Koinonia Aprile-Luglio 2020


EMERGENZE PLANETARIE

tra fede ed etica (I)

 

Parte prima: Creazione non natura

 

Cerchiamo intanto di sgombrare il campo: nell’orizzonte di fede ebraico-cristiana che ci caratterizza - lungi dunque da ogni panteismo in salsa new age molto di moda tra i gruppi ambientalisti di oggi -  non si ha a che fare con la natura (phisis) e con il cosmo, ma con la creazione (ktisis) e con la storia, con la salvezza promessa dal Signore, una salvezza che rischiamo di non conoscere più e perciò nemmeno di desiderare più. C’è ancora tra noi qualcuno che pensa alla salvezza così com’è stata annunciata dai profeti e da Gesù di Nazaret? Che deve essere desiderata, si badi, non semplicemente per sé, ma per tutta l’umanità, comprese le generazioni del passato e per l’intera creazione. “Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia” (2Pt 3,13).

Il Dio in cui crediamo è un Dio che cammina con noi per le vie della storia. È il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo, non il Dio dei filosofi – come diceva Pascal - o delle stelle di pagana memoria. E nemmeno il Deus sive natura (Dio o natura) di Spinoza. Se Dio invita Abramo ad alzare lo sguardo per contare le stelle non è perché egli debba incantarsi davanti alle eterne necessità dell’ordine cosmico, ma per fargli comprendere quanto sarà numerosa la sua discendenza e di quanto sia capace la sua potenza. È dunque un Dio che non solo ascolta i bisogni dell’uomo, ma anche promette di soddisfarli nel futuro, un Dio che è fedele e che desidera da noi fedeltà. Il Dio della Bibbia è un Dio vivente, un Dio che soffre e gioisce,  s’arrabbia e si pente, che si coinvolge con tutto se stesso rischiando in prima persona pur di salvarci. È questo non altro il motivo per cui diventa “un Dio geloso” se ci prostriamo davanti agli idoli (Es 11,5).

Dei miliardi di anni delle galassie eternamente circolanti nell’infinito universo al credente poco interessa, interessa invece, e molto, quel tratto di storia nel quale il Creatore di tutto ha voluto metterci in questo straordinario “giardino” con grandi aspettative. Ci ha fatti simili a lui per questo, per di più facendoci dono della libertà. Insomma, mettendoci in mano con fiducia molte cose su un pianetino che sarà anche per lui, Creatore di tutto, l’unico mondo e per sempre. Al punto che, come ha detto da tempo la tradizione ebraica con timore e tremore, solo se riesce a salvare noi e il mondo Dio riuscirà a salvarsi, per abitare insieme a noi nella “vita del mondo che verrà”, come diciamo nel Credo. Come possono gli eruditi credere follie come queste? Non per nulla Agostino percepiva il sorgere degli “ignoranti che con la forza si impadroniscono del cielo” (Ad Alipio). 

La domanda è allora questa: come riusciamo a salvarci e cosa possiamo fare per metterci alla sequela di quel Dio diventato uomo come noi, concretamente e umilmente camminando per un lasso di tempo brevissimo, in un piccolo territorio intorno alla Gerusalemme di duemila anni fa, fino a morire ammazzato pur di salvarci? E l’emergenza ecologica non è che una delle grandi questioni che ci stanno precipitando addosso in quanto credenti, in un mondo diventato complesso e pericoloso quanto mai prima nella storia. Non soltanto perché la nostra “crisi ecologica” è già diventata “catastrofe ecologica”, come ha detto ormai da tempo il teologo Jürgen Moltmann, ma pericoloso anche a causa dell’ingiustizia. Deve inquietarci la gran massa di poveri e di affamati che ogni giorno s’aggirano attorno al nostro piccolo mondo di privilegiati che getta via pane e sguazza nell’abbondanza consumistica, oltre che sporcare con plastica e idrocarburi gli oceani e il cielo. Il seguace di Cristo deve avere fame e sete di giustizia oltre che di pane. Noi parliamo di custodia come se a dover essere custodita fosse la nostra piccola casa coi suoi campi intorno e facciamo bene, ma guai se non ci accorgessimo della gran massa dei poveri che stanno alle nostre porte e della Parola di Dio che dice quanto il nostro Dio li abbia a cuore e soffra in ogni istante con loro. Noi ci occupiamo del cibo che sia sano e salutare, e facciamo bene, ma guai a non tenere conto di coloro che non hanno nemmeno il necessario per vivere. Molti dei mali che affliggono il pianeta vengono dal cuore delle nostre civiltà dell’opulenza e del consumo, e di questo sono prima di tutto i credenti a doversene accorgere, fino a indignarsi con tutte le forze.

