Koinonia Settembre 2020


Il libro di Martino Morganti

 

LEGGENDO “EUCARESTIA RACCONTATA” (II)

  

Liturgia penitenziale

La celebrazione eucaristica inizia con un momento penitenziale che viene considerato “non più tanto come acquisizione passiva di perdono per la coscienza individuale, quanto come accoglimento di un dono, cioè come impegno personale e comunitario per la costruzione del perdono e della pace. Sacramento del perdono diventava la vita stessa, la liturgia riacquistava il suo carattere di ‘segno efficace’ dentro la vita”. Questo in accordo con i dati neo-testamentari che concordano nell’affermare che, ”quando ci si riunisce per la cena del Signore, la Chiesa celebra il mistero della propria riconciliazione, riconciliazione che si è compiuta una volta per tutte nella pasqua di Cristo e che si attualizza nel sacramento eucaristico, nel quale Dio si manifesta e si dona come perdonante”.  Conseguenza di questa convinzione, per cui l’eucarestia rimette i peccati, è il superamento della pratica della confessione auricolare, considerata un fatto privato, di stampo moralistico in cui la persona rimane completamente passiva. Se mai, in alcune CdB, per superare la tentazione dell’auto-giustificazione e di essere portati a farsi delle illusioni su se stessi, di tanto in tanto si confessavano i propri peccati a un fratello o una sorella della comunità.

 

Liturgia della Parola

Le letture bibliche vengono scelte con grande libertà, a volte seguendo il metodo della “lectio continua”, a volte adottando il lezionario cattolico perché ha il pregio di raccogliere, sui tre anni, una gran parte dei libri biblici, e poi consente di rimanere in sintonia con i fratelli della parrocchia. È diffusa la pratica della preparazione infra-settimanale delle letture festive da parte di un gruppo incaricato, o di diversi gruppi che si alternano in questo servizio, “non per fare opera culturale o storica, né opera teologica per imbalsamare in concetti le parole, ma per cercare di renderle vive e operanti all’interno e soprattutto fuori di noi”.  Oltre alle letture bibliche, vengono scelte anche letture agiografiche o patristiche, ma spesso anche testi concernenti problemi attuali di ordine socio-politico. Si ascoltano testimonianze dirette dal mondo del lavoro o voci di popoli in lotta per la propria liberazione, perché “il mistero pasquale ha pieno diritto di cittadinanza in ogni uomo e in ogni situazione di oppressione, ingiustizia e sofferenza, situazioni che invocano liberazione e resurrezione”. E perché “sui criteri chiesastici e canonici devono prevalere i criteri evangelici di una buona notizia annunciata indistintamente a tutti: la Parola di Dio non si legge solo nella Bibbia, ma nella storia del mondo e, in particolare, nella storia contemporanea” in cui dobbiamo e possiamo leggere i segni dei tempi.

 

L’omelia

La comunità è il soggetto della condivisione della Parola “vissuta nella libera partecipazione e nel pieno coinvolgimento di tutti. Si lascia alle spalle il monologo riservato al clero,  per approdare alla coralità, alla parola restituita a ogni partecipante.” Sappiamo dalle lettere di Paolo che questo avveniva nelle comunità a cui indirizzava le sue lettere e alle quali egli chiede soltanto che “lo si faccia in modo che l’assemblea ne riceva un beneficio e che tutto sia fatto con dignità e ordine”. Il principio di riservare la parola al clero, con la proibizione ai laici di parlare, risale a Leone Magno che lo impose in occasione di un abuso.

Per approfondire la questione, una ricerca di una CdB fa appello ad alcuni esperti che si pronunciano sulle conseguenze all’interno di una comunità, di un discorso ‘unidirezionale’. Per il semiologo, il fatto di non conoscere come l’ascoltatore reagisce alle parole del sacerdote porta spesso quest’ultimo a “non centrare il bersaglio”. Per il sociologo, la comunicazione a senso unico può andare bene “per il consumo e per la rassicurazione”, ma non certo per la comunione che dovrebbe essere lo scopo di ogni azione all’interno della celebrazione eucaristica. Lo psicologo parla di situazione ‘schizoparanoide’ in cui si asserisce “di volere la comunicazione e il cambiamento, ma in realtà si mantiene la distanza e il rigido controllo sulla comunicazione”. Per l’antropologo infine, si tratta di una prassi tesa a “confermare una fede non introiettata nei suoi valori essenziali in fedeli solo anagraficamente cristiani, ma che sono spesso culturalmente, e soprattutto evangelicamente, estranei al cristianesimo.”

