Koinonia Settembre 2020


IL POTERE DEL MONDO E I SUOI INGANNI (I)

 

Parte prima: Vigili come i “serpenti”

 

A leggere con attenzione i Vangeli si resta allibiti dal modo in cui Satana, là “nel deserto” – con potenza simile e contraria potremmo dire, a quella dello “Spirito” che appena “quaranta giorni” prima ve l’aveva condotto (Mt 4,1-2) - trascinò improvvisamente Gesù, il Messia, il Figlio di Dio e Dio egli stesso, prima “nella città santa… sul punto più alto del Tempio” e poi “sopra un monte altissimo” mostrandogli “tutti i regni del mondo e la loro gloria”, presumendo di offrirglieli lì seduta stante in cambio di un minimo cenno di adorazione (Mt 4,5-9).

Anche soltanto da questo (non è necessario attendere l’ora del Calvario), possiamo comprendere chi è che comanda qui e ora nel mondo, e con quale potenza il “principe di questo mondo”, fino al giorno in cui “sarà gettato fuori” (Gv 12,31), tutti ancora ci tenti e seduca sottomettendoci ai suoi piedi, fino a indurci a morire nel grasso del nostro benessere, come dirà il diavolo nell’incubo a Ivàn Karamazov: “L’uomo si esalterà in un orgoglio divino, titanico, e apparirà l’uomo-dio… Ognuno saprà di essere per intero mortale, senza risurrezione possibile, e accoglierà la morte con tranquilla fierezza, come un dio” (F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov). E già Paolo e l’autore dell’Apocalisse, a saperli leggere fino in fondo, dicono come il mondo intero, soprattutto nel tempo ultimo, sarà in balìa delle seduzioni di Satana, come l’umanità tutta, senza più fede nel Cristo, finirà con l’inchinarsi pedissequa alle promesse e ai prodigi dell’“avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio” (2Ts 2,4).

 Ma veniamo al famoso episodio evangelico con al centro dell’attenzione uno degli imperatori di turno: Cesare. E ci accorgiamo subito con quale astuzia il potere del mondo cerca da sempre di avere la meglio proprio opponendosi a Dio e di come soltanto tenendone conto con occhi bene aperti e con altrettanta astuzia ci si possa davvero difendere, così come in quell’occasione cercò di difendersi Gesù. Altro che diplomatico stare coi piedi su più staffe pur di stare a galla!

Ne parlano tutti e tre i vangeli sinottici, ma prendiamo intanto quello di Luca. La bocca da cui esce la domanda secca a Gesù è quella dei professionisti del potere religioso del suo tempo, “gli scribi e i capi dei sacerdoti”, dunque di coloro che non solo si scandalizzavano davanti a quello che egli diceva e faceva, ma che “in quel momento” stavano addirittura cercando “di mettergli le mani addosso”. E se non l’avevano ancora fatto era per un motivo soltanto, perché avevano “paura del popolo” (Lc 20,19). Perché ne avevano paura? Perché il popolo in quel momento amava Gesù. Certo, verranno presto i giorni in cui anche il popolo lo abbandonerà in massa gridando ripetutamente col dito contro: “Crocifiggilo!” (Mc 15,13-14), come lo abbandonerà Dio del resto e senza che gli sia chiaro il “perché” (Mc 15,34), intanto però il popolo era ancora dalla sua parte, fino a renderlo intoccabile.

A un certo punto “si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore” (Lc 20,20). La domanda assai provocatoria che gli fanno cerca fin da subito di metterlo all’angolo, infatti sarebbe finito male in ogni caso: davanti al popolo se avesse risposto sì o davanti a Cesare se avesse risposto no. Ed erano tempi in cui potevano decidere d’ammazzarlo in quattro e quattr’otto, come poi riusciranno a fare di lì a poco e nel peggiore dei modi. Del resto sarà sulla croce, là dove “il male più grande è stato inflitto al bene più grande” – dice Simone Weil – che davvero il Cristo renderà “a Cesare ciò che era di Cesare e a Dio ciò che era di Dio” (Quaderni, IV).

E farà questo tuttavia invocando fino all’ultimo il Padre di evitargli il supplizio e la morte: Gesù era venuto nel mondo per regnare non per essere crocifisso, amava i banchetti e la vita, la compagnia dei bambini. Il mistero di Gesù avrà pieno compimento quando finalmente diventerà Dio e re insieme e solo così potrà tornare “a giudicare i vivi e i morti” per un regno tutto suo che “non avrà fine”, come dice il Credo. Pensare il contrario è rendere il cristianesimo non un dramma ma una commedia a lieto fine, dove tutto resta scontato fin dall’inizio in una Chiesa né fredda né calda che si sente ricca e bisognosa di nulla con “abiti bianchi” per nascondere la propria “vergognosa nudità” (Ap 3,17-18). Non solo nel Getsémani ma anche qui e ora si è nel dramma e nella speranza, non nella certezza, e solo così possiamo continuare a far compagnia al Signore che vive ogni giorno la sua “agonia sino alla fine del mondo” come intuì Pascal (Pensieri).

