Koinonia Settembre 2020


LA PAROLA DI DIO RIVIVE NELLA VITA: LA TRADIZIONE

 

Un’impressione superficiale identifica parola scritta e parola morta. Invece, scrivere non è congelare, bensì custodire e trasmettere. La bibbia è la conferma più grandiosa di questo fatto. Nessuna parola è stata, nel corso della storia umana, più viva di quella biblica; nessuna è stata più incessantemente e appassionatamente rivissuta e attualizzata.

Il fenomeno dell’attualizzazione non comincia con il concludersi della rivelazione biblica, non riguarda soltanto la sua ripresa dentro la successiva tradizione ecclesiale. Esso è già interno alla bibbia stessa, momento costitutivo della formazione del suo testo. Infatti i libri che compongono la bibbia, lungi dall’essere ogni volta frutto di un nuovo e inedito evento rivelativo, sono in buona parte riprese e ripensamenti degli eventi originari e degli scritti che li hanno fissati: sono «tradizioni» che si vengono formando lentamente, al punto che un grande esegeta ha potuto scrivere una teologia dell’Antico Testamento come storia delle sue tradizioni (e, per il Nuovo Testamento, ne abbiamo visto un esempio nella formazione dei vangeli). Ogni tradizione è rinnovata creazione, non stanca ripetizione di cose già sapute. A garantire questa novità, quest’originalità di attualizzazione, è la “situazione vitale” ogni volta diversa; lo stesso evento o testo, riletto in prospettiva e con preoccupazioni differenti, rivela aspetti prima ignorati, consegna una ricchezza di senso rimasta fino allora nascosta. Così, per prendere uno degli esempi più fecondi, l’esodo di Israele dall’Egitto viene visto da un profeta in esilio come la promessa del nuovo esodo da Babilonia a Gerusalemme; viene riletto da un altro profeta, dopo il ritorno e in vista della ricostruzione, come esodo esistenziale, continuo cammino di conversione del popolo; e ogni anno viene reso presente liturgicamente nella celebrazione pasquale.

Ma lo stesso Nuovo Testamento che cos’è se non un’attualizzazione integrale dell’Antico? In Gesù la comunità cristiana vede realizzate non solo le profezie messianiche ma l’intera economia di salvezza delineatasi in Israele; come dirà Agostino: ”Nell’Antico Testamento è nascosto il Nuovo, nel Nuovo Testamento è svelato l’Antico”. In altre parole: ciò che avviene in Gesù reinterpreta e mette pienamente in luce ciò che era avvenuto nella storia d’Israele. Certo, si tratta di una reinterpretazione tutta speciale, che produce un nuovo senso che supera e invera quello dei testi originari; si tratta di una nuova origine e di un nuovo fondamento: di quello che chiamiamo, appunto, il Nuovo Testamento. È attorno al Nuovo Testamento che nasce il nuovo popolo di Dio, la chiesa; e sarà ormai al Nuovo Testamento che essa si rivolge per cercarne una continua attualizzazione.

È vero, l’attualizzazione cristiana non può superare e inverare il Nuovo Testamento come questo ha fatto con l’Antico, perché in esso è contenuta la rivelazione definitiva di Dio; ma può sempre farlo rivivere: far rivivere la parola di Dio per vivere di essa. Punto di partenza sono, ancora e sempre, le esigenze vitali della comunità di fede; le quali mutano e si alternano, pur presentando alcuni tipi fondamentali e di più facile ricorrenza.

Nei primi secoli vediamo svilupparsi una lettura dottrinale della bibbia, sollecitata dalla necessità di far fronte alle insorgenti eresie. La formulazione dei grandi dogmi trinitario e cristologico è lontana, quanto a linguaggio, dal tenore delle confessioni bibliche di fede; ma l’esigenza a cui essi rispondono è la stessa: dare alla propria adesione a Cristo un’autocoscienza all’altezza degli interrogativi e delle difficoltà dell’epoca.

