grande, senza quel timore di parlare di Dio, dei bisogni di Dio, come pare invece accadere a diversi teologi oggi. Ho ritrovato, in mezzo alle pagine di quel libro, un ritaglio del quotidiano Repubblica in cui Pietro Citati scriveva allora parole molto adatte anche per i nostri giorni: “Negli scritti religiosi del nostro tempo, non c’è quasi traccia di Dio: si chiacchiera, si parla d’altro, si divaga, si polemizza, si discute di politica e di sociologia, si costruiscono mediocri teologie”. Teologie, aggiungo io, nelle quali oltre che Dio a scomparire sono anche i contenuti fondamentali della fede che ci è stata fin qui trasmessa.

Sperare in ciò che è possibile, credere in ciò che è evidente, è facile, come sperare che domani ci sia il sole o credere che la squadra del cuore possa vincere il campionato. Diverso è invece credere l’impossibile possibile a Dio soltanto. Ecco perché dico che Piergiorgio credeva e sperava in grande, ostinandosi a credere, come ci insegna la Chiesa, non soltanto in un solo Dio e un solo Signore, ma anche nella “risurrezione dei morti” e nella “vita del mondo che verrà”.

Fede non è religione, scriveva Piergiorgio a Valeria. “La religione garantisce alla fede di durare nel tempo e le permette di essere trasmessa di generazione in generazione. Essa è quindi indispensabile alla fede, come l’ossigeno lo è per respirare. Ma se l’ossigeno nell’aria superasse la bassa percentuale che consente la vita, brucerebbe i nostri polmoni”. Un esempio cristallino, che tutti possiamo capire.

Piergiorgio è stato buono perché si sentiva vicino al dolore di Dio e degli uomini, accogliendolo come il proprio dolore. Questa, non altro è la compassione di cui parla il Vangelo, la compassione che ci fa soffrire con chi soffre, come ci insegna la parabola del “buon samaritano”, che ci fa essere misericordiosi come il Padre nostro celeste lo è. 

Più che per i propri mali, Piergiorgio sentiva infatti di soffrire per il dolore del mondo. “A volte – scriveva ancora in questo libro – sento dentro di me la sofferenza del mondo con tutto il suo soverchiante peso. A volte sono travolto dalla sua forza distruttrice. Non credo che questo derivi dalle mie difficoltà fisiche. Sono stato molto fortunato a essere nato in una famiglia accogliente, ad avere conosciuto molti amici, ad avere raggiunto nella mia vita molti obiettivi e soddisfazioni. Non mi dolgo per le mie condizioni di salute. Ma quando vedo persone che non hanno nulla, che vengono uccise quasi per gioco, che sono vittime della violenza e della guerra, che sono state inghiottite dalla morte senza avere vissuto e aver dato al mondo quanto avrebbero potuto dare, qualcosa mi brucia dentro. Inesorabilmente!”.

Piergiorgio era buono perché conosceva non soltanto cos’è il dolore degli altri, condividendolo, ma anche la gioia degli altri, accogliendola, con semplicità, come la propria gioia. Quando il suo pensiero andava alla gioia di Valeria che stava per diventare la sposa del suo amico Nicola, ecco cosa le scriveva: “Talvolta è difficile gioire della felicità delle altre persone, soprattutto quando siamo consapevoli di non avere la possibilità di sperimentare un giorno la stessa gioia”. E ancora: “Un amico è capace di rallegrarsi di cuore per la gioia altrui”.

 

Straordinarie sono poi le pagine in cui Piergiorgio racconta la vitalità in casa dei suoi tre nipotini, quando ricorda sua nonna Tullia, maestra elementare in Trentino durante gli anni della guerra. E poi la sua infanzia in montagna, nel piccolo paese della Val di Non in cui trascorreva le vacanze estive, le osservazioni notturne del cielo che lo aprivano alle prime domande su Dio e sulla fede, mentre il venire meno delle sue capacità motorie, proprio all’affacciarsi dell’età della ragione, lo conducevano sempre più all’atteggiamento contemplativo, pensoso.

Piergiorgio, lettore della Bibbia, sapeva bene come non fosse stato Dio a creare la morte, quella morte che san Paolo chiama “L’ultimo nemico”, il più duro, quello che soltanto nell’ultimo giorno riuscirà a vincere.

E sapeva pure come per troppi cristiani non fosse così. Secoli di insegnamenti che tutto hanno puntato sull’immortalità dell’anima, dimenticando la speranza nella risurrezione del corpo, hanno indotto a credere – scriveva ancora alla sua amica - che “quando si muore si va in cielo. E basta. Storia conclusa, mèta raggiunta. Dopo la morte non si attende più nulla, ogni cosa è compiuta. E così abbiamo scambiato l’idea di salvezza con l’idea di un vago benessere. Ascoltando il parlare superficiale e diffuso della gente, parole come ‘inferno’, ‘paradiso’, ‘apocalisse’ vengono applicate alle situazioni più banali. L’inferno può essere il traffico, il caldo, mentre il paradiso sono le vacanze o bere una tazzina di caffè”.

E poi, come abbiamo già avuto modo di dire, Piergiorgio non percepiva Dio lassù tranquillo nel suo cielo perché tanto tutto sa e tutto può. No, “Dio ha conosciuto la fragilità e la morte - diceva – e da allora le nostre preghiere diventano quasi le sue preghiere. In questo mondo anche lui ha bisogno di noi. Con la continua invocazione anticipiamo l’adempimento dei suoi progetti. Lo aiutiamo a ricordarsi delle sue promesse”. Ma insieme alla condivisione delle pene con Dio e le sue creature, egli parlava anche della “capacità di cogliere la nostra esistenza e la bellezza della creazione come un rendimento di grazie, come una lode a Dio… Ogni attimo della nostra esistenza può essere benedetto… Dobbiamo ringraziare Dio per il solo fatto di essere vivi… I nostri giorni – concludeva in quelle pagine - ci possono riservare grandi sofferenze, delusioni, vuoti e amarezze. Anche allora possiamo percepire di essere parte di qualcosa di più grande. Non siamo stati chiamati all’esistenza per morire dopo molti o pochi anni: il nostro destino è la vita”.

Parole che non possiamo né dobbiamo dimenticare e che sono una cosa sola con la speranza che palpitava nel cuore e nel corpo sofferenti di  Piergiorgio.

 

Daniele Garota

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