Koinonia Novembre 2020


EUCARISTIA E POVERI (I) *

 

Lasciarsi fare dall’eucaristia

La Parola resta fondamentale. Il Vangelo accolto è l’atto costitutivo di ogni comunità cristiana. È dalla parola di Dio che viene convocata la chiesa. Non lo si può dimenticare mai: tantomeno quando si parla dell’eucaristia e si dice, giustamente, che essa sta «al centro della vita della chiesa». Infatti quando il Concilio afferma che l’eucaristia è «fonte e culmine di tutta la vita cristiana» (LG 11) o «fonte della vita della chiesa» (UR 15) o «fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione» (PO 5), intende riprendere l’ispirazione fondamentale del testo generatore di tutti questi ora citati. Il testo fondamentale dice: «La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (SC 10). É tutta la liturgia, cioé l’eucaristia, la celebrazione dei sacramenti, la parola di Dio letta nelle Scritture (cf. SC 7), ad essere culmine e fonte della vita ecclesiale: la liturgia intesa come parola e sacramento, indissolubilmente uniti. E la nota del Concilio che precisa come «la sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della chiesa» è di grande interesse per le nostre comunità. Si dice infatti: «Prima che gli uomini possano accostarsi alla Liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e si convertano» (SC 9). Senza la fede, nata dall’ascolto della Parola, non ci può essere «sacramento della fede».

Nell’eucaristia la comunità cristiana raccoglie i frutti del suo aver seminato la Parola e del suo essere terreno buono. Non basta mangiare la sua carne e bere il suo sangue per avere la vita eterna (cf. Gv 6, 54): occorre anche ascoltare la sua parola e credere a colui che lo ha mandato per avere la stessa vita eterna (cf. Gv 5, 24). E l’assimilazione della Parola è garanzia dell’assimilazione del Pane.

Così la Parola si rivela doppiamente decisiva per comprendere e vivere pienamente l’eucaristia: nel momento iniziale dell’accoglienza di fede e nel momento della celebrazione. Il Verbo che si fa carne e si comunica a noi è il Verbo che si rivela nella Parola.

Se la Parola non è stata annunciata ai poveri, se non ha resi poveri i suoi ascoltatori, se non ha convocato in comunità i poveri, l’eucaristia patirà questi vuoti. Non serviranno a colmarli astuti accorgimenti rituali.

E occorre dire subito che sul rapporto tra eucaristia e poveri non ci sono molte indicazioni pratiche da dare, quasi si potesse risolvere con espedienti pastorali. In questi anni abbiamo tutti assistito a molti aggiustamenti esteriori dell’esperienza liturgica. Nascevano dalla volontà di superare gli evidenti limiti con i quali la comunità cristiana viveva la sua liturgia. Ma troppo spesso hanno preso sentieri che non conducevano in nessuna parte. Anche la riforma liturgica ha deluso, lì dove è stata applicata solo come ammodernamento, culturale. Anche molti tentativi di fare eucaristie più vicine ai poveri sono tristemente finiti in incontri di ambigua coscientizzazione per i poveri, gestiti, in genere, da cristiani di matrice borghese. Come del resto han continuato a suonare stonato molte, pur moderne, coreografie liturgiche.

Il problema, crediamo, sta altrove. L’eucaristia, come la persona di Gesù e la sua Parola, va accolta, non aggredita. Va ricevuta, non dominata. Va contemplata, non catturata. E dicendo contemplazione non intendiamo affatto passività, intellettualismo o fuga dalla storia. Al contrario, si vuole sottolineare l’inserimento in quel supremo dinamismo storico che è stata la vita di Gesù di Nazaret ed è oggi il cammino di Dio in compagnia con gli uomini. Il tutto, naturalmente, dentro lo spazio della fede, della Parola accolta.

