Koinonia Ottobre 2020


Un ritorno al mondo antico e alle radici della nostra cultura

IN CHE MODO I GRECI CREDEVANO NEI LORO MITI?

 

Mentre i Poemi omerici, o meglio parti di essi, venivano recitati dagli aedi che cantavano in situazioni eccezionali (celebrazioni o festività), la poesia esiodea era destinata ad un contesto più umile. Gli aedi erano comunque sempre venerati come vati, trattati con ogni riguardo[1].

L’etica omerica, che esaltava l’eroismo del personaggio emergente, il coraggio e la dedizione alla patria del combattente, come anche l’astuzia e il dominio degli impulsi, si rivolgeva più ai ceti aristocratici. Quella esiodea, invece, che esortava a sopportare le avversità quotidiane, il duro lavoro, la disciplina nell’eseguire passo passo le norme del bravo agricoltore, era rivolta alle classi povere.

Esiodo stesso pone a contrasto i due modelli etici quando scrive: “Di Erides (Contese) non c’era un solo genere, ma sulla terra / due ce ne sono; una chi capisce la loda, / ma l’altra è degna di biasimo, hanno un’indole diversa ed opposta: / l’una infatti favorisce guerra cattiva e discordia, / crudele, nessun mortale l’ama, ma costretti, / per volontà degli dèi rispettan la triste Eris. / L’altra la generò per prima Nyx oscura / e l’alto Cronide, che nell’etere ha la dimora, la pose / alle radici della terra, e per gli uomini molto migliore.”[2]

Le due “contese”, una che si combatte sul campo di battaglia e una che si consuma nel duro lavoro dei campi, rimasero i modelli di riferimento

 indelebili per i greci ed ebbero entrambi i loro cultori.  L’arte figurativa sicuramente privilegiò gli eroi e gli atleti, ma molto seguito ottenne anche la poesia esiodea, in un paese povero come la Grecia arcaica dove gli umili contadini e i pescatori costituivano la maggioranza della popolazione.

Entrambi i poeti, però, si erano vantati di essere stati ispirati dalle Muse e quindi attribuivano alle loro opere una indiscussa autorità e la capacità di esprimere verità rivelate, valori indiscutibili.

 L’influenza di Omero e di Esiodo fu anche strumentalizzata per motivi politici. Platone riferisce che “…Ipparco (tiranno di Atene dal 528 al 514 a. C.), che fu il più anziano e il più sapiente dei figli di Pisistrato… per primo introdusse (ekòmisen = portò) in questa terra (ad Atene dalla Ionia dove l’uso era già praticato) i poemi di Omero e stabilì che alle Panatenee[3] i rapsodi dovessero recitarli di seguito e in ordine come fanno ancora oggi”[4].

 

Per quale ragione Ipparco abbia adottato questo provvedimento non è facile dire. Forse perché da mecenate, amante della poesia quale era, voleva dare prestigio al suo governo impreziosendo la festività che meglio rappresentava la città di Atene?

Forse, come dice Platone, lo fece “…nell’intento di educare i cittadini sì da comandare su gente la migliore possibile…”[5]?

Aristotele suggerisce un’altra interpretazione di quel provvedimento quando scrive che “…gli Ateniesi si sono serviti di Omero come di un testimonio a proposito di Salamina”[6]Con questa frase egli allude al verso dell’Iliade nel quale si dice che Aiace Telamonio, il grande capo acheo, “… da Salamina guidava dodici navi…”[7]. Testimonianza che fa capire che la recitazione dei Poemi omerici, introdotta dalla Ionia alle Panatenee avrebbe dato agli Ateniesi il diritto di rivendicare grandi meriti nella spedizione contro Troia.  Meriti che, nelle intenzioni di Ipparco, avrebbero dovuto facilitare la solidarietà con le città della Ionia che in quel tempo erano sottoposte al dominio persiano. Il prestigio del Poeta veggente si affermò dunque non solo sul piano religioso, letterario e pedagogico, ma anche su quello politico.

