Koinonia Settembre 2020


Per una teologia della sconfitta

 

“Come mai tu che sei Giudeo chiedi da bere a me che sono Samaritana? Perché i giudei non van d’accordo con i Samaritani”. Gesù le rispose: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: dammi da bere, tu stessa ne avresti chiesto a lui, e ti avrebbe dato dell’acqua viva” (Jo., 4,9-10).

È un episodio, questo riportato dal solo Giovanni, che deve far pensare chi oggi si pone il problema di comunicare il messaggio evangelico “alle nuove generazioni e in genere a quanti se ne sentono esclusi”[1]. Noi abbiamo un’acqua di cui oramai non si avverte più la sete: abbiamo possibili risposte per domande che non si pongono più. Tanto più che oggi ci poniamo di fronte ai nostri interlocutori, nella posizione scomoda di sconfitti. Non possiamo infatti ignorare che la “fede”, di cui vorremmo farci portatori, è una “fede” che nel duro scontro con la storia ha subito una serie di sconfitte lancinanti.

La prima, immedicabile e immedicata, è nella mancata seconda parusia del Cristo, annunciata, promessa, ritardata, allegorizzata, trasfigurata in un annuncio profetico... ma comunque, finora, mai comparsa nell’orizzonte della storia. E poi non possiamo tacere il travisamento che dell’annuncio primitivo del Cristo e dei primi discepoli si è verificato nel corso dei secoli; già a pochi decenni di distanza dal passaggio di Gesù sulla terra, tramontata l’era apostolica e iniziato il tortuoso cammino del confronto del cristianesimo col pensiero e la filosofia greca e stabilito l’ancor più tortuoso e snaturante processo simbiotico del nuovo credo con la incancrenita struttura di potere dell’Impero romano, la “buona novella” aveva oramai esaurito la più parte della sua spinta propulsiva e diveniva la nuova indispensabile stampella ad un potere orami logoro e cascante.

Ma nella dinamica contraddittoria con cui il cristianesimo si è posto di fronte alla realtà politica e alla culturale pagana, non va marginalizzato il contributo enorme che scrittori cristiani, significativamente di terra africana come Tertulliano, Cipriano, Agostino stesso, hanno dato al rinnovamento della lingua latina, all’arricchimento del suo potenziale espositivo: basti la celebre affermazione di Concetto  Marchesi, secondo cui “Tertulliano ha creato un nuovo documento e monumento della potenza espressiva della lingua latina”[2].

Il cammino della cristianità si è costantemente divaricato, e forse ciò, data la immodificabilità della natura umana, era inevitabile, tra spinta innovativa, progressiva, rivoluzionaria, e tendenza alla conservazione, alla tranquillizzante giustificazione dell’ordine esistente, rinviando ad un miticizzato futuro il superamento di tutte le contraddizioni. Le torsioni non poi tanto eclatanti – se vogliamo uscire dalla dimensione cronachistica, come l’oltre mezzo secolo trascorso esigerebbe - della chiesa post conciliare, per venire ai nostri tempi, stanno a confermare la capacità ormai acquisita della chiesa-sistema di ammortizzare i conati progressisti e di annientarli, quasi fagocitarli in un quietismo rassicurante ammantato di tradizione.

È indubbio che chi ha vissuto la propria giovinezza nel periodo post bellico che va dagli anni ‘50 alla prima metà dei ‘70, si è nutrito di speranze ed aspettative enormi: sembrava, allora, imminente ed inarrestabile, una progressiva evoluzione della società, la costruzione di un ‘nuovo mondo’ appariva come una prospettiva a portata di mano. Poi abbiamo dovuto fare i conti con la realtà, con le svolte inattese della storia, che non procede mai secondo percorsi lineari ed irreversibili, ma riserva, ahimè, feroci ed impietose lezioni, a chi aspira ad un rinnovamento radicale dell’esistente.

In questo contesto le parole di Paolo, 1 Cor. ,11, 23-26, evocate nel citato intervento su Koinonia -”Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me» -  non possono avere lo stesso impatto pronunciate a duemila anni di distanza, rispetto al significato fresco di vita, dette e scritte a pochi decenni da quella cena rievocata: la memoria era distanza di poco tempo rivitalizzata dal rito, oggi il rito ha, o può sembrare avere, solo la ripetizione stanca e rassegnata di un cerimoniale.

