Koinonia Aprile-Luglio 2020


MEMORIA DEL P.DALMAZIO MONGILLO OP

01/09/1928  -  13/07/2005

 

Ricorrono 15 anni dalla partenza di p. Dalmazio Mongillo: era ed è il 13/07/2005. Sono già 15 anni. Questa distanza temporale è strana, anzi, proprio tanto strana. Perché strana? Perché io e, credo, anche tutti coloro che lo hanno avvicinato non potrebbero essersi ancora del tutto abituati all’idea che, non so, un uomo (lui direbbe ‘persona’) con una corporatura come la sua sia più avanti di noi già di 15 anni. Anni che sembrano indicare la distanza che lo separano kilometri e kilometri da noi, da me…

Oppure, perché non posso fare a meno, o non si può fare a meno, di pensare che uno come lui possa camminare da solo, quando proprio lui si sforzava, prediligeva, raccomandava, insegnava, predicava (meglio di tutto sarebbe dire ‘si faceva accompagnare’) a partire dal sorriso, dal sentirsi bene insieme …. In parole semplici: il suo carisma specifico è stare in, stare con, stare per… Chiediamo scusa per il riutilizzo di in, con, per: ma lui era così. Ed è ancora così. Perché?

Perché gli anni-kilometri che mi e ci separano da lui, in verità, corrono gomito a gomito con i nostri anni: sono distanziati, appena appena, da un semplice reclinare il capo e riaffidare, se ci è concesso e donato di farlo coscientemente, il proprio spirito a Dio. O, come lo è stato tra lui ed i suoi confratelli, nel corso di un semplice mangiare una pizza a cena.

Ed, anche in questo caso, non posso immaginare o fantasticare ma credere che, anche in quella circostanza, quella cena non sia stata una cena quotidiana ed abitudinaria. Solita. Ma una cena nel corso della quale sarà stato pur facile, per uno come lui, dividere, scambiare, passare e passarsi i ‘pezzi’ e la ‘bevanda’. Pane e bevanda. Bevanda e pane. E scambio di esperienze. Discorso sensato. 

Come non pensare a … “Prese il pane … Poi prese il vino …”. Per tutti. Sì,”…per tutti … tutti”. Proprio per tutti e per ognuno. Come era e come è il sorriso che molti di noi conservano tutt’ora in sé stessi, come memoria viva ed attiva: un’eredità che in nessun modo deve essere pretesa, accaparrata dal singolo, ma tramandata, seminata, assaporata nel cuore stesso della comunità. Come era e come è il suo Quore. Perché, per me, padre Dalmazio è padre Quore. E resta padre Quore. Non per nulla in occasione della sua dipartita ho scritto:

‘padre Quore’

noi - tutti - siamo dispersi

tra l’altro mondo e questo

cui non si frappongono né nuvole

né ideologie né principi

e soglie dogmatiche insuperabili

o la stessa volontà di Dio.

  Tu non sei figlio

di un Tommaso

che pretende inchiodare

la resurrezione del Cristo

con mani troppo sicure

sulla croce della sola

ed unica Sua resurrezione

come se tutto fosse iniziato

e finito nel Suo incipit

ma di un Tommaso chiamato

e che per questo amava

sorrideva nel dar la mano

al cielo e alla terra

all’Oriente ed all’Occidente

e a Dio ed agli uomini

per dire che la resurrezione

è già anche se non ancora

tutta e qui

tra noi per noi con noi.

   Ma ci fu chi non lo comprese

e ci fu chi non ti ha accettato.

   Tu figlio di questo Tommaso

cammini tra le ombre avvolgenti

di chi centinilla l’ansioso quesito

se il suo lume resisterà

fino a quando lo Sposo dirà:

‘Io sono qui

perché tu sei qui’.

   Dopo anni in dolori

ed in incomprensioni

anche a te come a lui

il Certo nell’incerto

ha chiesto di non parlarLo più

se non in sillabe d’amore

nel modo in cui l’Amore

ed ogni amore

è intriso d’AMARE

nel Cantico dell’Amato all’Amata

meditato da lui

come l’ultimo tocco

da poter dare a quella porta

dietro alla quale si cela

il Mistero dei misteri

che è il Solo Amore

e che è Il Solo Dio.

   Che è l’unica non-Parola

alla quale spetta la dignità

di proferire l’ultima parola.

   L’amicizia che ci lega a te

- tu ci scrivevi -

ha una circonferenza più ampia

dell’arco che racchiude la porta

di san Nicola.

   Per ogni porta si può entrare

si può uscire non fare entrare

e non far uscire.

