Koinonia Marzo 2020


Fraternità e fratellanza:

due termini da riscoprire (II)

 

Una visione laica: fratelli e sorelle in umanità

Prima ancora di far riferimento all’insegnamento di Gesù dovremmo riflettere sul fatto che siamo tutti/e fratelli e sorelle in umanità.  Se non siamo capaci di riconoscerci reciprocamente come tali credo che non possiamo riuscire a trovare un linguaggio comune con il mondo laico e con la società secolarizza con la quale malgrado la nostra pretesa di essere i detentori della verità assoluta siamo chiamati a confrontarci.

Siamo chiamati a misurarci nel mare aperto non solo del dialogo ecumenico, ma anche in quello ancora più vasto e sconosciuto del dialogo interreligioso, avendo ben presente che troppo spesso nella storia, anche recente, proprio le diverse confessioni cristiane e le religioni hanno dato un esempio negativo, giusto nel 2018 si è celebrato il primo centenario della fine della I Guerra Mondiale, la Seconda è terminata da 75 anni, ma solo pochi anni fa la ex Jugoslavia è stata il teatro di massacri etnici e religiosi.  Nostro malgrado, siamo sempre più obbligati a confrontarci con una società secolarizzata che non si pone alcun interrogativo riguardo a Dio.

Quando parlo della necessità, direi dell’urgenza, di riconoscerci fratelli e sorelle in umanità non intendo l’atteggiamento paternalistico che troppe volte il mondo occidentale ha avuto, per esempio nei confronti dell’Africa e di altre aree del mondo, attraverso il colonialismo e neppure quello, pur apprezzabile e lodevole, di chi trovandosi in condizioni sociali ed economiche di privilegio opera atti di benevolenza e di sostegno a favore di chi è in posizione inferiore e di bisogno. Intendo invece il riconoscimento di uguale dignità umana, diritti e libertà dell’altra/o e soccorrerla/o, aiutarlo/a poiché si tratta di un essere umano che ha i miei stessi diritti.

Del resto il buon samaritano della parabola si prende cura del viandante senza porsi tante domande sul suo status sociale e religioso, ma lo soccorre perché riconosce in lui un essere umano che ha bisogno: per lui è degno e ha diritto di essere aiutato e soccorso.

Questo riconoscimento della dignità umana è l’anelito che possiamo leggere in filigrana nel concetto di fraternità espresso nel famoso motto della Rivoluzione francese del 1789 “Liberté, Egalité, Fraternité” che purtroppo poi degenerò in violenze e spargimenti di sangue dimenticandosi completamente l’ultima delle tre parole.

Il principio della fraternità universale è enunciato nell’Art. I della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”:  «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali per dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni nei confronti degli altri in uno spirito di fraternità» (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, art.I, Parigi il 10 dicembre 1948).
Riconoscere che tutti gli esseri umani fin dalla loro nascita, indipendentemente dal colore della pelle, dall’area geografica di nascita, dal sesso, dalla lingua sono accomunati dalla medesima condizione è il principio non negoziabile che siamo chiamati a mettere in pratica indipendentemente dalle nostre convinzioni religiose.  Da questo principio traggono origine tutte le iniziative e i programmi di assistenza, soccorso e sviluppo dei tanti organismi internazionali (UNESCO, FAO, UNICEF, OMS, ILO, UNHCR) e di moltissime organizzazioni non governative in cui donne e uomini sono impegnati in prima linea a per soccorrere le vittime delle violenze, della malnutrizione, della siccità a causa delle guerre, dei disastri naturali, della desertificazione, delle carestie, delle epidemie, delle malattie, dello sfruttamento economico, ma anche dei pregiudizi, dell’ignoranza che favoriscono l’affermazione di regimi politici in cui leader spregiudicati e assetati di potere e di denaro seminano odio e morte.

 

La fraternità cristiana

Nel capitolo 2 del libro degli Atti degli Apostoli, a proposito delle prime conversioni e delle prime comunità, ci viene detto che: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” [la Riveduta usa il termine di “comunione fraterna”]. L’apostolo Paolo nella I Lettera ai Tessalonicesi (4, 9s) scrive: “Quanto all’amore fraterno, non c’è bisogno di scrivervi, perché noi vi esortiamo, o fratelli, ad abbondare ancora di più”.

Dietrich Bonhoeffer nel primo capitolo, intitolato “Comunione”, di Vita comune dedica al tema dell’amore fraterno alcune pagine molto belle. Egli sottolinea, riprendendo più volte il concetto, che “la comunione cristiana è tale per mezzo di Gesù Cristo e in Gesù Cristo” sia che si tratti di un unico, breve incontro, che di una realtà quotidiana che dura negli anni.
Vorrei sottolineare tre punti sui quali Bonhoeffer insiste:

La comunione dei fratelli cristiani è un dono di grazia del Regno di Dio.

Il credente, attraverso la presenza fisica del fratello celebra Dio creatore, riconciliatore, redentore, Dio Padre, Figlio e Spirito santo. Da qui l’importanza per il carcerato, il malato, il cristiano nella diaspora della visita, della preghiera comune, della presenza, perché la prossimità del fratello cristiano consente di ritrovare il segno corporale, dato dalla grazia della presenza di Dio trinitario. Analogo concetto lo ritroviamo nell’affermazione di Papa Francesco “comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli” (Papa Francesco prefazione al Documento sulla Fratellanza Umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019)

La fraternità cristiana non è un ideale che noi dobbiamo realizzare, ma una realtà creata da Dio in Cristo, a cui ci è dato poter partecipare. Bonhoeffer ritiene che: “qualunque ideale umano, immesso nella comunione cristiana, ne impedisce l’autentica realizzazione”: Amare il proprio sogno di comunione cristiana più della comunione cristiana effettiva finisce per avere un effetto distruttivo.

