Koinonia Ottobre 2020
IL POTERE DEL MONDO E I SUOI INGANNI (II)
Parte seconda: Inimmaginabili altezze
Non è forse quella di non appartenere a questo mondo una delle prime raccomandazioni che ci rivolge il Cristo? Egli, alzando “gli occhi al cielo” non disse forse al Padre, riferendosi a coloro che gli aveva “dato dal mondo” e che avevano osservato la sua “parola” mettendosi al suo seguito: “Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,1-14)?
Ma i cristiani non si distinguono perché più onesti degli appartenenti al mondo o perché militano in un partito piuttosto che in un altro, non è il metro della morale e dell’etica a distinguerli, moralmente buono può essere anche un non cristiano o un non credente, mentre veramente buono è “Dio solo”, infatti “nessuno è buono” (Mc 10, 17-18), nemmeno il Cristo in quanto uomo qui sulla terra. Dunque nessuno si salva perché è buono ma soltanto perché è buono Dio, che comprende, perdona, giustifica e perciò ci salva.
I cristiani, come già i profeti biblici e Gesù stesso, rompono con le convenzioni umane, per porsi su un piano assolutamente diverso, un piano che è “scandalo” e follia agli occhi del mondo, come dice Paolo (1Cor 1,23). Perciò se la nostra “giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei”, non entreremo “nel regno dei cieli” (Mt 5,20), anche Gesù è molto esplicito su questo.
La distinzione non è intrinseca al mondo, quasi riguardasse un modo o l’altro di comportarsi all’interno del mondo, pagando le tasse da onesti cittadini e magari anche aiutando il prossimo. La distinzione è più radicale, è quella tra chi appartiene al mondo e alle sue logiche e quelli che invece “non sono nel mondo”, che vivono cioè ogni cosa “come se non” la vivessero, dice ancora Paolo. Perché? Perché: “passa … la figura di questo mondo!” (1Cor 7,29-31), un mondo a cui non si appartiene dal momento che non sono lì il proprio “tesoro” e il proprio “cuore” (Lc 12,34), tesi come si è al mondo nuovo che ci è stato promesso, ai “nuovi cieli” e alla “terra nuova, nei quali abita la giustizia” (2Pt 3,13).
È vero, nel momento in cui il mondo rifiuta Gesù e il suo messaggio al cristiano non resta che entrare in collisione con il mondo. Bisogna però fare attenzione, qui non si dà infatti adito a fughe dal mondo verso un qualche vago aldilà. Il mondo, per noi e per Dio, continua infatti a essere tutto ciò che abbiamo: è sempre Gesù e nello stesso Vangelo di Giovanni a dirci fino a che punto Dio abbia “tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,17). Se dunque Dio ama così tanto il mondo, come può il cristiano a sua volta non amarlo? Non dovremmo infatti essere presi da compassione per il mondo amandolo come lo ama Dio, desiderandone la salvezza come la desidera Dio? Non dobbiamo forse avere a cuore la storia con le sue vicende quotidiane così come le ha a cuore Dio? Rendendoci tuttavia conto di come “ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole” (Lc 16,15). Se di fronte alla “luce” offerta da Dio “gli uomini” preferiscono “le tenebre” per nascondere anche a se stessi le proprie “opere malvagie”, non rimane che la condanna: “chi non crede è già stato condannato” (Gv 3,18-20).
La salvezza promessa nella Bibbia ha a che fare più di quanto immaginiamo col mondo e con la storia, in essa continuamente si parla di un Dio che cammina con gli uomini fino a diventare “carne” in mezzo a noi e come noi, fino a spaccarla a metà la storia: prima e dopo Cristo. Dal mondo non si deve fuggire perché è nel mondo e per il mondo che si gioca la salvezza promessa dal Signore: il suo regno è tra noi che deve venire, la “Gerusalemme nuova” scenderà dal cielo qui sulla terra, con un cielo e una terra rifatti nuovi perché, secondo la visione di Giovanni, “il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più” (Ap 21,1-2), quel mare che fin dall’antichità è stato ritenuto luogo di vita del drago, simbolo del male (cfr. Gb 7,12).