Ma la domanda radicale e ultima è la stessa di sempre: perché il male? Da dove viene se Dio è il principio di tutto? Da dove vengono quelle tenebre e quella menzogna che sentiamo essere persino dentro di noi rendendoci ciechi e sordi di fronte alla Parola di Dio e alle necessità dei fratelli? Poiché davvero non è quello che ci “entra nella bocca, passa nel ventre e viene gettato in una fogna” ad avvelenarci, bensì “ciò che esce dalla bocca” e ci “proviene dal cuore” (Mt 15,17-18).

A leggere la Bibbia veniamo a sapere che in principio le cose non erano e non avrebbero mai dovute essere come sono diventate. Veniamo a sapere che “Dio non ha creato la morte” e che “per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo” (Sap 1,13; 2,24). Che Dio in principio “plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita”, per porlo poi “in un giardino in Eden” affinché lo custodisse. E quel giardino era paradisiaco, non era cioè ancora abitato dall’egoismo, dal male e dalla morte, così che l’uomo creato a immagine di Dio vi abitava nudo, libero e privo di vergogna, felice con l’essenziale che Dio gli donava in ogni momento. In lui non c’era avidità e nemmeno la paura di ammalarsi e morire. Avrebbe dovuto semplicemente avere cura del giardino muovendosi in tutta libertà non conoscendo ancora nemmeno l’ombra del male, semplicemente affidandosi in ogni istante alla bontà del Creatore. E però non avrebbe mai dovuto accostarsi a due alberi: “l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male” (Gen 2,7-9). È un po’ come se Dio gli avesse detto: se non vuoi morire vacci piano con la pretesa della scienza e del sapere; e soprattutto guai a te se t’azzardi a impadronirti della vita.

Sono simboli naturalmente, scaturiti da riflessioni teologiche ispirate e poderose delle quali ancora oggi dobbiamo tenere conto se siamo credenti, se vogliamo cioè umilmente comprendere chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando, in quanto creature e non creatori. Vi sono limiti oltre i quali è molto pericoloso andare, e non solo perché si altera il clima e s’avvelena la terra, ma perché l’umanità stessa rischia di autodistruggersi a partire dalla corruzione della propria mente e del proprio cuore.

Romano Guardini, in un suo significativo intervento di ben oltre cinquant’anni fa, diceva così: “Può il potere crescere con qualsiasi rapidità e a qualsiasi altezza e l’uomo rimanere uomo in senso pieno?”. E ancora: “Quando noi parliamo della potenza che l’uomo odierno possiede già in misura così enorme e sempre più rapidamente crescente, pensiamo involontariamente alla potenza sulla natura. Ma non dobbiamo dimenticare che essa è anche potere dell’uomo sugli altri uomini – e con ciò dell’uomo sopra se stesso”. E continua: “È  possibile cambiare in un uomo contro la sua volontà la maniera con cui egli vede sé e il mondo; le misure con cui egli misura il bene e il male; la condizione che egli come persona ha in se stesso… Anche questa è una forma del potere umano più sottile, meno drammatica, ma forse ancor più minacciosa che quella della bomba atomica” (Europa, compito e destino).

