Koinonia Ottobre 2020


A proposito di Eucarestia...

IL  CORPO      

  

 Il messaggio cristiano (il buon-messaggio, (l’ev-angelo) è stato nella storia così pesantemente condizionato e spesso distorto dalle varie culture che l’hanno espresso che è divenuto purtroppo quasi incomprensibile in certi ambienti ed inaccettabili in altri, ma è comunque comprensibile a tutti gli uomini “di buona volontà”

Questo messaggio è che tutta la creazione è finalizzata ad una condizione esistenziale in cui ogni membro dell’umanità realizza definitivamente la “pienezza dell’essere”, tramite lo stabilirsi di una relazione tra l’uomo ed un Essere fonte di ogni Relazionalità Creativa, cioè  fonte dell’Amore: Dio-Padre.

Ma l’uomo non può relazionarsi direttamente con Dio-Padre, che è infinitamente trascendente l’attuale dimensione umana: Dio-Padre entra però in rapporto concreto con l’uomo nella relazione con il Figlio, Cristo, partecipe Egli stesso dell’umanità. Con tutti gli uomini, non solo con i viventi nel tempo storico della vita terrena di Cristo, perché Cristo – nella Chiesa, che è il Suo Corpo – si rapporta a ciascuna persona, di qualunque tempo. L’Eucarestia attualizza sacramentalmente ogni volta – nel tempo e nello spazio della Messa – questa realtà: essa infatti è il Corpo di Cristo. 

 

Il Corpo di Cristo

Nella Messa, all’ Offertorio, portiamo all’altare la nostra offerta, che è  tutta la nostra realtà umana (sofferenza, lotta, difficoltà, peccato, impegno, angoscia, divisioni, aspettative, gioie, speranze, disillusioni, frustrazioni, amore, ambivalenze, sicurezze, fallimenti, paure, lutti, odi, invidie, insofferenze, scoramenti, disperazione, solitudine, entusiasmi, rabbie, pietà, passione, compassione....)  Tutta questa nostra umanità è la materia - il pane-e-vino, che sono frutto della natura e delle nostre azioni - che lo Spirito di Carità “transustanzia” in Corpo di Cristo, la Chiesa.

È la dinamica fondamentale dell’essere cristiani: nella vicenda eucaristica la nostra umanità trova il suo significato esistenziale ed il suo trascendimento nella partecipazione al Corpo di Cristo. Ogni volta quest’umanità combattuta nell’agonia della vita, angosciata dalla vanità della morte, ridiventa Corpo, quello su cui “la morte non avrà vittoria”, quello che è il significato, il senso, lo scopo dell’esistenza umana.

Il momento dell’Offertorio riassume il passato, perché si offre quello che si è stati, la nostra umanità, la nostra sofferenza, la nostra vita. Ma offrire la propria vita non è facile: significa anzitutto averla “accettata”, perché si può offrire solo quello che si ha, quello di noi che si è accettato, superando il senso di ribellione alla vita che ci assale quando vogliamo essere diversi da quello che siamo. E si può offrire solo quello da cui si è disponibili a separarsi, superando la tentazione di tenerci strette “come un tesoro geloso” le nostre ricchezze (potere, ambizione, benessere, soddisfazioni...): quello che non siamo disposti a “vendere e dare ai poveri”, non entrerà a costituire il Corpo di Cristo.