C’è nei vangeli un brevissimo episodio: a Gesù si presenta un uomo per chiedergli: “‘Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità’. Ma egli rispose: ‘O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?’”. Era un uomo assillato da un problema molto frequente anche tra noi oggi, un problema di giustizia se vogliamo, chi dunque meglio di Gesù sarebbe riuscito a mediare per far tornare un po’ di pace tra quei fratelli? Eppure Gesù non vuol proprio saperne, invitando a tenersi “lontani da ogni cupidigia” proprio perché la vita di un uomo “non dipende da ciò che egli possiede” (Lc 12,13-15).
Siamo preziosi, “dèi” addirittura, “tutti figli dell’Altissimo” (Sal 81,6). Mentre di Cesare e della sua immagine sulla moneta non deve importarci un fico secco, dell’“immagine di Dio” che siamo, e che ci è data fin da principio (Gen 1,27), dobbiamo invece occuparci amandola con tutte le forze, come con tutte le forze dobbiamo amare Dio, che ci ha a tal punto amati, da volere diventare nel Figlio, “generato” da Maria duemila anni fa (Mt 1,18), egli stesso a nostra immagine; in modo da far diventare pure noi, nel giorno in cui il Figlio di nuovo si manifesterà, “simili a lui” vedendolo “così come egli è” (1Gv 3,2).
E tuttavia noi riusciamo ancora, non dico a desiderare, ma anche soltanto a pensare, a immaginare, a comprendere altezze e traguardi come questi?
Sempre nel vangelo di Luca, un poco più avanti incontriamo anche una parabola, che Gesù racconta per farci comprendere la “necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”. C’era “una vedova” inesorabilmente maltrattata dal suo “avversario”, uno strozzino potremmo immaginare. E c’era lì vicino anche “un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno”. Eppure la vedova, giunta allo stremo, trovò il coraggio di andarci, chiedendogli con insistenza: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Il giudice lì per lì e per molti giorni fece orecchio da mercante, ma poi, non potendone più del “tanto fastidio” che gli procurava la poveretta si decise, anche per togliersela una buona volta dai piedi, di farle “giustizia” (Lc 18,1-5).
L’episodio sembra contraddire l’insegnamento precedente: perché qui infatti, a differenza di prima, il giudice cattivo fa’ quello che nell’episodio precedente Gesù risolutamente si rifiuta di fare? Anche lì c’era una persona bisognosa di giustizia alla quale il fratello gli voleva magari sottrarre tutta l’eredità. Dove sta dunque il discrimine?
Certo, le due situazioni sembrano sulle prime identiche, eppure a rifletterci bene differiscono e di molto proprio nel profondo. Da una parte c’è la “cupidigia” di chi vuol sistemarsi le proprie cosucce come se la propria vita dipendesse “da ciò che egli possiede” (Lc 12,15). Dall’altra invece il bisogno di una donna che grida “giorno e notte” perché rimasta allo stremo e perché solo quel giudice era rimasto a poterle fare “giustizia”. Un esempio chiaro di come anche noi dovremmo gridare “giorno e notte” se riuscissimo ancora a conservare nel cuore quella “fede” e quella capacità “di pregare sempre, senza stancarsi mai”, che “il Figlio dell’uomo” teme di non trovare più “sulla terra” al suo ritorno (Lc 18,6-8). Da una parte si tenta di rattoppare con una “stoffa” nuova di zecca un “vestito vecchio” a cui ostinatamente si resta aggrappati, di introdurre “vino nuovo” in “otri vecchi” che non riusciranno mai a contenerlo (Mt 9,16-17); dall’altra invece si chiede con insistenza la sola “cosa” di cui c’è “bisogno” e che mai ci “sarà tolta” (Lc 11,41). E ciò che Gesù aveva a cuore lo dirà più avanti, dopo “avere preso posto a tavola” insieme “agli apostoli”: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio” (Lc 22,14-18). C’è tra noi chi percepisce ancora questo desiderio di compimento che abita prima di tutto nel cuore del Signore? Dov’è diretta – chiediamoci – l’ansia del nostro cuore, a rattoppare come possiamo ciò che abbiamo o ad attendere il mondo nuovo promesso? Nelle nostre eucaristie ci limitiamo al passato della morte e risurrezione del Signore o anche ne attendiamo la “venuta”? Il “mistero della fede” non va forse colto interamente e fino in fondo?
