Koinonia Novembre 2020


IL POTERE DEL MONDO E I SUOI INGANNI (III)

 

Parte terza: Chiesa e Anticristo

 

È necessario, da credenti, cogliere i significati più nascosti, anche e soprattutto dietro a ciò che avviene durante questi nostri giorni. Fino a cogliere il rapporto della nostra fede col potere del mondo oggi, e coglierlo dall’interno della nostra Chiesa e del nostro sentirci parte di essa.

Noi sappiamo che dal IV secolo in avanti con l’imperatore Costantino il cristianesimo è addirittura diventato religione dell’impero e che da lì in avanti i papi hanno iniziato a vestirsi come imperatori. Ed è significativo che all’inizio Costantino non accolse il cristianesimo convertendosi, piuttosto accogliendolo come una delle tante religioni già presenti nell’impero. Come dire: ognuno creda un po’ ciò che vuole purché rispetti gli altri che non lo credono e si adegui alle regole dell’impero. È in definitiva già aperta la strada non solo all’idea che si possano “servire due padroni”, a “servire Dio e la ricchezza” (Mt 6,24), Dio e Cesare per così dire; ma anche a quel relativismo che ha cercato di denunciare anni fa il nostro papa emerito Benedetto XVI.

Ogni credente dovrebbe in proposito rileggere il Motu proprio Porta fidei, da lui pubblicato poco prima della sua inaudita rinuncia, nel quale invitava ad aprire gli occhi su quello che secondo lui è il vero grande problema della Chiesa di oggi: il venir meno della fede e senza neanche accorgersi, dunque nella più generale indifferenza. E perciò senza più percepire differenze tra il credere e il non credere, diventando addirittura una moda quella di parlare delle questioni di fede, e spesso in maniera intelligente e pensosa, dichiarandosi fin da subito ‘non credenti’. E con ciò escludendo ogni attenzione verso quei contenuti della fede per i quali il credente dovrebbe essere disposto, come già il Signore nel quale crede, a dare la vita. Ma come può reggere la fede come “fondamento” (Eb 11,1), come unico punto cioè da cui tali contenuti possono essere compresi, creduti, desiderati e annunciati, non avendone più nemmeno l’idea? Scomparsa la fides quae creditur anche la fides qua creditur non potrà reggere a lungo.

Ma chiediamoci: cosa è stato fatto in quell’anno in cui il papa pochi giorni prima di dimettersi invitava tutti a dedicarlo a riflettere sulla “fede della Chiesa”, a 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II e a 30 anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, nel quale la Chiesa stessa cercò di mettere in chiaro le fondamentali verità rivelate, quei contenuti da cui nessun credente può prescindere se vuol restare tale? Abbiamo cercato di intensificare “la riflessione sulla fede”? Abbiamo ritrovato “il gusto di nutrirci della Parola di Dio” nella “riscoperta della fede…, nelle nostre case e presso le nostre famiglie”? Abbiamo cercato “di conoscere meglio e di trasmettere alle generazioni future la fede di sempre”? Insomma, abbiamo mostrato “segni concreti dell’attesa del Signore che non tarda a venire”? E se non lo si è fatto, c’è stato in tutto questo tempo fino a oggi qualcuno che si è preoccupato di conoscerne almeno il perché?

Io credo di no e la Chiesa dovrebbe finalmente trovare il coraggio di guardare in faccia la realtà, di vedere cosa succede quando non si può uscire di casa per qualche mese e i fedeli si ritrovano con chiese forzatamente vuote e senza più messa, senza quel minimo di conoscenza della Parola di Dio che li porti non dico ad averne fame, ma almeno a una qualche ombra di interesse. I buoni propositi servono a poco se non segue una riflessione profonda e sincera, a livello di gerarchie soprattutto, sui propri continui e immancabili fallimenti. Più che la mancanza di fede a doverci preoccupare è l’indifferenza di fronte a tale mancanza o, peggio, il fatto che a nessuno più nemmeno interessi di essere salvato se non altro perché ormai nessuno sa nemmeno più cosa sia la salvezza promessa dal Signore a quelli che lo amano. Il vero nemico, dal punto di vista della fede, non è più infatti chi perseguita i credenti, ma quel “mistero dell’iniquità” che tutti ci porta a credere “alla menzogna” attraverso “una forza di seduzione” (2Ts 2,7-12) che ci inganna proprio nascondendosi dietro i sistemi e le figure di coloro che di volta in volta comandano nel mondo.