   In te la porta della nostra Chiesa

è una soglia senza alcun limite

è l’orizzzonte dell’Oriente

verso il quale era in attesa il tuo

Quore

e del quale avevano il sapore

non il gusto le tue parole

mentre per noi è ancora

un andare a ritroso

dall’Occidente e dalla morte

che ci appartiene come un amica.

   Il tuo tetamento è dirci

che l’intenzione è nell’arco

e non nella porta.

   Tu p.Quore

hai amato ed ami i tuoi amici

i tuoi alunni ovunque dispersi

seminandoli

nella prova e nella grazia.

   Tu li ami ancora.

   Tu li stai amando

li stai facendo amare

e tu sai bene da Chi.

   La tua ora è anche la nostra ora

perché sei parte della Koinonia eterna

che appartiene a tutti noi

dai nostri giorni e nell’Eternità

che è il Già in te.

   E non Amen. Ma Alleluja’.

Frequentandolo, come alunno e come amico, ho appreso che per lui ‘stare al mondo’ equivale a ‘stare con, nel, per il mondo’. Equivale e, assolutamente, non equivaleva. E non basta riflettere soltanto sul con, in, per. Un discorso del tutto a parte meriterebbe la riflessione sul contenuto che lui riusciva a far sprigionare dalle preposizioni con, per, in precedenti il termine mondo.

In, con, per? Cosa significano per lui? Anche ora, dopo aver parlato con lui più di una volta di questo, torno a riflettere non tanto sull’uso grammatico-sintattico che è possibile ricavare dalle suddette preposizioni, quanto e soprattutto sul valore ermeneutico che padre Quore riservava ad esse. Per lui, le parole erano persone, non pedine, con le quali giocare, per esempio ad una partita a ‘dama fatta di parole’. Ebbene, queste preposizioni sono per lui mediatrici trasfusionali di significato, di valori. Di senso. E, meglio ancora, di sapore e/o di sapori. Leggendo s. Bonaventura, più di una volta mi sono meravigliato dell’uso continuo e quasi costante che il francescano riserva agli avverbi. Si sa che gli avverbi rafforzano, reduplicano il contenuto del termine, o dei termini, ai quali si riferiscono. P.Dalmazio persegue, invece, quella che, inizialmente, quando lo ascoltavo le prime volte, definivo tra me e me ‘testardaggine proposizionale’. Vale a dire: uso reiterato e sproporzionato di quei benedetti in, con, per.

Ai cari amici di Koinonia il compito di meditare su questo: non pensare, non fantasticare una Koinonia oppure la stessa Koinonia. Ma pensarsi, meditarsi, avvertirsi, impegnarsi in, con, per una Koinonia e, speriamo di non chiedere veramente troppo, in, con, per La Koinonia.

Da parte mia… Vorrei riferire di lui un qualcosa ancora di più specifico. Di interiore. Di personale. Meglio: di interpersonale. Che ha a che fare con lui e con me, con la mia famiglia.

Da parte mia … ha espresso 5 anni fa, nella ricorrenza dei 10 anni dalla dipartita di padre Quore: “…vincere il male con il bene… Era questo uno dei temi cari a fr. Mongillo, nel suo approfondimento della vita morale da intendersi come vita nello Spirito e per questo capace di umanità ricca e profonda. A 15 anni dalla sua morte lo ricordiamo con una sua riflessione che richiama alla responsabilità profetica oggi: “Si può pensare che la Chiesa tutta intera è, nei confronti dell’umanità in cui e con cui vive, nella posizione in cui era il profeta nel popolo eletto. La profezia, nella nuova alleanza, è vocazione e carisma del popolo, che deve vivere il rischio dell’anticipazione provocatoria di assetti umani più ricchi di umanità… “. (in ‘Tempi di fraternità’ 1976)…

Anche io voglio offrire non un qualcosa su di lui, ma un qualcosa da lui.. Una ‘reliquia’, come direbbe Ungaretti, donata alla meditazione e all’amicizia che mi lega per, in, con Voi, amici di p.Quore, che aspiriamo e che ci impegniamo in, con, per la Koinonia. Si tratta di un po’ di materiale vario, di pensieri sparsi, pervasi da una ricerca ampia e profonda, che non aspira a tentare di lambire il mistero divino, ma che è disponibile a credere e ad adoperarsi affinchè il sorriso di Dio plani ed accarezzi il creato. Così che, in tal modo, la gloria di Dio si manifesti in pienezza anche nell’umanità.

Pensieri che mi ha donato poco prima di partire per Bari. Pensieri e … la sua lampada da studio, donata a mia filgia, Talita, nella stessa circostanza. “Lampada da usare come riserva. Per carità, non sempre. …solo quando non ti funziona quella che hai già”. Ma è quella che lei sta usando fin dal giorno dopo. In tutto una lampada da studio, qualche rivista, alcuni foglietti, stampati o scritti a mano, ed un’agenda del 1978 con pochissimi appunti. L’agenda è del 1978, anno in cui compiva proprio 50 anni.