Il momento della Comunione impegna il futuro, perché partecipando al Corpo di Cristo, cioè alla Chiesa, accettiamo l’impegno a partecipare al progetto d’amore che questa appartenenza implica. Alla comunione partecipiamo a tutta l’umanità, nella comunione riunita e fatta sacra dall’Eucarestia: cioè accettiamo la condivisione dell’umanità del prossimo, che è il massimo impegno etico, il “compimento di tutta la legge”

Dopo la Consacrazione osiamo dire – con Cristo, in Cristo e per Cristo - “Padre nostro...”. Non in altri momenti, e certo nessuno mai da solo può dire “Padre mio...”. Solo insieme alla comunità cristiana, la Chiesa, che è il Corpo del Figlio, si può pregare il Padre. È solo il Figlio che conosce il Padre, è solo tramite il figlio che si va al Padre; il Padre è ineffabile, inconoscibile, inattingibile: solo il Figlio Lo conosce e Gli parla.  E nel Figlio ci siamo noi, la comunità cristiana che è il suo Corpo, di cui Lui è il capo.  Quando recitiamo il Padre nostro lo facciamo assieme al Figlio che parla al Padre: siamo quasi introdotti nella pericòresi trinitaria.....

Naturalmente, cerchiamo di “prepararci” all’Eucarestia, ma poi ci si accorge che l’evento eucaristico è talmente grande e superiore alla nostra realtà umana che l’unico modo di viverlo seriamente è fare il silenzio dei pensieri ed il vuoto delle emozioni dentro di noi e lasciare che il Corpo di Cristo ci riempia ed agisca in noi con la sua potenza sacramentale.  Partecipare all’Eucarestia  dovrebbe indurre “tremore e timore” se uno crede veramente (ma veramente!) che “quello è il suo Corpo”: si tratta di ben altro che un’apparizione mariana, che il manifestarsi delle stigmate, che l’impronta della sindone: nell’ Eucarestia è presente Cristo!

Partecipare all’Eucarestia anche quando “non ce ne sentiamo degni”: non ne saremo mai “degni” per la grande distanza tra la nostra vita abituale e il mistero della presenza di Cristo entro di noi. È la condizione - “il carattere” - di esseri umani, la nostra appartenenza alla stessa umanità cui Cristo ha accettato di partecipare, che ce ne rende degni. Appartenere all’umanità significa che vogliamo, o almeno desideriamo, essere in rapporto di carità verso il nostro prossimo: è allora su questa condizione, minima ma sufficiente, che dobbiamo verificarci. Essere degni di partecipare all’Eucarestia non è tanto fondato su quello che siamo stati, quanto piuttosto su quello che vorremmo essere, su quale progetto di fraternità umana siamo disposti ad impegnarci.

 

Eucarestia e sofferenza

Quando la sofferenza ci schiaccia, ci distrugge, è difficile mantenere la disponibilità a partecipare alla Messa; riusciamo solo ad essere presenti, in fondo, come il pubblicano... ma anche così possiamo dare a Cristo la possibilità di partecipare Lui a noi, assumersi la nostra sofferenza, morire con noi perché possiamo risorgere con Lui.  Allora l’idea che anche la nostra nullità sia lo stesso chiamata alla costruzione del Corpo solleva lo spirito, riporta la gioia.

 Nella disperazione, nella miseria, nel fallimento, andiamo a Messa e non possiamo che sbattere sull’altare all’offertorio - quasi in faccia al Padre - la nostra umanità devastata: “Tu l’hai permessa, prenditene  carico...”. Ed è ancora un atto di fede, l’unico in quel momento possibile... Ma alla consacrazione quest’angoscia - questo pane - acquista comunque un senso, uno scopo, quello di partecipare al compimento della Passione diventando Corpo. E alla comunione prendiamo su di  noi  questa croce, questa Passione, questo esse-cum Cristo.