A noi sembra essenziale questa prospettiva, anche per trovare il giusto posto dei poveri nella comunità cristiana. Si tratta, in fondo, d’accettare il magistero silenzioso dell’eucaristia o, meglio, di lasciarsi fare, come comunità cristiana, dall’eucaristia: da quella che spesso oggi è chiamata la sua «forza plasmatrice». Questa obbedienza e questa docilità, la stessa da riservare alla Parola, ci porteranno limpidamente ai poveri. Le conseguenze concrete, sul piano della celebrazione come sul piano della vita comunitaria, si vedranno subito. Ma potranno essere molto diverse a seconda delle situazioni e anche mutevoli a seconda dei tempi. Diversità e provvisorietà non sconcerteranno una comunità cristiana che ha colto l’essenziale del mistero dell’eucaristia: anzi, sarà questa comunità ad essere più libera e inventiva negli eventuali adattamenti culturali.

Vorremmo dare alle nostre considerazioni un punto di riferimento autorevole e poco conosciuto, illuminante anche per la comprensione e l’esplicitazione di alcuni testi conciliari. Si tratta di un intervento del Card. Giacomo Lercaro al Concilio Vaticano II. Quando fu pronunciato, il 6 dicembre 1962, ebbe grande risonanza ecclesiale1. Riguarda il mistero di Cristo nella chiesa e nei poveri. L’affermazione centrale sembra essere questa: «Il mistero di Cristo nella Chiesa fu sempre ed è, ma oggi soprattutto è, il mistero del Cristo nei poveri; poiché la Chiesa, come dice il Santo Padre Giovanni XXIII, è sì la Chiesa di tutti, ma è soprattutto `la chiesa dei Poveri». Nel mistero di Cristo infatti c’è un «aspetto essenziale e primario», quello della sua presenza nei poveri. E il Cardinale chiede che sia posto «come retroterra e anima del lavoro dottrinale e legislativo di questo Concilio, il mistero del Cristo nei poveri e l’evangelizzazione dei poveri». Suggerendo poi alcuni temi dottrinali da approfondire, propone che «sia posta in luce la connessione ontologica tra la presenza del Cristo nei poveri e le due altre più profonde realtà del mistero del Cristo nella Chiesa, cioè: la presenza di Cristo nell’azione eucaristica per mezzo della quale la Chiesa si unifica e si costituisce, e la presenza di Cristo nella sacra gerarchia che istruisce e regge la Chiesa». È un compito importante che i teologi dovrebbero assumere oggi. Noi vorremmo sviluppare qualche riflessione che aiuti le nostre comunità a stabilire il giusto rapporto tra eucaristia e poveri.

 

1 Intervento del Card. Giacomo Lercaro nella XXXV Congregazione generale del Concilio Vaticano II, il 6 dicembre 1962, in Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, vol. III, periodus I, pars IV, Vaticanis 1971, pp. 327-330.

 

Da dove viene l’eucaristia

Una domanda elementare deve sempre starci davanti: da dove viene l’eucaristia? È facile che il rito con la sua struttura codificata oscuri la sua stessa origine. All’origine di ogni eucaristia sta la vita intera di Gesù di Nazaret. Non bisogna troppo rapidamente ridurre l’eucaristia a «memoriale della morte e risurrezione di Gesù ». Oppure questa formulazione, che pure sembra preferita dal Concilio, va ben compresa nel suo senso pieno. Infatti l’eucaristia non è solo «sacramento pasquale», ma in realtà essa è il sacramento di tutta la vita di Gesù, nella sua profonda unità che rende pienamente ragione al suo atto ultimo, che è la passione-resurrezione. Ora, la vita intera di Gesù testimonia della sua povertà e della sua predilezione per i poveri. E le preghiere eucaristiche, in forme diverse, fanno memoria di tutta la vita di Gesù, spesso ricordando la sua povertà e la sua vicinanza ai poveri. Infatti tutta la sua vita fu segnata, fin dall’infanzia, dal mistero della logica della morte e risurrezione, come chiaramente mostrano i primi due capitoli sia del Vangelo di Matteo, come del Vangelo di Luca. Tralasciando i molteplici vantaggi che quest’impostazione teologicamente corretta porta alla comprensione del mistero dell’eucaristia, rileviamo come essa permetta ai credenti di penetrare e di vivere più profondamente quella dimensione del mistero di Cristo che è la sua presenza tra i poveri.