Il monopolio della chiesa gerarchica sulla Parola deve cessare, perché tutto il popolo di Dio abbia la possibilità di acquistare la capacità e gli strumenti per ‘riappropriarsi’ di quella Parola in una lettura comunitaria. In tutte le CdB c’è la convinzione che questo incontro “diverso” con la Parola è fondamentale e decisivo per la loro vita e la loro crescita.  I vari interventi sull’argomento sono concordi nel “rifiutare un’omelia ‘dotta’, preparata da persone ‘addette ai lavori, perché la messa non deve essere un momento culturale, come può essere una conferenza, ma una possibilità di scambiarsi e di mettere in comune le esperienze di tutti”. È necessario però  fare attenzione a non cadere in uno spontaneismo incontrollato. Anche nel caso in cui l’omelia venga fatta da una sola persona, questa sarà portavoce del lavoro, delle ricerche e delle decisioni comuni. Risponde a un’esperienza personale di chi scrive la constatazione che intervenire su un’omelia parrocchiale dà l’impressione di infrangere un tabù, per cui si preferisce rinunciare anche quando l’intervento verrebbe spontaneo e urgente; al più ci si alza e ci si allontana, non trovando in sé stessi il coraggio per compiere una simile infrazione.

 

La preghiera dei fedeli

Ripristinato dal Vaticano II, diventa questo l’unico spazio della celebrazione accessibile ad interventi di persone non appartenenti al clero. All’inizio della loro vita, spesso le CdB sfruttano questo momento per arricchire la riflessione del sacerdote con il contributo delle diverse esperienze, viste alla luce della Parola letta e commentata. In seguito, quando la comunità diventerà il soggetto effettivo dell’intera celebrazione, questo spazio perderà sempre più d’importanza.

 

L’offertorio

Mentre nella celebrazione tradizionale il pane e il vino naturalmente, ma persino il vasellame dell’altare venivano sacralizzati, nelle celebrazioni delle CdB tutto diventa facile e naturale: pane e vino di tutti i giorni, piatti e bicchieri usati in tutte le case. Inoltre, secondo il pensiero delle comunità, Gesù si è talmente “dato, consegnato agli uomini, esponendosi così radicalmente alle contraddizioni della storia” che anche lo stesso segno materiale del pane e del vino, in quanto legato particolarmente alla cultura mediterranea, potrebbe cambiare in un altro contesto spaziale e temporale, dove pane e vino sono elementi estranei alle culture ed usi locali, o addirittura  legati alla cultura degli invasori e colonizzatori.

 

La grande preghiera eucaristica

Nel cuore della celebrazione sta l’anafora, o offerta, a cui le CdB danno forma e contenuti propri, con atteggiamenti creativi. All’inizio queste preghiere sono importate dall’estero (Olanda, Francia ecc.); in seguito si arriverà a farne delle raccolte stampate, o create dalla comunità, sempre collegate con il resto della celebrazione. Esse nascono dalla critica alla “diffusa trasandatezza del clero nel pronunciare la preghiera eucaristica, di fronte alla meticolosità nella pronunzia della formula della consacrazione che assumeva quasi il carattere della formula magica”. Anche dopo la traduzione in italiano, la preghiera rimane sempre monopolizzata dal sacerdote e piena di concetti e termini distanti dalla vita e inadeguati ad essere compresi dalla gente. La preghiera eucaristica acquista importanza anche per il fatto che da essa nasce spesso l’esigenza di una serie di iniziative, come veglie della pace, incontri ecumenici, raccolte di firme in appoggio a petizioni o eventi, ecc.  Dalla storia dell’anafora che la CdB ricostruiscono si apprende che, solo nel VI° secolo con Leone Magno, questa preghiera fa la sua comparsa nel canone della messa e da allora resta praticamente invariata fino al Vaticano II.

 

La comunione

Anche in questo caso, come per l’offertorio, i gesti del cibarsi e del bere  (la comunione è fatta costantemente sotto le due specie) sono vissuti come normali e naturali, privati di ogni carattere sacralizzante.

 

In conclusione, è chiaro che l’attenzione primaria delle CdB non è rivolta al rito, ma ad “un’esperienza complessiva che ha anche questa espressione. La celebrazione non è la somma di momenti diversi, ma un gesto unico, sintonizzato con la vita dei partecipanti e dei loro fratelli e sorelle”. Il risultato più evidente è che il rito “perde il carattere di sacralità di cui era stato ricoperto nella ripetizione quasi magica di gesti e parole e diventa l’espressione della vita stessa degli uomini e delle donne che si raccolgono a contemplare l’evento della salvezza e l’amore di Dio che libera.”

 

Donatella Coppi

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