Koinonia Aprile-Luglio 2020


I 100 anni di Giovanni Paolo II

 

                                                       NON ABBIATE PAURA

 

Il tempo trascorso dalla sua morte, quasi venti anni, ci aiuta a leggere la figura di papa Giovanni Paolo II in una chiave complessa e a rifuggire dal pericolo di darne una rappresentazione agiografica, come purtroppo hanno fatto quasi tutti i commentatori di allora, trascinati dalla commozione di essere testimoni della morte di un uomo che ha segnato un’epoca e che nel giro di poco tempo è stato dichiarato santo, anzi: “Santo subito!”.

Anche oggi tuttavia, a cento anni dalla sua nascita, soprattutto sul piano della comunicazione di massa, ne viene data un’immagine quanto meno parziale.

Si mettono in rilievo le indiscutibili doti del personaggio (il coraggio, l’abnegazione per una causa, la capacità di andare contro corrente, lo spirito di sacrificio, la compassione) col rischio di presentarne solo l’aspetto più accattivante, minimizzando fatti e comportamenti discutibili del suo operato e soprattutto tacendo sulle conseguenze negative, anche se non volute, di alcune sue scelte di fondo, facendo così un pessimo servizio alla storia, e a noi che viviamo nella storia di questo tempo.

Poiché non abbiamo motivo di dubitare della dimensione umana, carnale potremmo anche dire, e così ricca di compassione che viene presentata da tanti documenti, e non solo da film che potrebbero dare un’immagine romanzata del personaggio, ci resta difficile comprendere come quel prete, poi giovane vescovo, poi cardinale, poi papa abbia fatto propria una visione tradizionalista, punitiva del cristianesimo, sostenendo con energia e convinzione aspetti della morale cattolica che  già prima del Concilio venivano messi in discussione.

Quegli stessi temi che oggi, finalmente, sono oggetto di dibattito, anche accanito, all’interno dell’intera Chiesa, e non più solo di gruppi ristretti sospetti di eresia: il ruolo subalterno della donna cui viene negato l’accesso al ministero ordinato, l’obbligo del celibato per i preti, la condanna dei rapporti prematrimoniali e dell’uso degli anticoncezionali “non naturali”, il rifiuto dell’eucarestia ai divorziati risposati, la condanna dell’aborto in tutti i casi e in tutte le circostanze, anche quando la partoriente è in pericolo di vita.

Possibile che a Wojtyla non sia mai venuto il dubbio, almeno il dubbio, che tutti quei divieti non avessero nulla a che vedere col Vangelo, ma che fossero soltanto costruzioni fatte nei secoli dal potere clericale per tenere sotto il proprio controllo il Popolo di Dio col timore del peccato e della dannazione eterna?

Molti commentatori, almeno i più critici, hanno messo in rilievo lo “strabismo” politico di papa Wojtyla, implacabile contro il comunismo, al punto di collaborare, e con quale efficacia, alla sua caduta, ma critico solo a parole nei confronti del capitalismo, almeno fino a quando l’impero sovietico non si è sgretolato. E mi sembra priva di consistenza la tesi, da molti sostenuta, che comunismo e capitalismo (il primo perché negatore di Dio, il secondo in quanto portatore di una visione edonistica della vita, estranea ai valori cristiani) siano stati oggetto, da parte sua, di uguale condanna.

Molti di noi hanno ancora vivo il ricordo, fra i tanti, di due episodi che rappresentano in modo evidente questo atteggiamento radicalmente diverso nei confronti dei due sistemi politici che hanno governato il mondo per tutto il periodo della guerra fredda.

Il primo riguarda il suo comportamento verso il vescovo Romero. Quando finalmente accetta di riceverlo, rifiuta di dar credito alle infinite testimonianze da lui portate dei crimini dell’oligarchia contro il popolo del Salvador, ritenute in buona sostanza frutto della propaganda comunista.

Pochi anni dopo, in occasione di un suo viaggio in Nicaragua, dove da poco aveva trionfato una rivoluzione popolare, redarguisce col dito accusatore Ernesto Cardenal, monaco, poeta e ministro della cultura del governo sandinista. Una brutta immagine di Wojtyla che ha fatto il giro del mondo e che, a distanza di tanti anni (era il 1983), resta nel cuore e nella mente di tanti.

