Koinonia Novembre 2020


L’AGONIA DEI PALESTINESI

E L’EUROPA “CRISTIANA” RESTA A GUARDARE

 

Non c’è pace per i palestinesi. L’annessione di fatto di vasti settori dei territori occupati da parte di Israele sembra non trovare più ostacoli. La creazione di uno stato libero e indipendente di Palestina si allontana sempre più.

L’indebolimento del fronte progressista degli ebrei israeliani facilita questo processo che allo stato attuale sembra irreversibile.

In barba a tutte le risoluzioni dell’ONU l’attuale governo israeliano procede come un carro armato. In modo unilaterale, ha spostato la sua capitale da Tel Aviv a Gerusalemme. Fino a pochi mesi fa solo gli USA avevano appoggiato questa decisione, mentre l’Europa si era dichiarata contraria. Ma oggi questa barriera si sta incrinando. Già la Serbia e il Kosovo hanno spostato la propria ambasciata a Gerusalemme.

Al tempo stesso di recente è stato stipulato un accordo fra Israele, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi che rafforza la presenza di Israele in tutto il Medio Oriente. Con questa politica Israele si mostra sempre più una pedina degli Stati Uniti che vogliono contrastare le mire della Russia, anch’essa determinata ad estendere la sua influenza nell’area mediorientale.

Dunque nella contesa tra le grandi potenze i palestinesi assumono il ruolo della vittima sacrificale non essendo in grado, nel loro isolamento, di arginare l’espansionismo israeliano.

Del resto ogni risposta violenta contro Israele da parte dei palestinesi si rivela una scelta disperata, e addirittura controproducente. Ogni lancio di missili contro il territorio israeliano è una prova di forza di scarsissimo effetto. Raramente fra i coloni ebrei ci sono vittime, mentre le rappresaglie di Israele hanno effetti devastanti per i palestinesi. I raid dell’aviazione israeliana procurano numerosissime vittime, la distruzione delle abitazioni civili e un sempre maggiore indebolimento delle strutture economiche, già fragilissime, di quei territori martoriati.

Il governo di Israele giustifica questi interventi militari come risposta alle aggressioni dei palestinesi che non hanno ancora accettato “formalmente” l’esistenza dello Stato Ebraico e che mettono in atto azioni terroristiche contro i cittadini ebrei. Tuttavia questi atti esecrabili che colpiscono la popolazione civile di Israele possono mai giustificare risposte così feroci e devastanti contro un nemico infinitamente più debole e sostanzialmente indifeso? Senza considerare che le conseguenze di tale politica hanno effetti pericolosi che vanno ben al di là del conflitto in atto.

L’estremismo islamista, quasi assente finora fra i palestinesi e per fortuna combattuto da parte dei loro dirigenti politici, comincia a prendere piede anche lì. Al tempo stesso in Occidente, accanto ai gruppi di estrema destra da sempre antisemiti, si affaccia un antisemitismo  di “sinistra”. Molte manifestazioni di protesta contro la politica di Israele vedono la presenza, per fortuna ancora minoritaria, ma comunque pericolosa, di atteggiamenti antiebraici.

Guai a confondere la politica aggressiva dei governi israeliani con lo stato di Israele tout-court o, peggio ancora, con gli ebrei nel loro insieme. Quando, nel corso di una giusta manifestazione contro le azioni violente dell’esercito israeliano, alcuni scriteriati si mettono a bruciare le bandiere dello Stato Ebraico, non solo dobbiamo condannare senza mezzi termini tali atteggiamenti come esempi di idiozia, ma dobbiamo anche far capire che atti del genere favoriscono il compattamento degli ebrei spingendoli a solidarizzare con le scelte politiche di Israele: “Ci odiano, ci vorrebbero morti, dobbiamo difenderci”.

 

Ma noi cristiani, noi che diciamo di sentirci fratelli degli ebrei come degli arabi, possiamo limitarci a stare a guardare? Perché rassegnarci all’impotenza, perché le nostre parole di pace si riducono a inutili proclami?

Pur riconoscendo la nostra inadeguatezza non dobbiamo rinunciare ad operare in favore della pace per quella terra martoriata. I modi non mancano, a partire dal piano politico.

Qui mi limiterò a parlare di come noi, da semplici cittadini, potremmo far sentire la nostra voce. In primo luogo c’è il piano educativo (pensiamo alla scuola, innanzitutto); ma anche le associazioni, le parrocchie, le case del popolo, i centri culturali possono promuovere occasioni di dialogo. Attraverso questi strumenti potremmo aiutare la comunità ebraica, o almeno alcune sue componenti, a prendere pubblicamente le distanze dalle scelte politiche di Israele nei confronti dei palestinesi. (1)

Ma come rapportarci alla comunità ebraica? Come far sì che i nostri concittadini ebrei prendano a cuore la causa dei palestinesi, non considerandoli più come un nemico?

Allo stato attuale sembra un’impresa quasi impossibile. A parte rarissime eccezioni le comunità ebraiche italiane si dividono fra coloro che si dichiarano sempre e comunque dalla parte del governo israeliano e coloro i quali sostengono che, in quanto italiani, non sono responsabili delle scelte politiche e delle opzioni militari dello stato ebraico.

Ben sappiamo che gli ebrei italiani non sono cittadini israeliani e pertanto non c’entrano direttamente con la politica del loro governo. E tuttavia siamo ben consapevoli che, dato che tutti hanno rapporti stretti, almeno sul piano ideale, talvolta anche per legami di sangue, con Israele, crediamo che una loro presa di posizione non sia indifferente.

Una goccia nel mare? Forse. Ma se le gocce diventassero tante, se ciascuno facesse la propria parte, siamo sicuri che ogni sforzo sarebbe inutile?

 

Bruno D’Avanzo

 

 

NOTE

(1) È sempre un grave errore che genera odio e razzismo identificare un determinato popolo col suo governo. Ben ne sappiamo noi cristiani che per secoli abbiamo considerato gli ebrei come deicidi per il fatto che duemila anni fa i capi di Israele hanno crocifisso Gesù.

E parimenti, venendo all’oggi, non possiamo considerare nazisti i tedeschi per lo sterminio degli ebrei, degli omosessuali e di innumerevoli prigionieri di guerra; né i cittadini americani degli imperialisti, anche se i loro governi hanno tenuto politiche oppressive nei confronti di tanti popoli del mondo; né possiamo considerare i russi responsabili degli orrori dell’epoca staliniana.

E tutto questo anche se la maggioranza di quei popoli, in certi momenti della loro storia, sembrava (o sembra) condividere le scelte dei propri governi.

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