Nel quadro di questa vita «che Dio ha consacrato in Spirito Santo e potenza», durante la quale «egli è passato beneficando e risanando», scegliendo come luogo anche fisico del suo vivere pubblico lo stare con i poveri, c’è la morte (At 10, 38 ss). Bisogna quindi dire che all’origine di ogni eucaristia c’è la morte di Gesù. Ed è una morte di croce: l’orribile morte di un povero tra poveri. Nel segno del pane e del vino c’è «il corpo dato e il sangue versato» che, portando nelle comunità cristiane l’intera vita di Gesù, ne mettono in rilievo la morte. «Il nostro Salvatore nell’ultima cena, la notte in cui fu tradito, istituì il Sacrificio Eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue onde perpetuare nei secoli fino al suo ritorno il Sacrificio della Croce e affidare così alla diletta sposa, la Chiesa, il memoriale della sua morte e della sua resurrezione» (SC 47).

La riflessione teologica ha sviluppato prevalentemente il tema della salvezza che il sacrificio eucaristico riattualizza per noi, ma che ha all’origine la Croce con la sua vicenda d’offerta interiore, della vita di Gesù e con la sua concreta vicenda storica di tortura e di crocifissione. È anche per questo che la tradizione della chiesa chiede che in ogni celebrazione eucaristica ci sia una croce, a ricordo anche visivo della forma particolare di morte che fu quella di Gesù. I discepoli del Crocifisso non possono consapevolmente parlare di croce e vedere una croce, senza misurarsi severamente con Lui che è morto povero e torturato («l’ignominia della croce»), vittima della violenza e dell’ingiustizia, solidale coi poveri e gli oppressi fino al punto di farsi povero e oppresso e da identificarsi, misteriosamente, con loro. E così il lasciarsi plasmare dall’eucaristia è anche un lasciarsi attirare dalla persona del Crocifisso e in lui e attraverso di lui vedere tutti i crocifissi e i poveri della terra.

Ma colui che «attira tutti a sé» è colui che è stato «elevato da terra» (Gv 12, 32). Come è noto, Giovanni allude all’elevazione di Gesù sulla croce e insieme alla sua elevazione al cielo il giorno della risurrezione. Quest’unico mistero ci viene ripresentato in ogni eucaristia. Non solo il Crocifisso dunque, anche il Risorto. La potenza del Padre ha risuscitato il Crocifisso, ha vinto la morte, in lui e nel mondo. Lasciarsi attirare nel dinamismo della vita abbondante e piena che il Risorto comunica nell’eucaristia, significa entrare nella vita del Figlio e anche nella sua azione per far arretrare tutte le forme di morte, povertà compresa. Significa ricevere lo Spirito del Risorto che grida in noi ‘Abbà’ e «opera nel cuore degli uomini, ispirando, purificando e fortificando quei generosi propositi con i quali la famiglia umana cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra» (GS 38).

Questa trasformazione del mondo, che il Concilio vede come «la materia per il regno dei cieli», è anche vittoria sulla povertà. Ed è in relazione con l’eucaristia. Essa infatti è «il sacramento della fede nel quale degli elementi naturali coltivati dall’uomo vengono tramutati nel Corpo e nel Sangue glorioso, in un banchetto di comunione fraterna che è pregustazione del convito del cielo» ed è «pegno di speranza» e «viatico per il cammino» verso il momento in cui «l’umanità stessa diventerà oblazione accetta a Dio» (GS 38). Questa trasfigurazione finale della famiglia umana giungerà passando anche attraverso un pane «frutto della terra e del lavoro dell’uomo», ma di una terra goduta anche dai poveri e di un lavoro reso umano anche per i poveri. E dovrà essere un pane per tutti, anche per i poveri. L’eucaristia è pegno di questa speranza e viatico per questo cammino.