Il Pane e Vino dell’ Eucaristia è tutta l’ immensa sofferenza del mondo, in  ogni tempo, in ogni luogo, in ogni condizione. Tutta la sofferenza, il dolore, l’angoscia, la disperazione, l’ avvilimento dei malati, degli affamati, degli sconfitti, dei deboli, dei “pazzi”, degli scoraggiati, degli inermi, dei rifiutati. Tutta l’insopportabile, inaccettabile, ingiustificabile, assurda sofferenza  dell’umanità. Tutto l’incomprensibile  dolore, violenza, disumanizzazione, dei  bambini,  negati  come esseri umani,  violentati nel corpo e nell’anima,  deprivati   della speranza, costretti in situazioni   infernali addirittura prima di aver conosciuto la vita. Questa è la materia del Corpo di Cristo. Questo è  il Pane-e-Vino su cui la discesa dello Spirito opera la Transustanziazione. E solo così questo Pane e Vino può avere senso, diventa accettabile: solo  così  quest’immane sofferenza non genera disperazione, rifiuto dell’ esistenza, ribellione verso Chi questa vita di dolore ha permesso che fosse. Solo così  la sofferenza non è sterile: questo universo di dolore geme le sue doglie del parto  per generare il Regno che darà giustificazione a  tutta la sofferenza della storia.

 

La messa della vita  

Ogni atto relazionale, ogni rapporto tra esseri umani può essere una “celebrazione eucaristica”. In ogni incontro “di due o tre in Suo nome” è presente Cristo e da ogni incontro può venire l’impegno ad un reciproco miglioramento, che è lo scopo del Suo Corpo, la Chiesa. Si può cioè agire la consacrazione e la comunione.

Noi riusciamo - forse - a partecipare una volta a settimana all’eucarestia sull’altare, che fonda il senso di tutte le relazioni umane, ma siamo ancora molto lontani dal partecipare all’Eucarestia in ognuna delle relazioni umane, che pure ne sono l’effettiva sostanza. Dovremmo sempre ricordare la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità insite in ogni rapporto umano.

Occorre fare della propria vita una celebrazione eucaristica, per cui la  nostra umanità, frutto della natura e delle nostre esperienze, si rende disponibile all’espressione dell’ amore, diventando così Corpo di Cristo. L’Eucaristia sull’altare è un sacramento, “segno efficace” della presenza  di Cristo. L’ Eucaristia della vita è di più: “è” la presenza di Cristo.

Purtroppo normalmente non riusciamo a fare della vita una celebrazione eucaristica: per questo lo Spirito  viene in nostro aiuto  e nell’ epiclesi attua Lui sull’ altare la  presenza di Cristo. Ma la vera Messa è quella della nostra vita. Per fare questo siamo nati. L’ Eucaristia della vita non è una pratica devozionale, un pio esercizio  di spiritualità, come una volta “la messa secca” di buona memoria (l’imitazione  della messa fatta dai fedeli colti non consacrati). L’eucaristia della vita è la reale, concreta, ontologicamente vera, attuazione del Corpo di Cristo in questa dimensione esistenziale terrena.

Come in un corpo vivente ogni cellula ha il DNA che definisce tutto l’organismo,  così ogni essere umano – cellula del Corpo, come diceva  S. Paolo – può realizzare con la sua vita la dimensione esistenziale di Cristo, essere Cristo. Questa è la sconvolgente grandezza del messaggio cristiano, del buon-messaggio, dell’evangelo.

Celebrare l’Eucaristia nella vita è agire il Perdono e l’Amore. Con il Perdono il male che è stato non è stato più, cambia sostanza, diventa bene, come nella consacrazione in cui il pane diventa Corpo. Con l’Amore si costruisce il bene futuro. Come nella comunione, per cui la nostra partecipazione al Corpo ci impegna   alla relazionalità creativa, che è fonte di bene.

Ma amare non è “vogliamoci bene” e perdonare non è “scordiamoci  il passato”:  Perdono e Amore sono una modalità dell’ agire umano molto più esistenzialmente significativa, costruttiva, produttiva, difficile  anche. Perdonare significa annullare il male che è stato; amare significa costruire il bene che ancora non c’è.  Annichilire quello che è stato/creare quello che non c’è: operazioni divine per eccellenza.  “Io faccio nuove tutte le cose”. Ognuno di noi è chiamato ad essere sacerdote, che può celebrare  tutti i giorni degli atti  sacramentali per  i quali  la  nostra umanità diventa Chiesa, Corpo di Cristo.

 

Edmondo Cesarini

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