In essa, nella pagina scritta il 1 settembre 1978, con la dicitura Settembre  1  venerdì  -  s. EGIDIO è appuntato con la solita minuscola calligrafia, con la solita penna stilografica:

Compio cinquant’anni. Entro nella fase finale della corsa e dovrò vincere le resistenze che ancora mi trattengono dal desiderare con tutte le forze che l’umanità diventi quale il Padre la vuole e la trasforma. Dovrò situarmi dalla parte del Padre, condividere la sua vita e le sue iniziative, essere contento di appartenergli, di essere con Lui, di Lui, di lavorare con Lui. Quale che sia il piccolo posto nel quale mi troverò a lavorare, il compito che mi viene affidato, il progetto è grande, è buono, è il suo, è il nostro.

Qui si fa festa per la professione solenne di un giovane o.p.

C’è molto movimento perché la cosa è piuttosto rara.

Dopo cena mi fanno festa nella riunione di comunità del venerdì sera.

Amore è prendere iniziative perché uomini e donne vogliano vivere insieme e diventino costruttori di Popolo, di vincoli di comunione”.

E due giorni dopo, nella pagina scritta il 3 settembre 1978, dopo la dicitura Settembre  3  domenica - s. GREGORIO MAGNO è appuntato:

Gran parte della tarda mattinata alla TV per la cerimonia di inizio del servizio pastorale del Papa.    Mi sento un po’ stanco. Avverto più intensi i sintomi di quell’indefinito malessere che mi porto dentro.   Il problema non è di sapere cos’è la speranza e la carità ma di sperare e amare, diventare creature di speranza, amarsi e, cioè, non opporre resistenza ad essere con il Padre, vivere con e come Lui, fare e volere quello che Egli fa, condividere in pieno il Suo pregetto”.

In un fogliettino, sotto il titolo DISSIPARE GLI ALIBI CULTURALI, si legge:

La situazione socio-economica è tale da dissuadere le analisi affrettate e da deludere i tentativi di intervento a tinta spiccatamente intimistica e spiritualista. Da parte mia cerco come posso di lavorare per dissipare gli alibi culturali che nella proposta cristiana diventano germi patogeni e portatori di violenza. Occorre ristrutturare il messaggio e centrarlo su ciò che il Signore ha posto come primario: l’unione col Padre, l’ubbidienza a Lui nel realizzare nel mondo una comunione che vive nel’amore, che si concretizza in opere di giustizia. La Comunità cristiana una sola cosa dovrebbere imparare e insegnare: la via della crescita dell’amore nell’umanità. Tutto il resto è sussidiario. Quando perde questo suo ruolo diventa alibi tranquillizante per coloro che rifiutano la fedeltà.

In altri due foglietti, scritti presso il Convento domenicano di  Friburgo, è appuntato:

L’Amore ha insito una forza creativa, è un costruire legami tra gli uomini in un mondo che Dio  vuole sia costruito in amicizia. Amore è partecipare alla costruzione della famiglia umana,   accettare che l’umanità sia una famiglia, pensarla e accoglierla come tale, e contribuire a renderla tale. L’amore non è solo come gettare un ponte, è riconoscersi e volersi il                prossimo degli altri.

Si parla molto dell’amore come un ‘un sé’, come orientamento del Soggetto, se ne parla meno come relazione che costruisce, modifica, trasforma, le persone che sono involte nella relazione di amore. L’Amore è momento costruttivo, costitutivo della personalità.

La ‘mia’ storia ‘personale’ è legata alla storia interpersonale, il ‘me’ è plasmato, modificato, strutturato dalle relazioni che lo costruiscono, e il ‘me’ influisce su tutte le  relazioni che vivo.

L’amore è forza trasformativa: mostra che alcune strutture non possono sussistere, sono inconciliabili con la condizione di Carità e amore umano.

Una trattazione sull’amore umano pare manchi nella teologia classica, la quale era più preoccupata di delineare la riflessione sulla carità da un lato e dall’altro una metafisica dell’amore, un’analisi strutturale dell’amore nelle sue esigenze costitutive.

L’amore umano in quanto tale, le manifestazioni dell’amore stesso, non sono state valutate ed esaltate. Tutt’al più, primo in particolare, è stato inglobato nella carità considerata come unica forma di amare.

La carità come virtù specifica e come forma informante. La informazione è suscitare le forme di amare, stimolarle, provocarle, volere che siano, che esistano, che siano ciò che devono essere, dar loro consistenza e operatività”.

 

Pierino Montini

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