Il memoriale della morte e della risurrezione di Gesù spinge ad un’altra riflessione. Chi risorge e diventa il primogenito di molti fratelli, di tutti gli uomini liberati dalla morte, è il Crocifisso. È risorto colui che è passato attraverso la morte, ma non attraverso una morte qualunque: «Essi lo uccisero appendendolo ad una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno» (At 10, 39-40). E il Risorto porterà nel suo corpo glorioso i segni della crocifissione. Come non vedere in questo mistero, che l’eucaristia ripresenta sacramentalmente, la misteriosa coesistenza, già annunciata da Gesù, di una povertà necessaria e inaccettabile, da scegliere per sé e da respingere per i fratelli, da accogliere e da eliminare? Come non vedere adombrata la conciliazione tra lo scandalo e la beatitudine della povertà? Come non vedere che i crocifissi possono essere, con la forza del Crocifisso e Risorto, portatori della vita nuova per i loro fratelli? Come non vedere i poveri, uniti al Povero e Signore, diventare anch’essi, con Lui, «primogeniti di molti fratelli», depositari della fraternità universale?

È nella linea di un approfondimento di fede che ci siamo mossi, suggerendo queste riflessioni. Bisognerà capire in profondità che l’eucaristia, prima di essere un impegno esigente per noi, è un dono sovrabbondante. Prima di essere una norma, è un dono da accogliere, credendoci. Anche sul rapporto tra eucaristia e ultimi può nascere una serie di equivoci: non solo quello di affidare la soluzione a esteriori accorgimenti liturgici, ma soprattutto quello di ridurre il tutto ad un memoriale etico, capace eventualmente di sollecitare un impegno morale o politico-sociale di breve respiro. Questa strada infatti diventa rapidamente un percorso moralistico, che propone alti ideali di solidarietà coi poveri, raggiungibili a prezzo di grandi sforzi di volontà, sostenuti dall’esempio di Gesù povero e solidale coi poveri. Ma l’eucaristia può diventare norma morale dopo essere stata accolta come potenza di Dio per chiunque crede, anche se debole e peccatore. Solo un soprassalto di fede potrà rendere vive le nostre eucaristie e farle veramente centro di comunità cristiane che da esse prendono «forma, criterio e stile di vita». Certamente, come vedremo, l’eucaristia è una scuola per i discepoli di Gesù, ma, prima, è la vita stessa di questi discepoli. Anche per questo abbiamo insistito sulla necessità assoluta di ascoltare la Parola, di accogliere il Vangelo, di sentire il racconto della vita di Gesù, di averne sempre presenti i fatti e le parole per poter aprire quello spazio di fede, che, unico, permette di entrare nel mistero dell’eucaristia e della sua connessione profonda, a livello di essere («ontologica», diceva il Card. Lercaro), con i poveri. Ricordiamo che i vescovi italiani hanno offerto alle comunità cristiane un ottimo documento: «Eucaristia comunione e comunità» (22.5.1983), dove la riflessione di fede esplicita, di volta in volta, il rapporto tra eucaristia e poveri. Può diventare, se ben usato, un efficace strumento di lavoro.

Prima di specificare alcuni atteggiamenti concreti che le comunità cristiane dovrebbero coltivare, occorre denunciare un rischio molto diffuso nelle nostre parrocchie. Siccome il momento della messa domenicale è ormai per la maggioranza dei cristiani l’unico momento d’incontro, si è tentati di sovraccaricare l’eucaristia di richieste, aspettative, impegni. Per esempio: non può certo essere l’eucaristia il luogo e il momento in cui vengono affrontati con sufficiente rigore i problemi dei poveri e degli emarginati. Non è giusto, né efficace, ridurre la messa a un gruppo di studio o di lavoro. Se invece l’eucaristia, come dovrebbe, suscita la volontà sincera e decisa di affrontare questo problema, allora la comunità si vedrà costretta, proprio per celebrare coerentemente l’eucaristia, a trovare altri luoghi d’incontro, di ricerca e di decisione. In realtà le eucaristie non si improvvisano. Se manca il retroterra dell’impegno effettivo per la giustizia e la solidarietà con gli ultimi, inevitabilmente le messe saranno sovraccariche di emotività o di spiritualismo o di indicazioni operative. L’impegno coi poveri riveste sempre una dimensione strettamente personale e sociale e politica, che tecnicamente non può aspettarsi nulla dall’eucaristia. Essa invece potrà offrire a questo impegno il largo orizzonte del Regno, la radicazione nella vita di Gesù, la forza di perseveranza, il coraggio di radicalità e gratuità, la speranza contro ogni delusione. Ma non potrà essere l’eucaristia il luogo d’elaborazione del servizio ai poveri, esigente e complesso.