Accanto all’istanza dottrinale va facendosi strada, e diventa sempre più intensa, l’istanza direttamente spirituale: nutrirsi della parola di Dio per sviluppare la vita di fede. È su questa linea che si disegna una distinzione che avrà un’enorme fortuna: tra il senso letterale della bibbia e il suo senso spirituale; distinzione che, pur nella varietà delle sue applicazioni e dei suoi risultati, presenta una struttura unitaria di derivazione filosofica. L’uomo e il mondo sono realtà a due livelli: visibile e invisibile, contingente ed eterno, corpo e anima. Questa concezione antropologica e cosmologica diventa, attraverso un grande Padre greco come Origene, criterio dell’interpretazione biblica: bisogna andare oltre il significato letterale del testo, per attingere il suo senso spirituale; e questo senso che può, nutrire l’anima e portarla alla perfezione cristiana. Infatti, i nemici di cui la bibbia parla a ogni pagina (nemici di Israele, dei giusti, di Gesù...) altro non sono che i peccati e i vizi, contro cui l’anima ingaggia il suo combattimento con l’arma della parola di Dio. E tutte le vicende di Dio con il popolo eletto non sono che immagini del rapporto tra Cristo e l’anima, del cammino, che questa è chiamata a compiere dal peccato alla suprema unione di contemplazione e d’amore. .

Attraverso S.Gregorio Magno, quest’interpretazione passa al monachesimo occidentale e diventa il lievito di tutta l’esegesi monastica medievale. Lettura liturgica della bibbia (opus Dei) e lettura personale nella cella (lectio divina) sono non solo i due tempi e luoghi dell’interpretazione biblica ma le due coordinate che ne determinano lo stile: il vero senso della bibbia è, in sintonia con la chiesa, il nutrimento del cuore, dell’affettività religiosa.

Con il sorgere della teologia scolastica ritorna l’interesse per una interpretazione di taglio più dottrinale; ma, a differenza dei primi secoli, comandata non tanto da una volontà di difesa contro le eresie quanto da un bisogno di penetrazione intellettuale (credo per capire), mediato soprattutto dalle categorie della filosofia aristotelica. Contro questa contaminazione insorge Lutero, che propugna un ritorno alle categorie bibliche stesse, una “interpretazione della bibbia attraverso la bibbia”.

Con il Concilio di Trento e la riforma cattolica che esso promuove prevale un interesse pastorale: la bibbia diventa maestra di buona condotta, strumento per guidare il popolo cristiano nella pratica dei comandamenti di Dio. Ma intanto si è venuta determinando per la chiesa una nuova situazione di lotta: non più contro le eresie dentro la confessione di fede ma contro il progressivo allontanarsi della società dalla fede rivelata (illuminismo, laicismo, positivismo) e poi da qualsiasi fede religiosa (ateismo). Allora torna a imporsi l’interesse apologetico; la bibbia diventa, insieme con la tradizione ecclesiastica e con la “ragione”, un serbatoio di argomenti in favore della dottrina cattolica.

È soltanto dopo la seconda guerra mondiale che questo quadro angusto e depauperato di uso della parola di Dio esplode, con il “ritorno alle fonti”: insieme con la liturgia e la patristica, la bibbia torna a essere accostata per se stessa, valorizzata e utilizzata secondo quella ricchezza di senso che essa contiene e vuole donare. Tre sono le caratteristiche che questo risveglio va progressivamente assumendo: la saldatura tra senso letterale e senso spirituale, resa possibile dall’affinarsi degli strumenti di analisi; lo spirito critico, con cui si scevera nel testo biblico il suo messaggio autentico dalle formulazioni - ineliminabili ma sempre imperfette - che esso si è dato; lo slargamento del contesto vitale: non è più soltanto la “vita spirituale” che viene alimentata dalla lettura della bibbia; è ogni situazione umana a venirle accostata: soprattutto quelle situazioni di oppressione, di sofferenza, di ingiustizia, su cui il testo biblico può gettare una luce di speranza e di mutamento. Ma qui siamo ormai all’oggi.

La rapidissima retrospettiva sulla storia dell’interpretazione biblica voleva soltanto confermare il rapporto tra parola di Dio e vita anche in questo secondo momento: oltre che nel suo farsi come complesso di scritti - la bibbia  - anche nel suo essere custodita e operante come complesso di interpretazioni - la tradizione.

 

Armido Rizzi

in Parola di Dio e vita dell’uomo, Cens, 1986, pp. 20-24

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