Koinonia Novembre 2020


UN PASSAGGIO DELL’ULTIMO DISCORSO DI LILIANA SEGRE

 

Nel mio racconto c’è la pena, la pietà per quella ragazzina che ero io e che adesso sono, la nonna di quella ragazzina. So che è difficile vedendo una donna di 90 anni pensare che quella era una ragazzina. Un giorno del settembre del 1938 sono diventata “l’altra” e da allora c’è tutto un mondo intorno che ti considera diversa. E questa cosa è durata sempre, io sono sempre “l’altra”. So che le mie amiche, quando parlano di me, dicono sempre “la mia amica ebrea”. Quando sono diventatal’altra a 8 anni, ero a tavola con i miei familiari, e mi dissero che non potevo più andare a scuola.

Chiesi perché e ricordo gli sguardi di quelli che mi amavano e mi dovevano dire che ero stata espulsa perché ero ebrea. Una delle cose più crudeli delle leggi razziali fu far sentire dei bambini invisibili. Molti miei compagni non si accorsero che il mio banco era vuoto... e per anni non mi chiesero niente. Sono stata clandestina e so cosa vuol dire essere respinti. Si può essere respinti in tanti modi.

Di fronte alla morte non servono tante parole, perché sono inutili. Quando si sente vicina la morte, c’è solo il silenzio, il silenzio solenne, il silenzio indimenticabile. In quel momento valeva solo la propria interiorità. Quello era il momento della vita e della morte.

Auschwitz? Quando poi studiai Dante, anni dopo, mi resi conto che eravamo delle dannate condannate a delle pene. Entrando lì pensai di essere impazzita. Era un luogo pensato a tavolino da persone stimate nel loro mondo, un luogo che avevano organizzato per “l’altro”, una realtà che funzionava da anni perfettamente. Noi dovevamo dimenticare il nostro nome, che non interessava a nessuno. Da quel momento eravamo un numero che mi venne tatuato sul braccio: il mio era 75.190.

Un numero che dovevamo imparare in tedesco. I bulli presi da soli hanno paura. Quelli che ho incontrato io si sentivano forti e invincibili, giovani nazisti ariani. Non erano della razza umana. Mi chiedono se ho perdonato e rispondo di no. Non ho mai perdonato, non ci riesco.

Quando si toglie l’umanità alle persone bisogna astrarsi e togliersi da lì col pensiero se si vuole vivere. Scegliere sempre la vita. Io sono viva per caso. Perché tutte noi sceglievamo la vita anche a Auschwitz. Furono pochissime quelle che tra di noi in quell’inferno si suicidarono attaccandosi al filo spinato. Tutte noi sognavamo la vita, la vita fuori dal lager. Sognavamo i bambini che giocavano, i prati verdi, un gattino da accarezzare... Per scegliere la vita dovevamo diventare delle nomadi vaganti.

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