Koinonia Marzo 2020


“CONVERTITEVI!” (IV)

 

Parte seconda: Ore decisive, ieri e oggi

 

Convertirsi è prima di tutto accorgersi di questo, scoprendo la gioia del regno come il più autentico “tesoro” a cui attaccare il “cuore” (Mt 6,21). Gesù porta nel mondo una vera e propria lotta, non solo contro le potenze del mondo, ma anche contro tutto ciò che guardato dal solo punto di vista umano sembra la cosa più naturale di questo mondo. Certo egli porta la “pace”, i “settantadue” discepoli li aveva inviati a portare la “pace” in ogni casa, insieme all’annuncio dell’avvicinarsi improvviso del “regno di Dio” e del giudizio ultimo (Lc 10,1-16). E però la pace che dona il Messia non è la stessa che “dà il mondo” (Gv 14,27).

Il desiderio del regno supera ogni cosa: chi ha fame e sete della giustizia del regno non si preoccupa se il gesto che compie per sfamarsi è vietato di sabato: “Il Figlio dell’uomo è Signore del sabato” (Lc 6,5). “Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura” (Gal 6,15). Così come alla gioia e alla potenza del Messia morto e risorto, anche al banchetto del regno a cui egli invita è necessario aderire immediatamente, con passione e gioia, al di là di ogni “Legge” per quanto “santa” (Rm 8,9-13), come vi aderisce colui che ha molta fame e non vede l’ora di sedersi. Egli non ama avere attorno alla tavola i musi lunghi di chi non sente aria di festa; ci potranno anche essere i “cattivi” in mezzo ai buoni purché “la sala” si riempia, ma chi entra senza “l’abito nuziale” adatto all’occasione, rischia d’essere cacciato “fuori nelle tenebre” (Mt 22,10-13).

Se il Messia viene per suonare “il flauto” noi come bambini dovremmo iniziare a ballare (Lc 7,32); come si può non gridare “di gioia” quando è persino la “lingua del muto” a farlo e agli stessi “monti” viene detto di farlo, davanti al Signore che viene a consolare “il suo popolo” (Is 35,6: 49,13)? “Salvatore potente” sarà un giorno il Signore in mezzo a noi; anch’egli “esulterà” per noi “con grida di gioia” (Sof 3,17).

E non dovrebbe essere per noi ogni Eucaristia motivo di queste riflessioni? Non dovrebbe scaldarci il cuore quel banchetto vissuto ogni volta in “memoria” di lui e “nell’attesa della sua venuta”? Non è forse questo e non uno tra i tanti, il “mistero della fede” per antonomasia, un mistero di dolore, gioia e nostalgia insieme? L’immagine più propria del regno di Dio è un banchetto di nozze non un funerale.

Anche qui, dopo duemila anni in cui tale mistero è rimasto sì sulle labbra della Chiesa, ma sempre meno nel cuore dei credenti, è forse necessario ritornare a quel che hanno da dirci i nostri ‘fratelli maggiori’. Sì, c’è una fedeltà al ritmo della storia, una capacità di tenere duro, di chiedere e volere l’impossibile che viene, ancora oggi, dagli ebrei. E che  proprio per questo siamo tenuti umilmente ad ascoltare, come per riconvertirci a quel non ancora a quel bisogno di shalom e pienezza che abbiamo dimenticato. André Neher, riferendosi a quanto scritto da Franz Rosenzweig in una lettera all’ebreo convertito Eugen Rosenstock, dice che “il ruolo occupato dall’Ebreo nella dimensione cristiana è quello del servitore muto che ricorda alla Chiesa, ogni volta che i suoi membri credono di aver assaporato Dio nel pane e nel vino: ‘Signore, ricordati delle cose ultime!’. L’Ebreo è l’eterno segno che avverte il cristiano che la fine non esiste ancora” (Hanno ritrovato la loro anima, percorsi di teshuvah).

 

Non solo in questi nostri difficili giorni le difficoltà stanno aumentando per la nostra fede, ma ad un certo punto anche nel percorso messianico di Gesù aumentarono e di molto. In un momento intimo con i suoi discepoli, quando disse a Pietro che sarebbe stato proprio su di lui, come su di una “pietra”,  che avrebbe edificato la sua Chiesa - così che “le potenze degli inferi non prevarranno su di essa” - ordinerà anche, come già ai demòni, “di non dire ad alcuno che egli era il Cristo”.

Ma da lì in poi tutto si complicherà ancora e dovrà allora dirlo con chiarezza “ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi e venire ucciso e risorgere il terzo giorno”. Un fulmine a ciel sereno: le potenze degli inferi sembravano prevalere. E sarà proprio colui che era “pietra”, colui che era stato appena eletto tra gli apostoli a reagire con impeto. “Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo: ‘Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai’. Ma egli voltandosi, disse a Pietro: ‘Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!’” (Mt 16,13-23). Non è facile la conversione, l’accogliere in sé il pensiero di Dio anziché quello degli uomini, la disponibilità a perdere “la propria vita” insieme al Signore se è necessario; ben sapendo che soltanto così la si potrà ritrovare (Mt 10,39).

La promessa di Gesù, per quanto dura da credere, per quanto assurda, deve restare valida ancora per noi oggi. Promessa era: “Vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto il Figlio dell’uomo con il suo regno” (Mt 16,28). E invece i presenti moriranno, come morirà Paolo, che era convinto di non morire e di essere tra i viventi nel giorno della venuta del Signore che “discenderà  dal cielo” (1Ts 4,16-17).

E noi? Riusciamo ancora a convertirci a questa folle speranza di non morire? A convertirci per non perire con il mondo allo stesso modo in cui sono periti coloro “il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici”, o quelle “diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe”, non certo “più colpevoli” degli altri (Lc 13,1-5)? Conversione non è un semplice pentirsi in vista della remissione dei nostri peccati; con quelle parole Gesù non intendeva minacciare qualcuno, era invece un metterci tutti in guardia.

Qual è il senso vero della conversione cristiana lo dice con una certa chiarezza lo stesso Pietro, nel tempio di Gerusalemme dopo la morte e risurrezione di Gesù: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati (ecco per molti sarebbe già sufficiente così il discorso, accontentandosi di una conversione limitata alla cancellazione del peccato, avendo a cuore null’altro che la salvezza della propria anima. E invece l’invito di Pietro nel testo sacro prosegue diretto, senza nemmeno una virgola che lo separi, per donarci il senso vero e compiuto del suo discorso) e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi colui che vi aveva destinato come Cristo, cioè Gesù. Bisogna che il cielo lo accolga fino ai tempi della ricostituzione di tutte le cose, delle quali Dio ha parlato per bocca dei suoi santi profeti fin dall’antichità” (At 3,19-21).

 

Daniele Garota

(4. fine)

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