Noi attraverso quei racconti semplici e antichissimi della Bibbia comprendiamo quanto Dio ebbe bisogno di essere amato e che proprio per questo rese libera la creatura umana davanti a sé: solo nella libertà infatti può attecchire l’amore. Ma nello spazio della libertà può anche attecchire la superbia, la pretesa di andare oltre i propri limiti, decidendo da sé cosa è bene e cosa è male. Tutto viene da Dio, è vero, per questo non possiamo parlare di natura ma di creazione e tuttavia, al tempo stesso, percepiamo qualcosa che non viene da Dio ma prende vita all’improvviso e contro la sua volontà dallo spazio di libertà concesso all’uomo. Uno spazio in cui Dio diventa ‘impotente’ non riuscendo a farsi amare nemmeno dal più debole tra noi. Insomma, siamo qui di fronte a quello che i teologi hanno voluto chiamare ‘peccato originale’. Quello per cui “l’uomo… tentato dal Maligno, fin dagli inizi della storia abusò della libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di lui” (Gaudium et spes, 13). “Il peccato originale è stato una vera catastrofe, - ha detto ultimamente anche Luigi Pareyson riflettendo sul dramma della sofferenza e del male - una vera tragedia cosmo teandrica, di cui è stato colpevole solo l’uomo, ma per cui tutti debbono soffrire: uomo mondo Dio” (Ontologia della libertà).

E bisogna tuttavia essere molto attenti a non ridurre il peccato d’origine al solo orizzonte dell’etica, come se Dio fosse intervenuto per semplicemente punire la disobbedienza dell’uomo. E questo perché l’etica, con le sue pretese edificanti, segue a ruota le pretese della ragione, distraendoci dal vero orizzonte che conta davanti a Dio, quello della fede. Per contrapporsi al peccato d’origine la virtù non serve a nulla, servono invece la fede e la serietà con cui si ascolta ciò che Dio ci dice affidandoci al suo amore, alla sua sapienza e potenza. Egli ha a cuore non le nostre colpe da punire, ma le nostre sofferenze da evitare per quanto possibile. Di fronte alla libertà umana, dice Ireneo, Dio non può costringere, ma solo offrire “il buon consiglio”, o consolare dopo che le cose sono accadute, accogliendoci col suo amore, con la sua sapienza e potenza (Contro le eresie IV, 37, 1).

Il senso delle parole di Dio in Eden non era dunque quello di una minaccia in caso di disobbedienza, ma quasi un consiglio rivolto all’amico che gli sta di fronte e al quale ha appena donato qualcosa di preziosissimo oltre alla vita, qualcosa su cui s’attende conferma e collaborazione per il futuro, quasi da pari a pari, alla luce d’una reciproca libertà e fiducia. E, al tempo stesso, una messa in guardia; un po’ come le parole accorate di un padre che raccomanda al suo bambino di non toccare ciò che potrebbe folgorarlo. È come se bomba atomica e lavaggio del cervello fossero già presagiti da Dio fin dai tempi “dell’albero della conoscenza del bene e del male”, frutti amari scaturiti dall’abbandono della fede da parte di un uomo che pretende di conoscere e padroneggiare tutto. Una deriva che ci sta conducendo alla rovina proprio continuando a spingerci nella fatale illusione di poter uscire da soli dal pantano. Finendo cioè per convincerci come sia ormai tutto in mano nostra e che basterebbe semplicemente comportarsi come si deve tra noi e con la natura per salvarci. Dunque tendendo a una salvezza umana troppo umana, a un’etica che soffocando la fede ci impedisce  sia il ricordo di come stavano le cose in principio sia l’attesa della redenzione promessa: il riscatto di “ciò che ormai è scomparso” (Qo 3,15), il “lupo” che dimora “con l’agnello”, il “leopardo” che si sdraia “accanto al capretto” (Is 11,6), la “risurrezione dei morti” (1 Cor 15,13), la visione “faccia a faccia” con Dio (1 Cor 13,12).