È questo il punto attorno al quale ciò che viene dal mondo e ciò che viene da Dio assolutamente divergono, diventando inconciliabili. E non è questo il motivo per cui Gesù si trova costretto a dirci di non essere “venuto a portare pace sulla terra …, ma divisione”, a metterci l’uno “contro” l’altro, a spaccare perfino il clima famigliare tra “padre”, “madre” e figli (Lc 12,51-52)? Solo partendo da questa consapevolezza, solo partendo dal dolore con cui Cristo si trova costretto a rivolgerceli, possiamo comprendere certi suoi rimproveri, certe sue spiazzanti durezze, arrivando persino a impedire l’umile gesto di un figlio che vorrebbe con amore precipitarsi a seppellire il proprio padre appena morto: se il “Figlio dell’uomo” è messo peggio degli uccelli e delle volpi, non avendo nemmeno una pietra “dove posare il capo”, persino i morti vanno lasciati in balia di altri morti, anche se a essere morta dovesse essere la persona più cara al mondo che abbiamo. Perché questo? Perché l’urgenza di Gesù è l’urgenza di una salvezza che lo porta a dire a ognuno di noi, seduta stante e in qualunque stato ci si trovi: “Tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”, il regno di colui che li fa risorgere i morti, altro che seppellirli! (Lc 9,57-60).
Il regno di Dio travolge tutto, scompagina tutto, è al di là di tutto quello che non solo riusciamo a fare ma nemmeno a immaginare. Come può anche solo immaginare ognuno di noi che Dio potrebbe far tornare in vita non solo il cadavere della persona morta a noi cara che abbiamo davanti agli occhi, ma persino tutti i morti della storia umana? Ma se la fede cristiana non è più affetta da questa ‘follia’ – se non attende più cioè la “risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, come dicono il Credo e la stessa Parola di Dio trasmessa per bocca di Paolo – è “vana” e “anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti” (1Cor 15,17-18).
Per comprendere meglio questo scarto tra ciò che desiderano gli uomini e ciò che desidera Dio, ho trovato questo pensiero di Romano Guardini: “Figuratevi un bastimento, uno di quei transatlantici colossali che sono come un piccolo mondo: congegni ed ordigni per gli scopi più disparati; uffici e responsabilità di ogni sorta; uomini buoni, dubbi e cattivi, e con essi tutto ciò che è la vita; energie del cuore e della mente, passioni, tensioni, lotte.
E supponiamo ad un certo punto uno sopraggiunga e dica: ciò che uno di voi fa è importante, e voi avete ragione di volerlo fare sempre meglio. Ora io voglio aiutarvi, non però a modificare l’una o l’altra parte del bastimento, ma unicamente a dirvi che state battendo una falsa rotta e che vi state avviando verso la catastrofe”. Gesù insomma non entra nel novero delle questioni con il buon senso umano dei governanti, o per insegnarci qualche nuova dottrina alla maniera dei filosofi, o per una qualche riforma di passaggio. No, egli ci sta piuttosto dicendo – conclude Guardini – che “tutta la nostra esistenza, con tutto ciò che in essa vi è di più o meno buono – economia, filosofia, natura, (ricerca scientifica, politica), etica, pietà – precipita lontano da Dio, verso la catastrofe. Gesù vuole dunque aprirci gli occhi affinché ce ne rendiamo conto. Vuol indicarci una base sulla quale metterci e dalla quale orientare nuovamente l’esistenza in Dio” (Il Signore).
Dietrich Bonhoeffer, nel concludere le sue riflessioni attorno all’etica cristiana si chiede: “Esistono soluzioni cristiane per i problemi del mondo?”. Dal modo di comportarsi del Cristo e da come egli risponde di fronte a sollecitazioni ben precise, l’impressione che si ha è che “la sua parola non è mai una risposta alle domande e ai problemi umani…, la sua parola non è mai essenzialmente determinata dal basso, ma dall’alto, non offre soluzione ma redenzione… La sua parola si pone al di là di qualsiasi problematica umana…, da un punto di vista del tutto diverso” (Etica).
Mentre gli uomini continuano a rivolgersi alle cose ‘penultime’, la parola di Gesù indica decisamente le cose ‘ultime’ della fede, l’irruzione improvvisa del regno di Dio e della sua giustizia.
Daniele Garota
(2.continua)