Ma allora la domanda di fondo che dobbiamo porci è proprio questa: è in grado la Chiesa di restare sveglia con Gesù condividendo fino alla fine la sua agonia? Di restare cioè appesa alla croce del Cristo in comunione col suo corpo e col suo sangue, facendo memoria della sua morte e risurrezione, nell’attesa della sua venuta? Venuta grazie alla quale anche i morti risorgeranno e grazie alla quale anche al grido e all’invocazione delle “anime” che stanno “sotto l’altare”, cioè alle “anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso” (Ap 6,9-10), sarà data risposta, rendendo finalmente a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio? Oppure la Chiesa ha fatto di tutto pur di sfuggire a questo tremendo compito, finendo addirittura per mandargli “una delegazione” che gli riferisse il desiderio infondo più vero e nascosto del proprio cuore: “Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi” (Lc 19,14)?

E non capiremmo a fondo la risposta immediata di Gesù se non partissimo da quel suo rendersi “conto della loro malizia”. Gesù non risponderà infatti se non facendo a sua volta e con molta astuzia una domanda: “Mostratemi un denaro: di chi porta l’immagine e l’iscrizione?”. Risposero: “Di Cesare”. Ed egli disse: “Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio’. Così non riuscirono a coglierlo in fallo nelle sue parole di fronte al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero” (Lc 20,19-25).

È significativo che Gesù non entri nella trappola tesa parlando di liceità o meno del tributo, ma soltanto sposti con arguzia il quesito attorno all’immagine impressa sulla moneta, immagine da semplicemente restituire a colui del quale è immagine. Gesù spiazza i suoi avversari trascinandoli su un altro piano, quello di chi non vuol avere nulla a che fare col denaro e col potere di questo mondo, religioso o politico che sia. Non dice infatti datemelo, ma semplicemente mostratemelo, fatemelo vedere. Come non dice datelo, ma semplicemente rendetelo. È la posizione di chi addirittura il denaro non vuole neppure toccarlo con un dito, ma solo guardarlo da lontano affinché prima possibile venga restituito a colui al quale appartiene.

In altra occasione e per non scandalizzare i governanti del Tempio, Gesù dirà a Pietro lì su due piedi: “Va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala loro per me e per te”. Egli è nulla di meno che il Figlio di Dio, e coloro che sono “figli” posseggono un potere di libertà e superiorità di cui nulla sanno gli “estranei” (Mt 17,26-27).

C’è una “differenza infinita” tra Dio e Cesare, tra Dio e il potere di questo mondo, che dev’essere compresa e che Gesù farà fatica a far comprendere persino ai discepoli, figuriamoci a noi. Di qui la sua indicibile sofferenza, dice Kierkegaard: “Non passò un giorno, non un giorno né un’ora, senza che l’incomprensione non lo crocifiggesse, come essa sola può farlo e con un martirio almeno tanto straziante quanto la sofferenza fisica” (Esercizio del cristianesimo).

C’è ancora oggi chi mette in evidenza una sorta di latitanza della Chiesa attorno alle questioni politiche che ogni volta emergono qua e là nel mondo. Ma la fede ha forse a che fare con l’organizzazione di questo mondo o non piuttosto col seguire colui che quando “la gente” si rese conto che era “il profeta” che doveva venire “nel mondo” e cercò di “prenderlo per farlo re”, non batté ciglio e “si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo” (Gv 6,14-15)? Ma non aveva fatto esattamente così anche quando rifiutò di prostrarsi dinanzi a chi, da molto in alto, gli offriva “tutti i regni del mondo e la loro gloria” (Mt 4,8-9)?

E però come mai quando il governatore romano gli chiede “Dunque tu sei re?”, egli non nega e risponde: “Tu lo dici: io sono re”? E per comprendere ciò che qui Gesù voleva intendere non basta soffermarsi sul fatto che egli aveva già chiarito a Pilato che il suo regno non era di “quaggiù”, “di questo mondo” (Gv 18,33-37), occorre altro, occorre tenere conto della compassione con cui Pilato lo guarderà dopo averlo fatto “flagellare” e avere visto come i soldati, sbeffeggiandolo di loro iniziativa gli avevano messo sul capo “una corona di spine” e “un mantello di porpora addosso” dicendogli: “‘Salve, re dei Giudei!’. E gli davano schiaffi”. È a quel punto infatti che il governatore della Giudea (unico personaggio ricordato nel nostro Credo, oltre a quello della Vergine Maria ) “uscì fuori di nuovo” dicendo a coloro che l’accusavano: “Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna”. E subito uscì fuori anche Gesù ma Pilato, indicandolo, non disse: ‘Ecco il vostro re’, ma semplicemente: “Ecco l’uomo!” (Gv 19,1-5). E fece così, dice Kierkegaard. “per eccitare compassione e partecipazione”, poiché davvero ciò che Gesù portò nella sua intera vita fu “la dura croce dell’incomprensione” (Diario VII A 144). Una croce tremenda che facciamo fatica anche solo a immaginare. Compassione, ora come allora, è percepire il dolore col quale Gesù davanti alle nostre vane discussioni in cerca di questa e di quella soluzione troppo umana, è lì ancora con dolore a dirci: “Non capite ancora e non comprendete?” (Mc 8,17).

E non è scandaloso che per noi sia qui modello addirittura un governatore pagano, esattamente come lo fu sotto la croce “il centurione”, che arriverà a dire, “‘avendolo visto spirare in quel modo: ‘Davvero quest’uomo era Figlio di Dio’” (Mc 15,39)?

 

Daniele Garota

(1.continua)

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