 

Poveri vicini e lontani

Si usa di frequente l’espressione “le nostre eucaristie”. Dietro a quel “nostre” c’è un richiamo, in positivo e in negativo, a due dimensioni costitutive di ogni eucaristia che aiutano i cristiani a `individuare’ i poveri verso i quali la stessa eucaristia li indirizza.

Innanzi tutto, non esiste in astratto l’eucaristia: a pensarci bene esistono di fatto le eucaristie. Non si tratta infatti di un’idea, ma di una realtà sempre calata nella storia, sempre avvenendo in un tempo e in uno spazio ben determinati, con protagonisti ben precisi. Anche il rito sottolinea la storicità di ogni eucaristia, con i suoi ripetuti richiami all’oggi, con i nomi del Papa e del Vescovo della chiesa locale. È una dimensione da riscoprire, anche a livello parrocchiale. È vero che ogni messa apre la comunità alla grande prospettiva universale, perché riguarda sempre tutti gli uomini «da un confine all’altro della terra», e apre sull’orizzonte dell’eternità, perché è sempre «in attesa della sua venuta». Ma c’è anche la dimensione locale-territoriale e storica di ogni eucaristia: infatti la vita di Gesù, con la sua morte e risurrezione, viene portata dall’eucaristia a toccare e trasformare la nostra vita, qui e oggi. In questo senso è legittimo parlare di “nostre” eucaristie. Se non lo fossero, sarebbero un esercizio verbale. E così quando la nostra fede, penetrando il mistero del Signore. che si dona, ci porterà a prendere una posizione evangelica di fronte ai poveri, si dovrà trattare necessariamente delle persone che qui, ora, in questo territorio e in questo tempo, patiscono povertà ed emarginazione. Conoscere queste persone e le loro situazioni, sostenere la fatica d’informare ed essere informati, cercar di capire e risalire alle cause, sarà, alla fine, anche un modo per essere fedeli all’eucaristia e al suo radicamento nel tessuto quotidiano della nostra vita.

Ma dicendo “nostre” eucaristie, si allude involontariamente anche ad un limite che noi, inevitabilmente, introduciamo nell’eucaristia. Infatti spesso le eucaristie diventano “nostre” perché evidenziano le nostre pigrizie rituali, le nostre debolezze di fede e di carità, le nostre mortificazioni dell’universalità. In una parola: i nostri peccati. Un’eucaristia che fosse troppo “nostra” sarebbe di un gruppo e non di tutti, sarebbe per noi e non missionaria. Ogni eucaristia, locale e storica, tende anche a superare questi confini e ad essere universale. In questo senso allora non sarebbe legittimo parlare di “nostre” eucaristie. E così, quando mettiamo in relazione l’eucaristia con i poveri, dovremmo accogliere anche la responsabilità di tutti i poveri della terra. «Il pane che ci viene donato, se considerato in stretto rapporto allà passione-morte di Gesù, rimanda alla situazione esistenziale di tanti fratelli e sorelle che portano nella loro carne i segni della violenza e anelano alla piena libertà dei figli di Dio» (ECC 112).

L’eucaristia, con la sua dimensione locale ed universale, indica allora la necessità per i discepoli di Gesù di farsi carico dei poveri vicini e di quelli lontani e, soprattutto, dà forza per sostenere questo duplice e difficile compito.

 

Franco Marton

(1.continua)

 

*Comunione  e comunità a partire dai poveri, EMI, 1984,pp.91-98

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