Nel 2013 – stesso anno in cui Benedetto XVI ci ha manifestato con le sue parole e le sue inaudite decisioni quel che abbiamo appena detto, uscì un piccolo libro di Giorgio Agamben: Il mistero del male, Benedetto XVI e la fine dei tempi, nel quale si trovano riflessioni assai importanti attorno alla decisione appena presa da papa Ratzinger. “Quest’uomo – egli dice -, che era a capo dell’istituzione che vanta il più antico e pregnante titolo di legittimità, ha revocato col suo gesto il senso stesso di questo titolo. Di fronte a una curia che, del tutto dimentica della propria legittimità, insegue ostinatamente le ragioni dell’economia e del potere temporale, Benedetto XVI ha scelto di usare soltanto il potere spirituale, nel solo modo che gli è sembrato possibile, cioè rinunciando all’esercizio del vicariato di Cristo. In questo modo, la Chiesa stessa è stata messa in discussione fin dalla sua radice”. E riporta, quasi a sigillo di quanto appena detto, la citazione di un articolo di Ratzinger, ancora giovane teologo appena trentenne, nel quale sosteneva come la Chiesa fosse, fino al Giudizio universale, insieme Chiesa di Cristo e Chiesa dell’Anticristo, e come “da ciò consegue che l’Anticristo appartiene alla Chiesa, cresce in essa e con essa alla grande discessio (separazione), che verrà introdotta dalla revelatio definitiva” (Beobachtungen zum Kirchenbegriff des Tyconius in Liber regularum, “Revue des études augustiniennes”, 1956, 2,pp.173-185).

Il mistero dell’iniquità e del male, che è tale perché si trova ancora nascosto e subdolamente agisce fino al raggiungimento del “colmo” (Gen 15,16), dev’essere cioè lasciato agire senza maschera e senza freno fino a che ovunque dilaghi “senza più rimedio” (2Cr 36,15-16). E nel dilagare dell’iniquità sarà la fede stessa ad essere abbandonata con “l’apostasia”, col ripudio totale di essa mentre a rivelarsi - con tutta la sua potentissima energia dell’inganno che seduce e acceca – sarà “il dio di questo mondo” (2Cor 4,4), “l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio” (2Ts 2,3). Nessun progresso, nessuna graduale crescita verso il meglio condurrà alla fase ultima, al compimento della salvezza promessa dal Signore. La fede stessa deve finire crocifissa e morire nel mondo prima che il Signore torni sulla terra come giudice. Negli ultimi giorni sarà Satana coi suoi figli ad avere la meglio e stravincere nel mondo, c’è poco da fare. E sarà soltanto dopo tale trionfo finale dell’Anticristo che potrà finalmente anche manifestarsi la potenza vincitrice e ultima del Cristo. Sarà cioè soltanto dopo lo scatenamento del male, dopo la vera e propria rivelazione e parusìa dell’Anticristo - che avverrà “nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri, e con tutte le seduzioni dell’iniquità” - che “il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta” (2Ts 2,5-12).

È così che sarà alla fine salvato il mondo, col Signore che si trova costretto a intervenire quando più nessuno attende da lui salvezza, quando più nessuno ci sarà a chiedergli: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20), quando dovrà intervenire con la rapidità del lampo e l’astuzia del ladro, a strappare con violenza l’ultimo manipolo di giusti dalla bocca di Satana. E Gesù ci ha avvertiti: “Vi sarà una tribolazione grande, quale non vi è mai stata dall’inizio del mondo fino ad ora, né mai più vi sarà. E se quei giorni non fossero abbreviati, nessuno si salverebbe; ma, grazie agli eletti, quei giorni saranno abbreviati” (Mt 24,21-22).