Un cristiano si avvicina all’altro solo per mezzo di Gesù Cristo. Si è fratelli solo per mezzo di Gesù Cristo (“Fratelli nel Signore”, Filippesi 1,14). Solo per mezzo di Cristo apparteniamo gli uni agli altri, per mezzo di lui questa appartenenza è integrale, effettiva e per tutta l’eternità. Dio ha già posto l’unico fondamento della nostra comunione, ci ha unito con altri cristiani in un solo corpo, in Gesù Cristo, ben prima che iniziassimo una vita comune con alcuni di loro. Per questo motivo, in questa prospettiva tutta orientata al ricevere, occorre ringraziare Dio per quello che ha operato e perché ci ha dato delle sorelle e dei fratelli.

Bonhoeffer mette anch in guardia dal rischio che comporta la creazione di un movimento, ordine religioso, associazione, circolo devozionale (“una vita comune ordinata secondo la Parola rimarrà sana solo se non si presenterà come”). Egli afferma che la comunità deve riconoscersi come “frammento dell’una, santa, universale chiesa cristiana che partecipa, nell’azione e nella sofferenza, alla miseria e alla lotta e alla promessa di tutta la chiesa”. Per Bonhoeffer ogni idea o pratica di discriminazione intellettuale o spirituale porta al settarismo e può comportare l’esclusione di Cristo.

 

Tracce per un percorso di approfondimenti

In primo luogo, riguardo alla vita delle nostre comunità occorre superare ogni divisione. Non intendo dire che sia da condannare il fatto che esistano affinità personali che portano ciascuna/o di noi a sentirci più in sintonia, più in comunione, più affratellati con certe persone che con altre, ma occorre stare in guardia che il prevalere degli individualismi e delle ambizioni personali siano fonte di divisione. Inoltre bisogna evitare di importare dentro le nostre comunità cristiane gli atteggiamenti ideologici tipici della nostra società: ricco/povero, istruito/ignorante  fascista/comunista, di destra/di sinistra, italiano/straniero, uomo/donne, bianco/nero etc. Ascolto reciproco, gentilezza, comprensione sono gli strumenti per evitare e superare queste divisioni, consapevoli della nostra inadeguatezza con lo sguardo rivolto a Gesù Cristo, lui è l’unico mediatore, il “collante” che tiene insieme le parti e che rende saldo il legame di fraternità.

In secondo luogo le comunità cristiane non devono chiudersi nei propri ambiti chiesastici e ecclesiastici e comunitari, isolandosi dalla società circostante, senza impegnarsi nella testimonianza viva e concreta dell’insegnamento di Cristo. Sia nel rapporto ecumenico con le altre confessioni cristiane sia nella relazione con la società secolarizzata, con i non credenti, ogni forma di settarismo e di chiusura al dialogo e al confronto aperto e sincero comporta un impoverimento reciproco e un tradimento della volontà di Gesù.  Attraverso la conoscenza e il riconoscimento reciproco dei doni, dei carismi e la loro condivisione, si apre la possibilità dell’arricchimento vicendevole, della crescita nella fede, del riconoscimento di quella fratellanza in Gesù Cristo che è più forte di quella basata sui legami sangue, poiché fondata sulla fede comune.

Papa Francesco, il 15 marzo 2013, due giorni dopo l’elezione, nel discorso in occasione dell’udienza con i cardinali ebbe ad affermare: “Il Paraclito fa tutte le differenze nelle Chiese, e sembra che sia un apostolo di Babele. Ma dall’altra parte, è Colui che fa l’unità di queste differenze, non nella “ugualità”, ma nell’armonia. Io ricordo quel Padre della Chiesa che lo definiva così: Ipse harmonia est. Il Paraclito che dà a ciascuno di noi carismi diversi, ci unisce in questa comunità di Chiesa, che adora il Padre, il Figlio e Lui, lo Spirito Santo”.
Questo è il punto di partenza che come cristiani ci obbliga prima di tutto a proseguire con convinzione e determinazione nel cammino dell’unità nella diversità, senza arroccamenti, con menti e cuori aperti nella consapevolezza che poiché la comunione dei fratelli cristiani è un dono di grazia del Regno di Dio non dobbiamo anteporre la nostra volontà a quella del Padre, non dobbiamo frapporre ostacoli alla libera azione dello Spirito santo.


In terzo luogo, occorre tener presente che quando Gesù dice di amare l’altro come te stesso, non restringe questo rapporto ai propri discepoli e ai seguaci, parla in modo universalistico di “prossimo tuo” e “gli uni gli altri”. Come cristiani siamo chiamati con urgenza a vigilare e ad un impegno costante perché Dio ci ha affidato il compito di prenderci cura degli altri e dell’intero creato. La Bibbia ci insegna che Dio ci ha fatto custodi e responsabili di entrambe. La domanda rivolta a Caino “Dov’è, Abele, tuo fratello?”  si risolve nell’insegnamento lasciato da Gesù di amarci gli uni gli altri, di amare il “tuo prossimo come te stesso” e in quel “tuo prossimo” dobbiamo comprendere l’intera creazione di Dio, come ben aveva compreso San Francesco.

Liberandosi dai vincoli e dai pesi del settarismo e del confessionalismo, dall’ambizione di affermare la superiorità della propria identità religiosa, storica, culturale e ritornando alle radici della fede, cioè alla Parola che si è fatta carne in Gesù Cristo, come cristiani dobbiamo imparare a essere testimoni, segni viventi per l’intera umanità della fratellanza universale che altrimenti rischia di restare solo un teorico ideale irraggiungibile.

 

Valdo Pasqui

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