Koinonia Ottobre 2020
Come Rossana Rossanda ricordava Giuseppe Barbaglio
I MILLE VOLTI DI GESÙ OLTRE LE CHIESE
Non ho titoli per parlare di Giuseppe Barbaglio, se non l’essere stata una sua ammirata ascoltatrice e poi un’amica in perpetuo dialogo, imparando da lui molto, scoprendo quel che mi faceva intravvedere del suo lavoro e talvolta affettuosamente azzuffandoci. Sono una miscredente - oggi si dice una «non credente» - convinta della grandezza del cristianesimo, bisognosa di conoscerlo, ma bellicosamente illuminista, e alternavamo l’informazione che mi veniva dai suoi saperi ad allegri scontri, per esempio sulla sua convinzione che l’Antico Testamento sarebbe tutto percorso - «come un filo rosso», diceva - dalla presenza di un Dio amoroso, che a me sfugge del tutto.
Avevo conosciuto Giuseppe a Montegiove, in quegli «Itinerari e incontri» interreligiosi e fra credenti che animava Lorenza Carboni (e oggi Giovanni Pelosi) nel bellissimo e quasi deserto eremo benedettino di Montegiove, che sovrasta Fano. Allora viveva ancora padre Benedetto Calati, un monaco straordinario che era stato generale dei benedettini di Camaldoli, intelligenza vivida e aperta, dal quale avevo appreso qualcosa di Gregorio Magno, e soprattutto che il Libro cresce con colui che lo legge.
A un ciclo iniziato sul tema «Fede, coscienza e libertà» aveva partecipato Giuseppe leggendo una lettera di Paolo ai Corinzi, ed era come se ce la rivelasse, sondando ogni parola e inseguendone il senso nel contesto filologico, storico, politico e di costume del tempo, con la chiarezza e fin l’allegria di chi ha scoperto un filone prezioso. Da quel momento e attraverso i suoi lavori le lettere paoline sono diventate altro da quello che mi erano apparse leggendole da sola. In verità Paolo era l’oggetto preferito dei suoi studi, anche se il libro attraverso il quale lo avevo avvicinato era Gesù ebreo di Galilea, che colpisce per la severità dello storico, fermo nel togliere di mezzo molte leggende e renderci l’umanità scabra del Cristo pur nella certezza della sua natura divina.
Anche nelle successive letture dei suoi libri o saggi mi è successo di chiedermi da che parte inclinasse di più il suo animo, sul versante del messaggio di fede o su quello del riscontro filologico. Per esempio, che cosa pensava di quell’asse del pensiero paolino che è la risurrezione dei morti, della quale a me importa tanto poco quanto mi pesa la perdita dei vivi che ho avuto accanto? Ma non ho osato perché c’è un limite all’indiscrezione fra amici. Così non saprò; a proposito dei «Mille volti di Gesù» che stava preparando - e dei quali doveva avere netti in mente i capitoli uno per uno, se per ciascuno aveva preparato un’immensa bibliografia - quale «volto» prediligesse, e quale considerasse indebito, se può essere indebito per lo storico qualcosa che per un popolo o un gruppo o un tempo è stato vero.
Quel che è certo è che mi prendeva affettuosamente in giro come «gesuana», sedotta più dalle parole atemporali del Cristo che dalla gigantesca opera di argomentazione compiuta da Paolo per portarle nel mondo, un mondo affatto diverso da quello in cui il Figlio dell’uomo era nato, aveva predicato ed era stato messo a morte. E più colto e stratificato e complesso, nel pieno dell’ellenismo, il titolo di un suo studio comparato, «Gesù di Galilea e Paolo di Tarso», suona infatti, se mi è permesso, come «Gesù di Zagarolo e Paolo di Roma». Gli appariva bizzarro che una non credente fosse presa più dalla parole senza tempo del primo che dal lavoro tutto umano del secondo. O forse vi ravvisava una facilità.
Lui, Barbaglio, era tutto preso dall’opera rischiosa di Paolo, e da quell’essere costretto a costruirla nel predicarla a precisi gruppi di persone che conosceva, quali erano le piccole comunità cristiane del Mediterraneo, cui si rivolgeva in quella comunicazione speciale che è una vera lettera, dove sono presenti mittente e destinatario, colui che invia e quelli di cui cerca la persuasione e conosce le resistenze. Il non credente può trovare più facilmente pace e poesia in Gesù che nel ferreo ragionare di Paolo, delle grandi figure cristiane non la più accattivante, eppure miniera che Giuseppe non finiva di scavare.
Strano paese cattolico è l’Italia dove un ragazzo o una ragazza non incontra nel corso dei suoi studi né i vangeli né Paolo, per non parlare di Lutero, e tanto meno, malgrado le professioni di condanna dell’antisemitismo, la Bibbia, fino a non molto tempo fa a ogni buon conto interdetta.
Occorre un incontro, con un libro, con qualche libro, con qualche persona. Io ho avuto questa fortuna. I libri restano, ma gli uomini muoiono. E se i primi sono preziosi, c’è nei secondi qualcosa che è perduto per sempre, ed è, questa perdita, una delle esperienze più amare della vita. Per non dire della vecchiaia, quando vediamo sparire, come a me accade, i più giovani di noi, quelli nella cui memoria avremmo voluto restare. Giuseppe Barbaglio è per me uno di questi, e non mi è facile rassegnarmi.
Rossana Rossanda
* La morte di Rossana Rossanda mi ha fatto ricordare il suo intervento al convegno in ricordo di Giuseppe Barbaglio ad un anno dalla morte, tenuto a Roma presso la la Facoltà valdese di Teologia, nei giorni 29-30 marzo 2008. Il tema del convegno era “I mille volti di Gesù”, il titolo con cui nel 2009 sono stati pubblicati gli atti da EDB. Ci si offre l’opportunità di riportare l’attenzione a Giuseppe Barbaglio, servo instancabile della Parola di Dio e testimone per la chiesa dell’eredità paolina da non disperdere.
Introducendo l’intervento della Rossanda al convegno (pp.92-94), Carla Busato Barbaglio così si esprime: “Con Rossana Giuseppe aveva un rapporto di stima profondissima e di affetto, un continuo interrogarsi tra loro o, come diceva in una lettera Rossana, un incrociare le spade amorevole e incessante: «lasciami litigare tranquillamente con Giuseppe», ma aggiungeva: «Sto procedendo con Gesù e Paolo e come sempre il metodo di Giuseppe mi delizia»”. (ABS)