Koinonia Marzo 2020


“Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare,

ma a predicare il vangelo”

(1Corinzi 1,17)

 

Parole dette e ascoltate mille volte in contesti diversi, improvvisamente si accendono e illuminano tutta la scena, coma la lampada tolta da sotto il moggio, per  diventare la nuova luce in cui vedere e ripensare noi stessi, le nostre situazioni, le possibili prospettive. È successo così con quanto Paolo dichiara personalmente alla chiesa di Corinto, precisando di non essere stato “mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo”. Una rivendicazione e distinzione netta!

Il significato testuale e contestuale di queste parole ce lo illustra Piero Stefani che trovo in rete ma che possiamo considerare offerto da lui in spirito di koinonia: è riportato di seguito e va tenuto presente. Se poi vogliamo volgarizzare la differenza  intuitiva tra “battezzare” e “predicare”, basta mettere assieme alcuni termini: battezzare evoca affiliazione, appartenenza, aggregazione, registrazione, certificazione, gestione, amministrazione, gerarchizzazione, dipendenza, organizzazione religiosa, identità confessionale, qualifica sociale ecc…, insomma tutto fatto. Predicare richiama più che altro responsabilità e impegno personale, alterità e reciprocità, gratuità, proposta, scelta e decisione, partecipazione, accadimento, evento, incontro, occasione propizia, imprevedibilità: insomma tutto da fare!

Mentre infatti nel primo caso predomina la struttura e un sistema predefinito e preordinato, nel secondo in primo piano ci sono le persone e la loro libera iniziativa, e tutto è in fieri all’insegna del vangelo come puro annuncio e nel segno della fede e della salvezza come risposta ad esso. Se qui abbiamo due modalità complementari del vangelo nel tempo, si deve però dire che predicare ha perso la sua autonoma specificità, divenendo una funzione interna al “battezzare” come status quo permanente. Ragion per cui abbiamo una chiesa di battezzati e di praticanti più che di credenti e di discepoli: numeri più che nomi!

A ben guardare, quando Paolo fa questa sua precisazione, è certamente in rapporto al mandato di Cristo, ma è anche una esigenza personale nei confronti di una situazione di chiesa che aveva davanti. E allora forse mi è lecito dire che la mia attenzione alle sue parole nasce proprio da una lunga esperienza di vita: e cioè dal desiderio e dal tentativo di riportare la “predicazione del vangelo” alla sua funzione primaria dentro il sistema-battesimo o chiesa gerarchica e clericale, dove tutto si gioca in ruoli, canoni, uffici, competenze come esercizio di autorità e di potere.

Pur partecipando alla vita del Popolo di Dio a tutti i livelli, devo dire che non ho mai goduto di simili incarichi e posizioni, cercando piuttosto di esercitare l’unico mandato di Cristo e credendo nella possibile compatibilità e convergenza tra primato del vangelo e quello che ormai possiamo identificare come regime di cristianità fondato appunto sul “battezzare”. L’esperienza insegna che c’è un rigetto del vangelo in quanto tale da parte di un organismo che l’ha metabolizzato da tempo in termini di egemonia storica (era costantiniana). Stando così le cose, alla fine è risultata una vera e propria liberazione il fatto di ritrovarsi del tutto messi fuori da qualunque spazio istituzionale e nella necessità di ricreare le condizioni perché un processo di maturazione d’insieme potesse continuare.

È il passaggio - certamente non indolore ma neanche traumatico - che ha portato alla ulteriore consapevolezza di una distinzione netta tra “chiesa dei battezzati” o dei praticanti, e chiesa della “Parola di Dio” o delle genti. Se il confronto istituzionale tra queste due versioni di chiesa è impari - come tra ciò che è e ciò che non è - è però ormai l’ora in cui un discernimento e un confronto ideale si impongono e vanno messi in atto anche in solido, stante il fatto che un confronto reale sia tranquillamente negato!  Non credo ci si possa più nascondere dietro il pretesto che si tratta di posizioni singolari di questo o di quell’altro, perché sarebbe cecità o sordità davanti a segni e voci che spuntano da tutte le parti!

