Koinonia Aprile-Luglio 2020


La fede dipende dunque dalla predicazione

e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo.

(Rm 10,17)

 

RITROVARE LA “STOLTEZZA DELLA PREDICAZIONE”

 

A parte le crisi personali di fede di ogni credente o aspirante tale, tutti siamo ormai concordi nel riconoscere la crisi della fede o del credere in quanto dimensione socio-culturale. A fronte di questa unanime costatazione, chi sembra rimanere alquanto indifferente a simile fenomeno è  proprio la chiesa nel suo assetto tradizionale, paga di una residua religiosità convenzionale, omologata e ritualizzata, involucro privo ormai di una base di riferimento e di aderenza storica. Di questa situazione sembrano cominciare ad occuparsene e preoccuparsene teologi giornalisti, per farne tema di analisi e discorsi sapienti, quando il problema investe l’intero corpo ecclesiale sempre uguale a se stesso nonostante accomodamenti e abbellimenti formali! E nonostante sommovimenti tellurici

Infatti, la preoccupazione dei Pastori sembra essere quella di una evangelizzazione di recupero o di riconquista, e a tale scopo ci si propone di rendere “missionaria” la parrocchia tradizionale più in senso volontaristico e proselitistico che come ripensamento strutturale: sembra cioè che una “conversione pastorale” debba o possa avvenire attrezzando diversamente le comunità esistenti piuttosto che attraverso una trasformazione o un rovesciamento del soggetto comunitario in quanto tale. E cioè come modo radicalmente diverso di vivere la propria fede: da sudditanza ad un regime integrato di dottrine e di precetti, ad una liberante “obbedienza al vangelo”! Ma invece di imboccare questa strada stretta, si preferisce parlare indifferentemente di evangelizzazione, di missione, di apostolato come mobilitazione generale, quasi che basti presentarsi in abiti nuovi per essere più credibili.

Per la verità, se fosse possibile fare la radiografia di una comunità campione, per vedere quale consapevolezza i suoi componenti abbiano dei fattori che la costituiscono, non so proprio se la predicazione come annuncio elementare del vangelo rientrerebbe nella graduatoria: eppure si tratta dell’elemento che la origina, in quanto appunto “la fede dipende dalla predicazione”, ma non credo proprio che il “vangelo” come “predica” figurerebbe nella graduatoria. È chiaro che la predicazione stessa è appiattita su una istituzione caratterizzata sociologicamente dalla autorità, dalla organizzazione e dalla ritualità.

È possibile, oltre che necessario,  riportare le cose sul loro asse originario, e far rendere conto che la comunità di fede è sì centrata sulla eucarestia, ma solo in quanto mistero e pienezza della fede frutto della predicazione e a sua volta annuncio della morte e della resurrezione del Signore nell’attesa della sua venuta: l’eucarestia è la pienezza dell’annuncio e il momento in cui una comunità si fa missionaria nel suo insieme e proclama la sua fede al mondo. Ma perché le cose vadano in questo modo, è chiaro che la stessa predicazione debba ritrovare la sua vera natura come potenza generatrice di fede: che diventi segno e strumento di grazia e verità, e non sia invece esercizio verbale a fini celebrativi!

E questo può succedere se essa riscopre che “a sua volta si attua per la parola di Cristo”: che è di suo continuazione e comunicazione diretta del suo vangelo in forza di un preciso mandato. È la stessa obbedienza a lui, come quando egli dice “fate questo in memoria di me”, quando chiama i dodici “perché stessero con lui e li mandasse a predicare”.  Al di là di quanto è ripetuto e risaputo a questo proposito nella mentalità corrente, c’è sempre da prendere coscienza che si tratta di un mandato decisivo e qualificante: si direbbe in funzione “vicaria” o “in persona Christi”, così come “colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio e dà lo Spirito senza misura” (Gv 3,34). La finalità di fondo di questo mandato  è portare tutti alla “invocazione” della fede che salva: “ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati?” (Rm 10,14-15).

Non sembri un gioco di parole, perché si tratta della sostanza viva della predicazione del vangelo, non riducibile a uno soltanto dei suoi aspetti o momenti: o alla sua sola derivazione divina fino a mistificarla a fatto oracolare, o ai suoi contenuti storici ed ideali, tanto da secolarizzarla. Non è insomma qualcosa da andare a prendere in cielo o da scovare negli abissi della terra, perché è invece parola “sulla tua bocca e nel tuo cuore, cioè la parola della fede che noi predichiamo”. La predicazione non è aspirazione spiritualista verso il cielo, né intervento sapienziale e miracolistico verso la terra, ma è porre in atto la Parola di Dio che salva mediante “la giustizia che viene dalla fede”. Siamo capaci di tener conto di questo “mistero” o accadimento di grazia, senza snaturarlo, lasciando pure che sia scandalo o stoltezza? O abbiamo svilito la predicazione a riempitivo didascalico delle nostre celebrazioni?

Purtroppo è inevitabile lamentare che questo nucleo vitale e strutturale  della fede come anima del Popolo di Dio sia tradotto o ridotto a ruolo di rubrica o a esercizio gerarchico, lasciando in secondo piano il fatto che è essenzialmente evento di grazia, quale appunto è stato e rimane “predicare il vangelo di Dio” come assoluta novità: qualcosa che si ripete e si rinnova non tanto con fughe mistiche o con paletti dottrinali ben piantati, ma solo in forza di quella “grazia dell’apostolato” di cui Paolo è interprete principe: “Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome” (Rm 1,5).

Al di là di espedienti spiritualistici e di accorgimenti tecnici suggeriti e proposti di continuo per una “nuova evangelizzazione”, c’è da rendersi conto che l’anello mancante tra vangelo e mondo non sono gli insegnamenti, le dottrine, i proclami, i piani e l’organizzazione, e neanche la buona volontà e disponibilità da parte di tanti, ma è la carenza di una chiesa veramente “apostolica” quale viene professata nel Credo: ciò che non può essere solo in linea di principio e in punto di diritto in senso gerarchico, ma appunto alla maniera di Paolo, “il servo dell’evangelo”.

È un servizio non solo di magistero dottrinale o di gestione pastorale, ma di dedizione o “consacrazione” personale senza personalismi, perché è una necessità profetica a cui non potersi sottrarre per nessun motivo, quasi come una felice condanna. “Il servizio della parola si compie se il comportamento dell’apostolo è divenuto esso stesso testimonianza, sicché egli possa dire: Ciò che avete appreso e ricevuto, ciò che avete udito e ciò che avete visto in me, questo fate” (Fil  4,9) (H.Schlier).

Non credo si possa parlare di evangelizzazione in assemblee ecclesiali, in sedute accademiche o in circoli culturali a circuito chiuso, ma ce ne possiamo fare carico solo come passione, ad imitazione di Paolo: “Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio” (Tm 1,8). Tutt’altro che fatto gestionale e amministrativo!

 

Alberto B.Simoni op

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