E la “tribolazione grande”, si badi, non viene provocata da Dio quasi fosse un castigo, come in troppi da troppo tempo fraintendono. La tribolazione è invece frutto del nostro operato, delle scelte scellerate con cui abbiamo riempito il mondo di armi sempre più sofisticate e tremende anziché occuparci di chi soffre la fame e di rendere giustizia agli oppressi, chiudendo cuore e orecchie a quanto Dio ha incessantemente cercato di dirci per bocca dei profeti e poi del Figlio stesso, che abbiamo crocifisso anziché riconoscerlo e ascoltarlo. Non “pianse” forse Gesù quando “fu vicino” a Gerusalemme e, “alla vista della città” si trovò costretto a dire che non sarebbe rimasta “pietra su pietra” di quella città, perché non aveva “riconosciuto il tempo in cui (era) stata visitata” (Lc 19,41-44)? Non ha il Signore per tante volte “voluto raccogliere i (suoi) figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali” ma non abbiamo voluto (Lc 13,34)? Dio vuole la salvezza di ogni creatura e piange e soffre indicibilmente se non ci riesce, se vede noi suoi figli andare verso la distruzione, la dannazione eterna. Questo comprenderemo “pienamente alla fine dei giorni” (Ger 30,24).

Fin dai giorni dell’Esodo, dice il Talmud, Dio ammonisce i suoi angeli desiderosi di cantare la disfatta degli egiziani, anch’essi sue creature: “I miei figli sono sommersi nel Mar Rosso e voi vorreste cantare?” (B. Megillah, 10b). il Dio d’Israele, il Dio di Gesù, è un Dio che patisce quando, “nel momento supremo, premessianico della sua presenza salvifica, non può salvare gli israeliti senza uccidere gli egiziani” (E.L. Fackenheim, La presenza di Dio nella storia). E come non dovremmo sapere questo noi venuti dopo l’esperienza kenotica del Dio crocifisso? L’“Agnello” della visione dell’Apocalisse è “in piedi”, ma “come immolato” (5,6). Il Cristo giudice che campeggia al centro del Giudizio Universale nella Cappella Sistina dipinto da Michelangelo ha le mani e i piedi ancora forati dai chiodi della crocifissione.

La scena della passione del Cristo è stata  terribile, non dimentichiamolo: “con spade e bastoni” al pari di “un ladro” i potenti gli “misero le mani addosso per arrestarlo”. E tuttavia in Gesù era profonda la consapevolezza che bastasse un niente al “Padre” suo per mettergli a “disposizione”, lì seduta stante, “più di dodici legioni di angeli” per liberarlo (Mt 26,53-55). Ma ciò non è accaduto sebbene nel Getsémani, cadendo a terra, con “paura e angoscia” addosso, avesse implorato il Padre, a cui “tutto è possibile”, di allontanare da lui “il calice… se fosse possibile” (Mc 14,33-36).

Il Padre e il Figlio patiscono insieme e a morire sulla croce, come hanno detto i teologi più coraggiosi, è stato Dio stesso. Ma se Dio è morto può ancora salvarci? Possiamo ancora sperare che il Messia Gesù venga, finalmente, a rovesciare “i potenti dai troni” e a innalzare “gli umili” come disse Maria, la Madre di Dio, fin da quando lo percepì presente nel proprio grembo (Lc 1,52)? Questa è la domanda ultima e terribile che ci prende alla gola riuscendo ancora ad avere la forza di credere tali cose restando restando saldi “nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18), continuando a credere, dopo oltre duemila anni di attesa, non solo sebbene sia, ma proprio perché è vergognoso, assurdo, impossibile, come disse fin dai primi secoli  un credente come Tertulliano.

 

Daniele Garota

(3.continua)

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