E allora siamo senza speranza? Non credo. I militanti reduci dalle sconfitte devono prendere atto delle forze in campo; dobbiamo farci forti delle nostre stesse debolezze e della convinzione che la sconfitta non è sinonimo di torto. Raramente nella storia chi è dalla parte della ragione ha anche la forza per far prevalere le ragioni del bene. Il male anche se è più forte resta sempre tale e il bene, anche se privo di forza per prevalere, resta assolutamente bene.

Fermi su tale convinzione, ritengo indispensabile tenere vivi quei mille fuochi che, per quanto isolati, minoritari, sparsi e quasi invisibili nella uniformità sconcertante della realtà globalizzata, continuano comunque la loro esistenza per quanto precaria e contraddittoria (penso alla recente vicenda di Bose ma non solo…). È indispensabile che tali realtà, effettivamente ‘il sale della terra ‘, continuino a sopravvivere, non nella prospettiva impensabile e non auspicabile di sostituire la “chiesa trionfante”, ma di mantenere comunque viva la scintilla del primitivo e originale incontro di Gesù con il mondo.

Oggi la prospettiva di ‘convertire’ va declinata nella direzione di volgere il nostro sguardo di cristiani nella direzione della speranza, della possibilità, della certezza che il ‘non ancora’ è quello che ci salva dalla prospettiva, sempre più spaventosamente attraente, del niente.

La mancanza di prospettiva, la rinuncia alla speranza, risulta provocatoriamente vincente in quanto deresponsabilizza: la dismissione dei valori, propugnata ripetutamente come nuova frontiera di libertà e di superamento di frontiere divisive (il simbolo più concreto e mediaticamente funzionale è stato e continua ad essere il crollo del muro di Berlino), si è rivelato rapidamente per quello che, ovvero l’azzeramento di ogni idealità,  l’assenza di una visione ‘profetica’ della vita, intesa come percorso verso una meta da raggiungere, da realizzare, anche attraverso sacrifici e rinunce, attraverso la lotta; oggi a molti, forse ai più, l’esistenza appare come un possesso precario da bruciare in fretta, ottenendo il massimo subito con il minimo sforzo, senza l’imbarazzo di regole da seguire, di valori da rispettare ( banalmente, la natura, l’ambiente…) per esaltare la immagine di sé –falsa come ogni immagine di superficie-  da ostentare attraverso i moderni strumenti di comunicazione. Apparire è il fine ultimo, ad ogni costo. Quanto accade in questi giorni all’isola di Ponza, come riportato da tv e giornali, è solo un esempio, solo uno, della direzione terrificante che la nostra gioventù – quella cui dovremmo destinare il nostro annuncio di speranza e di salvezza, sta percorrendo. Non senza, aggiungo, la sotterranea regia di chi da questo genere di (non) vita trae non poco lucro.

In un tale quadro, parlare di “eucarestia” può sembrare incomprensibile, addirittura fuorviante. Nessun dubbio che quella è ‘l’acqua’ che siamo chiamati ad offrire, ma come invitare a bere chi non sa di avere sete, chi ormai ignora l’esistenza stessa dell’acqua, saziato o forse meglio saturato da altre sostanze non alternative, ma distrattive? Per tornare al passo evangelico di apertura, c’è da dire che sembra più sorpresa, sconcertata, la Samaritana, dalla capacità profetica del suo interlocutore in grado di ricostruire il suo passato e di conoscere il suo presente imbarazzante, più che desiderosa di attingere a quell’acqua viva; tanta è la distanza tra il suo sistema di vita e di (dis)valori, rispetto alla prospettiva manifestata da Gesù, di un cambio di paradigma totale.

La solitudine del Cristo appare, nella seconda parte dell’episodio, anche in rapporto ai propri discepoli: loro lo invitano, semplicemente, a “mangiare” Lui, sconsolato, replica: “Io mi nutro di un cibo che voi non conoscete… il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato”. Richiamandosi ad un proverbio Gesù ricorda che “altri semina e altri miete”, tuttavia “chi miete riceve la mercede e raccoglie il frutto per la vita eterna; sicché chi ha seminato ne gioisca come chi miete”.

L’incontro tra i progetti del Cielo e le strutture umane è sempre contraddittorio; il progetto del Cielo non è nella storia; questa riguarda esclusivamente i modi in cui gli uomini si sono rapportati ad esso che resta dunque immutabile, fuori dello scorrere del tempo.Evidentemente questo è il tempo della semina, e noi a questo siamo chiamati, I frutti che non vedremo saranno tuttavia la nostra gioia.

 

Ezio Dolfi

 



[1] Koinonia-forum 661, p. 1

 

[2] C.Marchesi, Storia della letteratura latina, VIII ed., nuova rist.,Mi,1992, p. 427.

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