Koinonia Aprile-Luglio 2020

 

                                                       

AMO L’AMERICA

 (ma non quella della violenza e dell’indifferenza)

 

Amo l’America dei discendenti delle etnie indiane, vittime del genocidio perpetrato contro di loro a seguito della conquista bianca.
Amo l’America dei discendenti degli schiavi neri, trascinati a milioni dall’Africa sulle sue coste, per morire di stenti e di frustate nei campi di cotone.
Amo l’America dei milioni di migranti che tra ‘800 e ‘900 varcarono  gli oceani, fuggendo dalla fame, dalla ingiustizie, dai soprusi, dalle schiavitù che dovevano subire ogni giorno in Irlanda, Italia, Polonia, Libano, Siria, India, Cina, Giappone…..
Amo l’America delle carovane inarrestabili di “chicanos”, venuti dal sud, che nella speranza di un futuro migliore non si arrestano di fronte a nulla, e che nessun muro è in grado di fermare.
Amo l’America dei Lincoln e dei Roosevelt, che tentarono di porre le basi di una società giusta e democratica.
Amo l’utopia di un paese dove i colori di tutte le razze si dovrebbero incontrare e  fondersi in un indescrivibile, meraviglioso Arcobaleno.
Ma al tempo stesso non posso che condividere le parole di Giovanna Marini, la madre della canzone di protesta italiana, quando canta:

“L’America è una grande malattia  /   Come una macchia nera che si spande  /  E più il tempo passa e più è grande”.

Minneapolis, 25 maggio 2020. Un video registra gli ultimi istanti di vita di un nero di 47 anni morto con le mani legate dietro la schiena e la faccia sul marciapiede mentre il ginocchio di un poliziotto gli schiaccia il collo. Sette minuti - sette - di agonia, mentre la folla attorno grida al poliziotto di smettere. Ma nessuno si è avvicinato per impedire l’omicidio: rischiavi una morte sicura con una pallottola nel petto.
L’orrore di questa pubblica esecuzione ci riporta ai roghi del Ku-Klux-Klan del secolo passato.
I cittadini americani, o almeno la maggioranza, sono da decenni abituati  al migliaio di omicidi di cui si rende responsabile ogni anno la polizia americana ai danni dei neri piccoli spacciatori, ladri, scippatori, o semplicemente automobilisti che non si sono fermati all’alt, in genere colpiti alle spalle, magari con una rivoltella Beretta, di recente fornitura alle forze dell’ordine americane. Tutti delitti praticamente impuniti.
Un omicidio come questo, però, non si era ancora visto. Rappresenta un vero salto di “qualità” dentro l’abisso dell’orrore cui può arrivare un rappresentante dello stato Ma se un assassino del genere, con tutte le prove a suo carico, riuscisse a farla franca, subendo solo un’ammonizione e il trasferimento (si rado in casi come questo si arriva all’espulsione dalla polizia) che credibilità possono avere le istituzioni dell’America, che per giunta si presenta come paladina delle libertà in ogni parte del mondo?
Un quotidiano del 29 maggio titola l’episodio con parole quanto mai appropriate: “AMERICA DOWN. La Statua della Libertà è crollata”.  
La vicenda di quel poliziotto americano che ha soffocato un uomo di colore, inerme, ci riguarda da vicino, eccome! Riguarda il nostro modo di concepire la giustizia, il nostro modo di vivere in comunità. È un fatto che deve suscitare in noi sdegno  per quanto di inumano succede nel mondo e ci deve indurre a individuare le cause di tanta bestialità, e di combatterle.
Quel poliziotto assassino può essere anche un sadico, ma se qualcuno ce l’ha messo in polizia, se nessuno l’ha educato alla legalità, allora c’è del marcio nella società americana; ma non solo in quella, se un fatto del genere ci lascia indifferenti (1).  
Il 30 maggio finalmente, dopo giorni in cui la rivolta degli afroamericani ha infiammato le più importanti città degli USA, arriva la notizia che tutti speravamo: il poliziotto di Minneapolis è stato arrestato.
Di fronte alle manifestazioni di piazza Trump, da par suo, ha proclamato che “se iniziano i saccheggi, iniziamo a sparare”. Ma non sono stati dello stesso avviso né il sindaco di Minneapolis, un tranquillo cittadino americano definito da Trump “un debole di estrema sinistra”, né il governatore del Minnesota, che hanno rifiutato di usare la maniera forte contro i dimostranti della comunità nera perché “le loro voci sono rimaste inascoltate e ora generazioni di dolore si stanno manifestando di fronte al mondo” (2).
Durante quelle manifestazioni di dimensioni inaspettate che hanno sconvolto l’intero paese si sono verificati fatti nuovi, inauditi, che testimoniano un cambiamento radicale della mentalità e della sensibilità di milioni di americani, soprattutto giovani: questi moti spontanei hanno assunto un carattere interrazziale.
Finora se qualche nero veniva ucciso senza motivo dalla polizia erano solo i neri a protestare. Questa volta no. Per la prima volta milioni di americani bianchi hanno partecipato alle manifestazioni, spesso da protagonisti, come i tanti poliziotti che hanno chiesto perdono per le violenze commesse dai loro colleghi, come tutti quei giovani che hanno preso la testa dei cortei, quasi a difendere i loro fratelli neri, consapevoli che, se la polizia non ci mette due volte a sparare contro i manifestanti di colore, ben si guarda dal fare altrettanto se sono dei bianchi che rischiano di essere colpiti, e magari anche di famiglie che contano.
Per la prima volta negli USA si è acceso un aspro dibattito sul ruolo della polizia che non va più considerata un corpo separato, praticamente coperto dall’immunità, qualunque cosa faccia; già si pensa, ad esempio, di sottoporre i corpi di polizia a regole certe, come ad esempio di non poter sparare, e tantomeno alle spalle, se non nei casi di conclamato pericolo e di non usare in nessun caso violenza sui prigionieri arrestati.
E che dire di tutti quei sindaci di grandi città americane, e tra questi la stessa prima cittadina di Washington, che ha avuto il coraggio di scontrarsi a muso duro col presidente?
Ma la contestazione al titolare della Casa Bianca è venuta anche da settori “insospettabili” della società americana. L’esercito, nonostante le pressioni di Trump, si è rifiutato di intervenire, perché non è compito suo sostituirsi alle forze di polizia; e addirittura politici di prima grandezza del partito repubblicano non si sono limitati a criticare le posizioni del presidente, ma hanno dichiarato che alle prossime elezioni voteranno per il candidato del partito democratico.
E quando mai si era visto un presidente americano circondare la Casa Bianca con barriere di filo spinato e chiamare a sua difesa  guardie private perché non si fida nemmeno della polizia?

