Koinonia Novembre 2020


ASCOLTANDO L’ULTIMO DISCORSO

 DELLA SENATRICE LILIANA SEGRE

 

Il 9 ottobre u. s. la Senatrice a vita Liliana Segre ha pronunciato il suo “ultimo” (così da lei annunciato) discorso. Lo ha fatto nella Cittadella della pace denominata “Rondine” (Arezzo) di fronte ad una platea nella quale sedevano, in prima fila, le massime autorità dello Stato e, dietro a loro, un pubblico di giovani.

La Senatrice, novantenne, ha parlato per circa un’ora e trenta senza mai un cedimento della voce, una lacrima, un’incertezza. La sua straordinaria bravura oratoria (calcolato il crescendo della gravità delle notizie, dosate le pause, messi in evidenza particolari in apparenza irrilevanti, ma mirati a turbare un pubblico prevalentemente giovanile) dava quasi l’impressione di trovarsi di fronte ad un’attrice che stava recitando. 

Andando avanti nel lungo racconto delle terribili prove subìte ci si rendeva conto del perché di quella sensazione di distacco da sé medesima che essa dava.

Il filo rosso di tutto il discorso è stato, infatti, impostato sull’evoluzione subita dalla sua personalità. Spesso ha usato l’espressione “l’altra”, a significare che gli eventi avevano provocato in lei delle cesure insanabili tali da non consentire ricuciture: la Liliana normalissima scolaretta di terza elementare “morì” il giorno in cui le fu annunciato che era stata espulsa dalla scuola senza nessuna motivazione comprensibile. Al suo posto nacque una bambina spaventata e in fuga, aggrappata alla mano del padre (la mamma era morta quando lei aveva un anno).

Questa bambina “morì” il giorno in cui fu costretta a lasciare la mano del padre che non rivide più. Al suo posto nacque una ragazza che si rese ben presto conto di doversi difendere dai terribili soprusi, dalla fatica (fu messa ai lavori forzati), dal terrore, creando intorno a se stessa una corazza di insensibilità. Corazza che non fu decisa intenzionalmente, ma si formò nella sua psiche spontaneamente come indispensabile difesa.

Un’altra frattura avvenne quando fu separata da una giovane donna alla quale si era inconsapevolmente affezionata. Si trattava di un’altra detenuta, gentile, garbata, che lavorava nella sua stessa fabbrica, la quale incorse in un incidente di lavoro che le recise le falangi di due dita. Il giorno successivo erano in fila per la consueta umiliante visita di controllo, Liliana avanti Janine dietro, quando Liliana sentì la voce del Kapò che dichiarava Janine non più idonea a lavorare e quindi destinata ai forni. Liliana non si voltò a guardare l’amica, non le disse addio. Questa fu l’ennesima morte di quella che, forse, era l’ultima fiammella di umanità che era sopravvissuta in lei: la capacità di affezionarsi.

“I nazi volevano che noi diventassimo come loro avevano deciso”, ha ribadito più volte, “e ci riuscivano”. 

L’ultima, inimmaginabile prova fu la marcia della morte, compiuta per circa quattro mesi, in direzione Nord, quando i Nazisti, consapevoli di avere perso la guerra, aprirono i campi e costrinsero i superstiti a fuggire per non lasciare tracce troppo compromettenti del loro operato.

Possiamo immaginare questo popolo in fuga, in un inverno del nord Europa, non sufficientemente coperti, senza scarpe, senza cibo, stremati dalla fatica. Quando qualcuno cadeva sfinito, un colpo di pistola accelerava il decesso. Il degrado fisico e morale fu tale che si buttavano a mangiare la carne cruda di un cavallo morto o le foglie di un albero.  Non erano più neanche riconoscibili, ridotti a larve umane.

Forte della sua giovane età, della sua salute di ferro e della sua incrollabile volontà di vivere, anche questa larva morì, e, accolta da parenti, recuperò un aspetto normale, ma non tutti i “pezzi» di se stessa che erano andati perduti.

Era molto difficile per i miei parenti convivere con un animale ferito come ero io (dice in una delle innumerevoli interviste rilasciate): una ragazzina reduce dall’inferno (il primo maggio del 1945, quando fu liberata, Liliana aveva quindici anni, complessivamente la sua detenzione era durata un anno e quattro mesi) dalla quale si pretendeva docilità e rassegnazione. Nessuno mi capiva, ero io che dovevo adeguarmi ad un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati, che voleva ricominciare, avido di divertimenti e spensieratezza”.

Docilità, rassegnazione, spensieratezza non potevano più far parte della nuova persona che doveva affrontare il “dopo”, cioè la rinascita definitiva che non solo era diventata possibile, ma che sembrava obbligatoria. Esteriormente sembrerebbe che questa rinascita sia avvenuta: si è sposata, ha avuto tre figli, dopo trent’anni di silenzio è riuscita anche a raccontare, ha avuto grandissimi riconoscimenti (Senatrice a vita, Medaglia d’oro al merito della Croce rossa,  Gran croce al merito della Germania, Cavaliere dell’Ordine della Legion d’onore…)

Ha anche avuto iniziative coraggiose come l’istituzione di una Commissione parlamentare per il controllo dei fenomeni d’intolleranza (approvata nonostante l’astensione di tutta la destra compatta). Si è più volte esposta personalmente contro i provvedimenti che chiudevano le frontiere agli extracomunitari   ricavandone migliaia di insulti e minacce, tanto che si rese necessaria una scorta.

È riuscita a diventare la “donna di pace e di amore” che si dichiara il giorno in cui decide di ritirarsi a vita privata, ma la sensazione che chi l’ha vista e udita ne trae è che quei “pezzi” della Liliana Segre morti (la spensieratezza, la capacità di provare una vera amicizia, la speranza) non siano rinate mai. Sembra che la donna straordinaria che ha pronunciato il suo discorso d’addio sia il frutto di una decisione presa a livello razionale, di un proposito che nasce soltanto dalla sua mente. 

Questa sensazione da me provata, lungi dall’essere un rimprovero, vuole essere un elogio. Riuscire ad imprimere alla propria vita un indirizzo che non è frutto dei condizionamenti esterni, ma dalla propria decisione è sempre difficile. Far rinascere una pianta alla quale sono state recise le radici non è cosa da poco.

Brava, brava con tutto il cuore, Liliana Segre, il tuo discorso andrebbe diffuso di più.

 

 Anna Marina Storoni Piazza

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