Koinonia Ottobre 2020


Il libro di Martino Morganti

 

LEGGENDO “EUCARESTIA RACCONTATA” (III)

 

La fine del tempio e l’avvento della convivialità si misurano proprio nel coinvolgimento della piena responsabilità di tutti, nella tensione verso una comunità tutta ministeriale, soggetto diretto della celebrazione. In questo processo, le CdB incontrano alcune difficoltà tra cui la più importante è quella della presidenza eucaristica, riservata al sacerdote. Si sottolinea nel testo di Morganti che le comunità devono molto a sacerdoti che sono stati spesso determinanti per la loro nascita e la loro formazione. Quello che fa problema è il ruolo sacerdotale che, spesso indipendentemente dalle intenzioni di chi ne è investito, viene attribuito ai preti. Alcune comunità hanno fatto, su questo argomento, una approfondita ricerca teologica da cui è nato il testo Una chiesa senza preti? Essere senza sacerdote significa necessariamente essere senza eucarestia? Le risposte sono diverse e sempre molto meditate. In genere, avendo un forte concetto del sacerdozio universale in forza del battesimo, si crede che ciascuno potrebbe presiedere l’eucarestia. Se non lo si fa è per la convinzione che “il significato dei vari servizi all’interno della comunità ecclesiale debba essere totalmente riscoperto rispetto alla chiesa universale” e che, comunque, la presenza di un prete ordinato costituisce un legame oggettivo della comunità con quella chiesa.

 

I preti che si uniscono a una comunità s’impegnano a vivere in essa “fratelli fra i fratelli, mettendo a disposizione di tutti tempo, energie e carismi...rinunciando al loro ruolo di potere .... e di cinghia di trasmissione delle classi dominanti”. La comunità, da parte sua, s’impegna ad aiutare il prete nel suo ‘ridimensionamento’, convinta che gli sia necessario un aiuto esterno per riconoscere la propria alienazione. Così ridimensionata la presenza del prete può diventare una ricchezza per la comunità che usufruirà dei servizi che il prete può fornire, più e a differenza degli altri membri: pensiamo alla sua esperienza biblica e a un servizio di “unità, di armonia, di strutturazione complessiva dei doni”, servizio che altri spesso non hanno né il tempo, né  la capacità di prestare.

Per arrivare a una tale desacralizzazione del prete, la comunità deve affrontare tre tipi di difficoltà, sempre in un contesto di dialogo e di confronto. 

 

La prima è di genere teologico e deriva dal fatto che, escludendo ogni residuo di tipo magico-tabuistico, si vuole però rigettare anche l’improvvisazione e l’arbitrarietà. Le posizioni che ne derivano sono di due tipi: una prevalentemente conservatrice che non accetta l’identificazione fra sacerdozio universale dei fedeli e sacerdozio ministeriale e rimanda al rapporto con la gerarchia che non va abolita, ma ‘costretta’ al confronto col Vangelo. Secondo  questa posizione, la celebrazione eucaristica “non è un semplice ritrovarsi insieme, non riguarda solo il rapporto fra i partecipanti, ma riconduce a ‘qualcosa d’altro’, rispetto al quale si definisce la funzione presbiteriale, non completamente traducibile in termini razionali”.  L’altra posizione è quella di chi sente “nel problema della ‘presenza reale’ il pericolo del ritualismo magico (le parole che agiscono sulle cose) e nella funzione presbiterale correlativa quella del sacerdote-mediatore di ascendenza pagana”. Di qui la necessità di “liberarsi da una cultura e da un linguaggio che rendono incomprensibile il gesto molto concreto di Gesù, riducendone lo spessore simbolico”.  La seconda difficoltà è di carattere psicologico ed è dovuta a “remore sedimentate nei tempi della storia e della formazione personale”. La difficoltà maggiore però è quella di tipo politico-ecclesiale, derivante dalla volontà di fare il possibile “per non tagliare i ponti con la gerarchia e soprattutto con i fratelli che vivono esperienze ecclesiali diverse”. Si accetta quindi dalla chiesa istituzionale, “almeno per ciò che non contraddice l’autentico volto della comunità, la prassi vigente del ministero sacerdotale”. Si ascoltano dichiarazioni di questo tipo: “Il tempo che stiamo vivendo, l’esigenza di un rapporto all’interno del mondo cattolico, la necessità di una costante crescita collegata con le altre CdB, ci impone scelte di prudenza e di responsabilità”...”l’obiettivo nostro non è quello di scandalizzare, ma di comunicare delle cose”...”Anche la provocazione ha un senso se prima o poi viene capita...”.

 

Si parla di ‘digiuno eucaristico’, un’esperienza subita da molte comunità nei momenti iniziali di più acuta conflittualità con la gerarchia e che viene addirittura consigliata dal teologo Severino Dianich, come “ testimonianza del valoroso convincimento che si è chiesa solo nella continuità apostolica e nella totalità cattolica”.

In conclusione le CdB si inseriscono nella riscoperta del sacerdozio universale “non tanto con la presunzione di sciogliere nodi teologici, quanto per far crescere una prassi nuova”, nella certezza che “il Signore è fedele e non lascia mancare i doni, i carismi, i ministeri che sono necessari per vivere il Vangelo e per testimoniarlo”. purie e all’interno della quale possono e devono avvenire tutti i cambiamenti possibili: è insomma il tipo di comunicazione con Dio a determinare anche il modo di pensarlo nel credere (“modus orandi modus credendi”).  Purtroppo c’è da dire che il modo di pregare prevalente è a circuito  chiuso e mondo a sé, mentre è più facile che porta ad un “modus operandi” piuttosto che ad una mentalità di cristiani adulti e liberi.

 

Donatella Coppi

(3. fine)

.

.