Ma al di là di vicende ed esperienze vissute, la distinzione che Paolo ci propone diventa criterio di discernimento della situazione ecclesiale in cui ci troviamo: emergono infatti due modalità di chiesa che mancano però di un giusto rapporto dialettico che dia risalto ad entrambe Ma se usciamo dalla polarizzazione  a senso unico, per cui tutto è schiacciato sull’esistente ad intra, ci rendiamo conto di una chiesa potenziale ad extra a cui soltanto un “vangelo sine glossa” può arrivare e dire qualcosa.

Difficile dire se sia questo “popolo numeroso” che il Signore dice a Paolo di avere nella città (cfr Atti 18,10) ad esigere un vangelo diverso, o se sia nella natura stessa del vangelo annunciato ai poveri questa destinazione primaria della predicazione come momento originario e fondante. Bisognerebbe allora far emergere questo “popolo numeroso” come chiesa nascente o in fieri, senza che questa sia costretta a misurarsi e modellarsi su quella costituita e percepita dei “battezzati”, che dovrebbe invece accettare il confronto dialettico con essa, così come insegnerebbe il primo Concilio di Gerusalemme.

Il fatto è che si continua a pensare la chiesa in maniera uniforme e monolitica, credendo e facendo credere che il vangelo debba passare esclusivamente attraverso di essa, piuttosto che lasciarsi attraversare essa stessa dal vangelo che non è incatenato (cfr. 2Timoteo 2,9). È la sfida da non eludere, che potrebbe diventare ancora una volta occasione o provocazione per un ripensamento globale della evangelizzazione e non dovesse passare solo come variazione fuori luogo e fuori tempo sul tema. Non è stato e non è andata così. Ma la convinzione è rimasta la stessa, anzi rafforzata, per uscire definitivamente dalla sudditanza passiva ad una forma di chiesa-cristianità, che peraltro è sempre più evanescente e al tramonto.

Per dire che ormai solo la prospettiva di chiesa nella forma del “predicare il vangelo” è il punto di vista in cui porsi stabilmente e la linea da seguire nel cammino di fedeltà e di ricerca che ci sia dato ancora da fare! È il sogno del vecchio Simeone che prende tra le braccia il Salvatore dicendo: “Luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (Luca 2,32). 

Volendo in qualche modo tenere vivo questo sogno e guardare alla nascita di una chiesa del vangelo, è possibile solo fissare qualche paletto, senza presumere di rivaleggiare con l’esistente. A partire da questa condizione base: che “predicare il vangelo” riacquisti tutta la sua funzione primaria, indipendentemente da condizionamenti religiosi e da intenti teologici di contorno. In effetti, accade che quando il vangelo è recepito in un contesto religioso tradizionale è ritenuto addirittura accessorio e facoltativo, mentre quando viene preso in mano in ambiti di chiesa più aperti è spesso ridotto a puro riferimento ideale. Non è dato vedere se e dove esso abbia effettivamente quel primato e quella centralità che viene formalmente dichiarata: se e dove al primato di valore corrisponda un esercizio di discernimento e di decisione nel proprio modo di essere chiesa.

Dovremmo prima o poi trovarci d’accordo su questo, costi quel che costi: che rifarsi al vangelo in maniera avulsa, o in senso religioso o in senso laico, sempre di sapienza umana si tratta, per cui viene “resa vana la croce di Cristo”. È necessaria una ricomposizione dell’evento “vangelo”, che implica “credere al vangelo”, qualcosa che nasce dal “predicare il vangelo” da parte di chi ne fa ragione e passione di vita per mandato di Cristo, senza se e senza ma!

Non possiamo dimenticare che a dichiararsi “mandato da Cristo” è Paolo in persona: “Il vangelo da lui proclamato, è, anzitutto, parola di Dio e di Cristo. Paolo predica?  Sono il Padre celeste e Gesù risorto, che, mediante lui, interpellano gli ascoltatori provocandoli ad un scelta nuova di vita” (G.Barbaglio,  Paolo di Tarso, le origini cristiane, p. 97). Davvero un bel punto di partenza da recuperare!

 

Alberto Bruno Simoni op

.

.