Numerosissimi furono i viaggi papali, in ogni  parte del mondo. Papa Wojtyla era convinto che la sua presenza avrebbe fortemente contribuito a diffondere il cattolicesimo. Ogni viaggio, però, doveva essere sempre preceduto da accordi diplomatici con i presidenti dei diversi paesi, molti dei quali erano personaggi tutt’altro che democratici. È ben vero che i suoi discorsi erano parole di pace e di fratellanza, e per questo veniva accolto e applaudito da folle innumerevoli, ma il solo fatto di comparire accanto a capi politici autoritari e corrotti da un lato indeboliva oggettivamente il suo messaggio, dall’altro poteva l’indomani essere strumentalizzato a propri fini dagli stessi dittatori.

È stata, questa, una questione dibattuta a lungo, e i giudizi possono legittimamente diversificarsi.  Dove invece non mi sembra possano esserci dubbi, è il giudizio sugli esiti economici e politici negativi a livello mondiale che la politica vaticana di papa Wojtyla ha contribuito a determinare. Da un certo momento in poi Giovanni Paolo II cominciò ad intraprendere viaggi apostolici nei paesi europei soggetti al comunismo sovietico. Ormai le chiese cattoliche nazionali, per quanto ancora discriminate dal potere, erano in grado di richiederlo, e di ottenerlo (1).

Altra musica. I suoi interventi contro quei regimi erano durissimi. Il papa non si limitava a parlare di pace e di concordia, ma al contrario si rivolgeva ai movimenti popolari di quei paesi, e in particolare a Solidarnosc, il potente sindacato polacco di opposizione, affinché si facessero carico, fin da subito, di un progetto di cambiamento radicale affinché nei loro paesi la fede cristiana, dispensatrice di giustizia e di pace, tornasse a risplendere come un tempo.

Che il comunismo sovietico, oppressore di tanti popoli e negatore della libertà di pensiero e di quella religiosa in particolare dovesse cadere, era augurabile. Ma la rapidità inaspettata di questo processo, auspicato e sostenuto con la massima determinazione da papa Wojtyla è stata tale che non solo un sistema oppressivo è stato spazzato via, ma le stesse istanze progressiste e democratiche che stanno alla base di una umana e civile convivenza sono state messe in crisi, in ogni parte del mondo. Col trionfo del neoliberismo, infatti, è in rapido disfacimento anche quel sistema di “stato sociale”  basato, se non sull’uguaglianza, almeno su una maggiore equità, un sistema solidaristico auspicato proprio dallo stesso Wojtyla.

Ma il fallimento di questo papa lo si misura anche nel campo più propriamente religioso. L’ideale di Wojtyla era quello di ripristinare, sulle ceneri di un vecchio mondo dominato dal comunismo e dal consumismo capitalista, una realtà totalmente “altra”, dove il cristianesimo sarebbe stato sorgente di nuova vita, spirituale e materiale. Una realtà dove la fede, illuminando della sua luce giustizia e fratellanza, avrebbe trionfato e purificato l’umanità tutta.

Il cuore di questa rinascita sarebbe stata la sua amata Polonia, nazione cattolica per eccellenza, capace di difendere per secoli la sua identità nazionale e religiosa, in presenza della pressione esercitata dai luterani tedeschi e dai russi ortodossi. E invece? Nulla di tutto questo: la “sua” Polonia è rimasta una nazione povera, più diseguale di prima, sopraffatta da nazionalismi e tentazioni autoritarie, vittima di quella deriva consumistica ed edonistica che credeva di aver combattuto con successo.

A distanza di poco più di dieci anni dal crollo del comunismo polacco, mentre già si avvicinava alla morte, quel vecchio papa, piegato, malato, incapace ormai di articolare parole, nonostante la sua mente fosse rimasta lucida come un tempo, sarebbe stato in grado di comprendere, e sopportare, il dramma dei suoi fallimenti?

 

Bruno D’Avanzo

 

 

NOTE

 

(1) Nei primi anni cinquanta era diventata proverbiale la sarcastica battuta di Stalin (in realtà frutto di una rozza e superficiale concezione dei rapporti di forza) riguardo alla potenza della Chiesa cattolica: “Di quante divisioni dispone Pio XII?”. Ma a papa Wojtyla non servivano i carri armati. Varsavia, Cracovia, Vilnius. Erano tutti bagni di folla che invocavano, assieme a Dio, anche la fine di un regime oppressivo.  

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