Tutti questi segnali che vengono dal paese più importante dell’Occidente fanno sperare che un futuro più giusto e solidale sia ancora possibile. Dipende solo da noi.

 

Bruno D’Avanzo

 
 

 

                                                                       NOTE

(1)  Sarebbe un guaio per noi, cittadini del mondo, assuefarci all’indifferenza.

Eppure da tempo abbiamo imboccato questa china pericolosa. Si pensi a un tentativo di violenza ai danni di una donna commesso in pubblico. Quante volte abbiamo letto di persone che, passando di lì, hanno magari esclamato: “Che schifo!”, ma poi hanno tirato dritto, per evitare complicazioni!

Ma non c’è bisogno di ricorrere a questi esempi che, per quanto tutt’altro che rari, non sono di tutti i giorni. Pensiamo all’handicappato cui hanno tolto la pensione per un cavillo burocratico, all’immigrato cui negano di affittare una casa (non sono lontani i tempi in cui a Torino si trovavano, sui portoni delle case, le scritte: “Non si affitta agli immigrati”, la nuova versione del: “ non si affitta ai napoletani” degli anni ‘50 e ‘60), agli operai e impiegati che perdono il lavoro non perché l’azienda è in crisi, ma semplicemente perché ha “delocalizzato”.

Molti diranno: “Poveretti, quanto ci dispiace”  Ma poi tireranno avanti, come il sacerdote e il fariseo del Vangelo: la cosa non ci riguarda direttamente, si può stare tranquilli.

A un certo momento della nostra vita, però, qualcosa comincia a non tornare più. Un figlio, sul quale avevi investito soldi, tempo, fatica perché arrivasse alla laurea, d’improvviso si trova lui, e tu di riflesso, in difficoltà. Il lavoro non si trova, è costretto a fare lavoretti precari, è pagato in nero, è senza prospettive. E allora ti accorgi quanto sia stata ingiusta la tua indifferenza nei confronti di quell’handicappato, di quell’immigrato, di quei lavoratori licenziati.

Pensiamoci prima. Pensiamo a batterci per costruire una società dove tutti siano garantiti. Garantendo gli altri garantiamo anche noi stessi.

(2) Tra le innumerevoli testimonianze delle ingiustizie di cui si è resa responsabile la società razzista americana, riporto quella dell’attore afroamericano Chris Rock: “Mia madre per farsi curare andava dal veterinario ed entrava dalla porta sul retro, altrimenti i bianchi non ci avrebbero portato più i loro animali”.

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