Qualunque spiegazione si voglia dare di questo provvedimento, esso testimonia che, all’epoca di Ipparco (che è anche quella dei Sapienti che andiamo ad analizzare), l’epica esercitava sul popolo un ascendente indiscusso.

Scrive Erodoto:“… furono proprio questi poeti (Omero ed Esiodo) a fissare per i Greci la teogonia, ad assegnare i nomi agli dèi, a distribuire prerogative e attività, a dare chiare indicazioni sul loro aspetto…”[8].

Il “padre della storia”[9] attribuisce dunque a Omero ed Esiodo il merito di avere svolto per i greci il ruolo di “teologi”, cioè di “ordinatori” del pantheon ellenico, ma essi, in realtà, fecero molto di più: svolsero il ruolo di “Maestri dell’Ellade”. Non si limitarono a definire caratteristiche e pertinenze delle divinità dell’Olimpo e ad inserirle in un albero genealogico, essi insegnarono ai greci a venerare, rispettare, temere quelle divinità.

Come riuscirono in questo intento? Come poterono far accettare ad un popolo così scaltro ed evoluto vicende irrealizzabili e comportamenti spesso riprovevoli dei quali le divinità si rendevano protagoniste? Come poterono far sì che queste divinità esercitassero tanta autorità su uomini che non potevano non giudicare negativamente il loro modo di agire? Come riuscirono a convincere il popolo greco, che viveva del duro lavoro dei campi e di un magro commercio, che l’ambizione maggiore per un essere umano è di morire in guerra?

 

Viene spontaneo chiedersi, mutuando il titolo di un libro che ha avuto fortuna: “I greci hanno creduto ai loro miti?”[10]. L’autore, Paul Veyne, opportunamente inizia le sue considerazioni osservando che esistono diversi modi di “credere”. Se con questa parola si intende soltanto “ritenere un enunciato rispondente alla realtà”, non sembra possibile dare una risposta affermativa all’interrogativo. Resta dunque da chiedersi in che modo i greci abbiano creduto nei loro miti.

Per affrontare un argomento così sfuggente è opportuno tenere presenti fattori diversi e apparentemente indipendenti uno dall’altro. Occorre innanzitutto sforzarsi di entrare nella mentalità di uomini che ignoravano la scienza sperimentale e quindi non erano in grado non solo di provare, ma neanche di postulare, una causa naturale per fenomeni straordinari come, ad esempio, il fulmine, l’arcobaleno o il terremoto[11].

Possiamo immaginare quanto la loro esistenza fosse permeata di paura, circondati, come si sentivano, da forze sconosciute, nemici invisibili.  Un tale stato di allerta li portava ad affidarsi a Potenze immaginarie alle quali attribuivano la causa di ogni evento inconsueto.

E’ comprensibile che i greci ricercassero anche l’origine di energie psichiche del tutto comuni (come i sentimenti, la creatività, l’impulso ad agire, la forza fisica, la paura, l’attrazione sessuale) e che proiettassero queste Potenze archetipiche su personaggi immaginari come gli dèi dell’Olimpo. A ben riflettere le divinità del pantheon greco, quando non impersonano realtà di ordine naturale (cielo, terra, mare, sole, mondo sotterraneo ecc.) sono portatrici di energia antropica (potere, amore, giustizia, intelligenza, estasi).

La presenza attiva di queste Potenze veniva avvertita tramite una sorta di sesto senso, da persone dotate di questa capacità: “perché non a tutti si mostrano chiaramente gli dèi”.[12]

Quando la dea Atena, nelle sembianze di una donna “bella e grande” appare sulla porta della capanna dove si trovavano Odisseo e Telemaco insieme con i cani, non la vide il giovane, “Odisseo sì la vide, e i cani: e non abbaiavano / ma uggiolando fuggirono dall’altra parte del chiuso”[13]

Ad interpretare questa dissimiglianza può venire in soccorso la psicanalisi: Telemaco, che Omero ci presenta in una fase critica della sua evoluzione psichica[14] e che è restio ad affidarsi al volere dei numi[15], non ha più la sensibilità istintiva che è propria dell’animale, è dominato dall’io cosciente e rifiuta i messaggi subliminari della divinità. 