Insomma, il credente è chiamato ad avere a cuore non solo il gemito della creazione ma anche il soffrire di Dio, un Dio che fin da principio  non ha potuto evitare il male e la morte provocati dalla caduta. Se “la creazione geme e soffre” (Rm 8,23), ancor di più e per gli stessi motivi soffre Dio. E ci si renda conto che quando Paolo scriveva queste cose non c’era ancora l’emergenza ecologica che conosciamo, tutt’al più qualche traccia di piombo negli acquedotti romani, chissà! Dunque se lo “Spirito intercede con gemiti inesprimibili” già da duemila anni, più che per l’inquinamento di terra e acque è per la mancanza della nostra fede, è per la nostra incapacità di “pregare in modo conveniente” (Rm 8,26-27), chiedendo quanto davvero urge non solo a noi ma anche a  Dio. Pochi come Lev Šestov hanno riflettuto attorno a questo dramma: “I vostri occhi si apriranno, così parlò il serpente. Voi morirete, così parlò Dio… Se Dio ha detto la verità, il sapere conduce alla morte; se il serpente ha detto la verità, la conoscenza uguaglia gli uomini agli dèi. Fu così che si pose la questione davanti al primo uomo ed è così che si pone davanti a noi oggi” (La filosofia medievale).

L’aver gustato il frutto della conoscenza ha annientato nel cuore umano sia la libertà primordiale che l’audacia della fede, ripiegandoci nell’illusione che soltanto con la potenza del conoscere e del decidere da sé si possa essere liberi e capaci di venir fuori dai nostri drammi. È stato un diventare ciechi proprio aprendo gli occhi sulle proprie potenze e conoscenze, come montandoci la testa, diventando oltremodo superbi anziché umili. Un accecamento che si protrae inesorabile, come se nessun altro all’infuori di noi stessi possa liberarci dal male. E a pensarci bene non è proprio questa la “tentazione” alla quale chiediamo di non essere abbandonati nel Padrenostro, quella cioè di non riuscire più a credere come alla fine sia soltanto Dio a poterci liberare “dal male” così come ha promesso (Mt 6,13)? Non è forse questo che voleva intendere Gesù dicendoci: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41)?

L’umile credente, che incespica “tastando qua e là” (At 17,27) come un cieco nella notte del mondo e della storia, dovrebbe invece continuare ad affidarsi al Signore tutt’al più dicendo: “Credo, aiuta la mia incredulità” (Mc 9,24). E non: credo ma vorrei anche sapere perché dovrei credere visto che secondo le mie conoscenze sarebbe meglio confidare in ciò di cui ho “prova” che già tocco e vedo (cfr. Eb 11,1). Qui non altrove abita l’astuzia del “serpente” di fronte a una umanità tentata da quel frutto di conoscenza e ragione che rende incapaci di credere l’impossibile solo a Dio possibile, e perciò finendo per convincerci a confidare nelle sole nostre forze intellettuali e tecniche, anziché nella ‘verità rivelata’ da Dio. E non è forse questo il motivo per cui Gesù ad un certo punto “esultò di gioia nello Spirito Santo” dicendo: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10,3.21)?

È il coraggio della fede a impedire da sempre  la rassegnazione e la resa, a indurci al grido che fu di Giobbe quando arrivò a maledire “il suo giorno” (Gb 3,1); e di Gesù dalla croce prima di morire (Mc 15,34), il grido di chi confida nel Dio a cui “nulla è impossibile” (Lc 1,37), “se è possibile” (Mt 26,39). Quel coraggio della fede che fu anche di Abramo e di Maria, la Madre di Dio, che hanno creduto l’impossibile quando vi erano tutte le ragioni per non crederlo possibile. “Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8).

Sì, a noi è dato di ricordare con una certa gioia il futuro della redenzione promessa da Dio fin dai giorni di Abramo, dal Dio che ha poi camminato insieme a Israele nel deserto, fino a incarnarsi in Gesù di Nazareth, donandoci aspettative terribili e grandiose al tempo stesso, come terribile e grandiosa al tempo stesso è stata la sua vicenda storica di croce e risurrezione, a cominciare dalla strage degli innocenti (Mt 16,18), e dalla “spada” che avrebbe trafitto “l’anima” della Madre fin dal giorno in cui lo presentò bambino nel tempio di Gerusalemme (Lc 2,35).

 

Daniele Garota

(1.continua)

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