Koinonia Marzo 2020


Libertà religiosa in Italia, fatiche e ferite di un calvario

 

La storia della libertà religiosa in Italia porta con sé le fatiche e le ferite di un calvario, di un percorso spesso in salita e ad oggi non concluso. Il paradosso è che la Costituzione delinea un quadro generale che afferma alcuni principi fondamentali: la non discriminazione dei cittadini sulla base della loro appartenenza religiosa; l’uguaglianza delle diverse confessioni religiose di fronte allo Stato; la possibilità che esse strutturino i loro rapporti con lo Stato sulla base di accordi specifici e – per così dire – rispettosi delle loro specificità dottrinali e rituali. È un quadro organico tenuto insieme dal collante di una “laicità” inclusiva e dialogica che, di fronte alla sfida della società multiculturale, almeno si è mostrata più funzionale dei modelli adottati da altri Paesi.

Eppure, nonostante le rassicuranti formulazioni costituzionali, quella della libertà religiosa resta una strada in salita. Limitiamoci a un dato meramente quantitativo: assumendo che secondo le ricerche più recenti (Idos-Confronti, ma anche Cesnur e altre fonti) i credenti non cattolici presenti in Italia sono ormai quasi sei milioni, ad oggi soltanto il 10% gode del sistema massima di riconoscimento da parte statale, vale a dire quell’Intesa prevista dall’art. 8 della Costituzione che, tra le altre agevolazioni, garantisce l’accesso al sistema di ripartizione dei fondi dell’Otto per mille del gettito Irpef: tra di loro, varie denominazioni evangeliche, a iniziare dai valdesi e metodisti che per primi hanno raggiunto questo obiettivo nel 1984; le comunità ebraiche; induisti e buddhisti e, più recentemente, la piccola componente ortodossa legata al Patriarcato di Costantinopoli, i mormoni.

Restano però fuori da questo cerchio quasi due milioni di musulmani, un milione e mezzo di ortodossi legati al Patriarcato di Romania, quattrocentomila testimoni di Geova, almeno duecentomila pentecostali “indipendenti”. Fuori anche gli oltre settantamila sikh e le migliaia di aderenti ai vari culti di matrice orientale distinti da quelli incorporati nell’Unione induista italiana o nell’Unione buddhista italiana. Loro e molti altri sono figli di un dio minore, e si devono accontentare di norme obsolete di epoca fascista che, già a partire dal titolo, indicano un intento discrezionale e securitario: la Legge sui “culti ammessi” del 1929 e il suo regolamento applicativo dell’anno successivo. O meglio, a ciò che ne resta, dopo vari interventi di cancellazione di alcune norme operati dalla Corte Costituzionale con vari interventi “chirurgici”.

Come mai quest’alternanza di luci e ombre? Che cosa impedisce un intervento legislativo che finalmente garantisca il «nuovo pluralismo religioso» che si è determinato anche in Italia? Dagli anni ’80 ad oggi ci sono stati vari tentativi in questa direzione ma sono tutti falliti. Non è un caso e, forse, una matura democrazia pluralista dovrebbe chiedersi quali siano le ragioni profonde di questa incomprensibile latitanza del legislatore su una materia così sensibile anche sotto il profilo dell’integrazione degli immigrati. Proviamo a rispondere con tre argomenti.

Il primo è la scarsa rilevanza delle grandi scuole di pensiero italiane nei riguardi delle minoranze religiose. Forse per la soggezione nei confronti della Chiesa cattolica, per le classi dirigenti socialiste, comuniste e liberali il tema del pluralismo religioso era secondario rispetto a quello di altre libertà civili. Chi si ricorda delle persecuzioni contro i pentecostali iniziate negli anni ’30 e protrattesi sino agli anni ’50? O delle battaglie antimilitariste compiute in ragione della propria fede da avventisti e testimoni di Geova? O della tenace campagna per la piena applicazione dell’articolo 8 della costituzione compiuta soprattutto da valdesi e altri evangelici? Certo, qualche nome viene in mente come quelli di Lelio Basso, Umberto Terracini, Gaetano Salvemini, Piero Gobetti. Anche di cattolici come Arturo Carlo Jemolo... Ma furono voci isolate e per alcuni aspetti “eretiche” nelle loro stesse case politiche.

Il secondo è la resistenza di una cultura confessionalistica che, a dispetto sia della Costituzione che delle reali dinamiche socio-religiose del Paese, continua a pensare l’Italia in termini di Paese «cattolico» che “concede” alle altre confessioni religiose spazi e diritti che però, in questi termini, rafforzano l’idea di una «religione di fatto di Stato». Sorprende che questo nazionalconfessionalismo trovi consensi sempre più ampi in circuiti culturalmente estranei o marginali rispetto al cattolicesimo, e si esprima in forme rivendicative e identitarie che vanno nella direzione opposta a quella indicata dal Concilio e consolidata in decenni di pratica ecumenica e di dialogo interreligioso.

Il terzo e ultimo argomento è quello dell’analfabetismo religioso di un Paese e di una classe politica che non riesce a leggere il fenomeno religioso contemporaneo se non con le icone dei propri nonni che recitavano il rosario e non perdevano una Messa. Eppure basterebbe poco – anche solo una passeggiata in un quartiere periferico – per scorgere un nuovo profilo religioso delle nostre città e dei nostri quartieri in cui una sala di preghiera islamica si alterna a una chiesa pentecostale nigeriana o a un centro buddhista. La sorpresa è che questo pluralismo vissuto e costruito dal basso mantenga la sua vitalità nonostante il ritardo e le riserve mentali di chi invece, dall’alto, dovrebbe riconoscerlo e valorizzarlo come un prezioso patrimonio sociale.

 

Paolo Naso

in “Avvenire” del 27 febbraio 2020

.

.