Questo piccolo episodio ci aiuta a comprendere in che modo si intendesse a quel tempo il “credere”: una forma di percezione che va oltre i cinque sensi, una partecipazione intuitiva che non è spiegabile razionalmente.

 E’ anche da tener presente il modo in cui avveniva la ricezione dell’epica. Dobbiamo immaginare una folla raccolta all’aperto intorno al cantore, certo non silenziosa come quella dei frequentatori di un moderno teatro. Un pubblico numeroso crea una cassa di risonanza emotiva molto efficace che accresce l’incisività del messaggio e stabilisce non soltanto tra cantore e uditori, ma tra gli uditori stessi, un legame, una sorta di mutuo consenso dato dalla condivisione dell’ascolto. La voce del cantore non si separa dall’eco che essa produce nella moltitudine e ciascuno si sente parte della comunità nel suo insieme.

Non va trascurato il fatto che la religione non era sentita come esperienza personale, ma come condotta pubblica. Celebrare un rito, partecipare ad una cerimonia, compiere un sacrificio, erano modi per adempiere ad un dovere civico, infatti, i riti erano diversi da città a città.

Ogni gesto della vita quotidiana era compiuto secondo le consuetudini rituali proprie della città, sempre applicando formule fisse tramandate nel tempo: i pasti, i simposi, il lutto, l’ospitalità... Non si trattava soltanto di meccaniche ripetizioni di comportamenti tramandati: erano i modi stabiliti dalla singola pòlis[16]. Sintetizzando, si può affermare che per i greci la “religione” (dal latino “relìgo”, lego insieme) era orizzontale prima che verticale. 

Ancora nel quarto secolo, uno dei capi d’imputazione che costarono a Socrate la condanna a morte non fu di non credere negli dèi, ma “… di non riconoscere gli dèi che la città riconosce, e anzi di praticare culti nuovi e diversi”[17]. Il reato che gli era stato imputato non era stato commesso nei confronti delle divinità, ma di Atene.

 

Anche i riti che si potrebbero ritenere “privati”, come, ad esempio, quelli celebrati in occasione di una nascita, un matrimonio o un lutto, erano tutt’altro che privati: miravano a rinsaldare il legame che univa l’individuo con la comunità cittadina. Tramite il rito, la città lo confermava appartenente alla propria concezione del divino e quindi sottomesso alla propria gerarchia di valori. Queste consuetudini derivavano alla pòlis sicuramente dall’epica che ne rinnovava periodicamente il valore di fondazione.

Non si deve neanche sottovalutare il fatto che si trattava di versi cantati con l’accompagnamento della cetra e talvolta perfino con la danza. Al tempo, la poesia non era, come oggi, soltanto una forma letteraria capace di trasmettere emozioni, immagini, sentimenti che vanno oltre la “prosa”, la poesia era ispirata dalle Muse (figlie

di Mnemosyne, la Memoria) e quindi era una forma espressiva capace di istituire (e non soltanto riferire) verità incontrovertibili, passate e future.

Il rito celebrato per mezzo del canto poetico non si limitava a “ricordare” eventi accaduti in un tempo remoto, faceva sì che quegli eventi tornassero ad accadere e quindi reiterassero nel presente la funzione fondante che avevano svolto nel passato[18]. La parola poetica “fa”, non soltanto “dice”. Nella consapevolezza degli ascoltatori, quindi, la parola ispirata prescinde dalla realtà storica, vola più in alto. Gli ascoltatori non potevano che rimettersi all’autorità del Poeta consacrato, credere in lui prima di credere nelle cose che diceva e quindi mettere in atto i suoi insegnamenti.

Non soltanto i poeti si esprimevano in poesia, ma anche i veggenti, gli oracoli, coloro, quindi, la cui visione non aveva limiti cronologici[19]. Il tempo del mito, infatti, non è semplicemente “passato”, è eterno. Scrive Esiodo delle Muse: “m’ispirarono il canto / divino, perché cantassi ciò che sarà e ciò che è stato…”[20]. Analogo quanto Omero dice dell’indovino Calcante: “conosceva il presente e il futuro e il passato”[21]. E ancora Eraclito della Sibilla: “…con la sua voce supera i millenni ad opera del dio…[22].

L’ Iliade, l’Odissea, la Teogonia iniziano tutte con un’invocazione alle Muse perché consentano al Poeta di dire quello che loro dettano. Quell’invocazione concede all’Autore il potere sacramentale di ricreare gli eventi che sono all’origine del tutto. Il popolo che ascolta crede innanzitutto nel potere di quel canto, nella sua capacità evocativa e fondante e non semplicemente storica.

L’uditorio non si chiede se i fatti riferiti siano o no accaduti realmente, non assume, nei confronti degli eventi mitici, un atteggiamento indagatore. Il termine “alètheia” (verità), nel mondo arcaico, non significa soltanto “aderenza al reale”, ha un senso diverso da quello che, da Aristotele in poi, è condiviso dalla nostra cultura occidentale: questo termine (che si contrappone a lèthe, oblio) rimanda al “dis-velamento” (letteralmente: eliminazione del velo dell’oblio) di una realtà di ordine più elevato rispetto a quella percepita con i sensi e che è nota soltanto ai sapienti ispirati (poeti, profeti, indovini, monarchi)[23].

 Nel mondo greco arcaico, i “maestri della parola” esprimevano quasi sempre pensieri ambigui, che potevano essere interpretati su registri opposti. A Delfi, la Pizia, lasciava la possibilità di intendere il suo verdetto in un senso o nel suo opposto[24].   Commenta Eraclito: “Il signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica”[25].

Questa duplicità (o forse meglio “doppiezza”) di senso è presente nel Prologo della Teogonia, dove Esiodo narra di aver appreso “il canto bello” direttamente dalle Muse che gli erano apparse mentre, sul monte Elicona, pascolava il suo gregge.  Questa l’ambigua presentazione delle dee: “… noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare”[26]. Passo molto controverso e di difficile interpretazione: c’è stato anche chi lo ha inteso in senso riduttivo come una banale frecciata contro Omero, dal quale più volte Esiodo si dissocia.

La difficoltà di interpretazione sta nel fatto che, mentre l’Autore dell’Odissea non esprime mai riprovazione nei confronti delle infinite bugie dette da Ulisse (che sono sempre presentate come astuti stratagemmi, dimostrazioni di scaltrezza), Esiodo condanna decisamente la menzogna e la presenta come un inganno dal quale bisogna sempre guardarsi.

Della perfida Pandora, Egli dice

espressamente che proferisce soltanto “menzogne e discorsi ingannevoli”[27]. Nell’albero genealogico delle divinità, la Menzogna (Pseudea), è collocata tra i discendenti di “Nyx funesta[28]. Come può Esiodo giustificare il fatto che le Muse si vantino di “dire molte menzogne simili al vero”?

 

 

Sembra evidente che le nobili figlie di Mnemosyne vogliano chiarire che la poesia si esprime su un registro diverso, e perfino opposto rispetto alla prosa e che lo statuto di verità del canto ispirato non è uguale a quello del parlare comune. Numerosi sono i frammenti nei quali Eraclito denuncia che “L’armonia nascosta vale più di quella che appare”[29], e che “La natura delle cose ama celarsi”[30].

Per i greci antichi, dunque, credere negli dèi non significava ritenere che tutto ciò che i poeti dicevano rispondesse alla realtà dei fatti, bensì riconoscere che essi sono portatori di una Verità che è nascosta ai più. Questa distinzione tra coloro che si accontentano di credere in quello che percepiscono con i sensi e coloro che ricercano verità di ordine superiore, accessibili solo all’intelletto illuminato, è comune a tutti i Sapienti.

In ultima analisi, il compito che i “Maestri dell’Ellade” svolsero fu quello di indurre i greci ad accettare l’imperscrutabilità del Vero. Non deve essere stato un compito facile se lo stesso Sapiente di Efeso arriva a scrivere: “La maggior parte delle cose divine … sfugge alla conoscenza per incredulità”[31].

Anna Marina Storoni Piazza



[1] La venerazione che circonda Femio, il cantore di Itaca, ne è un esempio. Od. XXII, v. 346

 

[2] Erga, vv. 11-19

 

[3] La festa religiosa più importante di Atene, celebrata in onore di Atena, protettrice della città.

 

[4] Platone, Ipparco, 228 b. La notizia fu ribadita da Licurgo (Contra Leocratem, 102),  Diogene Laertio (I, 57), Cicerone (De Oratore, III 137).

 

[5] Platone, Ipparco, 228 c

 

[6] Aristotele, Retorica, 1375 b 30. L’isola di Salamina rientra nel territorio ateniese.

 

[7] Il., II, v. 557.

 

[8] Erodoto, Le Storie, II, 53

 

[9] Cicerone, De legibus, I, I, 5

 

[10]

 Paul Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, Bologna, Il Mulino 1984. Ed. or. Paris, ed. du Seuil, 1983

[11]11 Resta imprescindibile L. Lévy Bruhl, La mentalità primitiva, Einaudi, Torino, 1966. Ed. or. PUF, Paris, 1922

 

[12]  Od. XVI, v. 161

 

[13] Od. XVI, vv. 162-163

 

[14] È infatti combattuto tra un atteggiamento infantile che lo porterebbe a disinteressarsi di quel che accade nella sua casa, e il desiderio di prendere le redini della situazione, come Atena, nelle vesti di un amico del padre, lo consiglia a fare.

 

[15]  A proposito del ritorno del padre, egli osa rivolgere al vecchio Nestore queste parole: “… questo / per quanto io lo speri, mai avverrà, neppure volendolo i numi!” (Od. III, vv. 226-228)

 

[16] B. Snell, Poesia e società, Bari, Laterza 1981. Ed. or. Hamburg, 1965

 

[17] Platone, Apologia di Socrate, XI, 24 b

 

[18] M. Eliade, Mito e realtà, Rusconi ed. Milano 1974, p.  Ed. or. New York, 1963

 

[19] F. M. Cornford, Principium sapientiae. The origins of greek philosophical thaught, Oxford, 1952.

 

[20] Esiodo, Teogonia, vv. 31-32.

 

[21] Il. I, v. 70. I termini greci (le cose che sono, quelle che saranno, e quelle che sono state) sono sovrapponibili.

 

[22] Eraclito, D.K. 22 B 92

 

[23] M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, Roma-Bari Laterza, 1977. Ed or. Parigi, 1967

 

[24] Celebre l’esempio riportato da un monaco medievale (“Ibis redibis non morieris in bello”), dove il senso ultimo del verdetto si può comprendere solo dalla posizione di una virgola (non presente) che, se collocata prima (…, non morieris) offre un pronostico fausto, se collocata dopo (redibis non, …) infausto.

 

[25] Eraclito, 22, D. K. B, 93

 

[26] Esiodo, Teogonia, vv. 27-28

 

[27] Erga, v. 80

 

[28] Theog. v. 229

 

[29] Eraclito, D. K. 22, B 54

 

[30] Eraclito, D. K. 22, B 123

 

[31] Eraclito, D. K. 22, B 86

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