Koinonia Marzo 2020


AMAZZONIA

 

Il tema dell’Amazzonia, polmone verde del mondo,  sta a cuore a tutti noi. Papa Francesco, tra l’altro, ha voluto promuovere addirittura un sinodo sull’Amazzonia, un territorio enorme che comprende parte di svariati paesi dell’America Latina ed è popolato da un numero incalcolabile di comunità indigene colpite da sempre, e oggi più che mai, dalla violenza di latifondisti e multinazionali.

Questi gruppi di potere,  per accaparrarsi il legname, i minerali, il petrolio di cui è ricco il suolo e il sottosuolo amazzonico, non fanno che occupare sempre nuove porzioni del territorio, cacciando gli abitanti con ogni mezzo, anche con l’omicidio di leader indigeni.

Le scelte economiche dei governi, di tutti i governi sudamericani, hanno sempre avuto conseguenze devastanti per il territorio. Si tratta di una pratica che prende il nome di “estrattivismo” (1). Il terreno viene disboscato e poi utilizzato per produrre beni destinati alla sola esportazione (soia, animali da carne…). In alcune zone deforestate vengono anche piantati eucalipti. Questi alberi, crescendo rapidamente, forniscono in breve tempo una grande quantità di legname, ma impoveriscono il terreno, provocando desertificazione e siccità. Vengono poi attivate nuove miniere di modo che l’estrazione dei minerali, aumentando a dismisura, permetta guadagni sempre maggiori, ma al tempo stesso gli scarichi industriali avvelenano il terreno. La costruzione di enormi dighe, inoltre, con l’allagamento di vaste aree, rende impossibile la vita per numerose comunità indigene, penalizzate, se ciò non bastasse, anche dall’inquinamento delle acque dei fiumi, di cui l’Amazzonia è ricchissima, con la conseguente perdita della fauna ittica. Tutto ciò induce gli abitanti originari, gli indios, ad abbandonare le proprie terre e ad accamparsi nelle zone limitrofe rispetto alle grandi vie di comunicazione, vivendo di espedienti; oppure vanno a ingrossare le periferie delle città, prive dei servizi più elementari.  

I popoli nativi perdono così il loro rapporto con la terra, con le foreste, con le acque dei fiumi (2). Non sono più cacciatori, né pescatori, né piccoli agricoltori. Spesso vengono abbagliati dalle sirene della modernità, ma in realtà vanno incontro al nulla. Di qui la facilità con cui i giovani indios, privati dei riferimenti culturali religiosi e sociali delle comunità di appartenenza, cadono nel circuito della droga come consumatori e spesso come spacciatori; e il numero dei suicidi è impressionante.

A prima vista si potrebbe pensare che i responsabili di questo stato di cose siano soltanto le forze conservatrici e reazionarie  che da qualche tempo hanno ripreso a governare in quasi tutti i paesi del continente, e in effetti i provvedimenti attuati recentemente non hanno fatto che aggravare la situazione. Politici come Bolsonaro in Brasile, ad esempio, abolendo le difese legislative a favore delle comunità indigene, incentivano questi processi, favoriti anche da un uso distorto e strumentale dei mezzi di comunicazione di massa che presentano la “nuova conquista” dell’Amazzonia come uno strumento necessario per introdurre il progresso in aree che altrimenti ne sarebbero state tagliate fuori.

Ma non basta. Sempre in Brasile, che occupa almeno la metà di tutta l’area amazzonica, il governo respinge le previsioni “catastrofiche” degli scienziati riguardo al futuro del pianeta: lo sfruttamento intensivo dell’Amazzonia non provocherebbe danni all’ambiente, né in Brasile, né tantomeno nel resto del mondo, quando tutti sappiamo che proprio l’Amazzonia è il più grande polmone verde del pianeta. Per di più l’attuale governo reazionario di Bolsonaro diffonde l’idea che il fronte ecologista mondiale vorrebbe fare dell’Amazzonia una regione sottratta alla giurisdizione del Brasile: si tratta di una propaganda di tipo nazionalista (non nuova, peraltro) che sta raccogliendo non poche adesioni.

Bisogna purtroppo segnalare, e con dolore, che le politiche “estratti viste” sono state praticate anche dai governi progressisti, sebbene con finalità sociali, dato che la distribuzione della ricchezza ha avvantaggiato gli strati più bassi della popolazione.. L’esempio del Brasile non lascia dubbi. Negli anni dei governi di centrosinistra di Lula e di Dilma Rousseff i benefici ottenuti con l’estrattivismo sono serviti in larga misura per mettere in piedi uno stato sociale (sostegno economico per le famiglie povere, scuola e sanità gratuite…); mentre con l’avvento del governo Bolsonaro le privatizzazioni su larga scala hanno arricchito solo le fasce alte della popolazione. Tuttavia sotto il profilo ambientale le scelte dei governi democratici e di quelli conservatori sono state sostanzialmente le stesse. Non è un caso che le componenti indigene, che in un primo tempo avevano riposto le loro speranze nelle promesse dei governi progressisti, se ne siano allontanati proprio a causa delle politiche estrattiviste di questi ultimi. E questo fattore è stato una delle cause della loro recente sconfitta.

Una situazione, dunque, che non vede via di uscita?

Qualche speranza in un cambiamento positivo si può ancora riporre nella mobilitazione dei popoli originari, mai come oggi determinati a difendere il proprio territorio, le proprie lingue, le proprie culture. E anche là dove la loro presenza numerica è ridotta l’alleanza con altri soggetti sociali (si pensi ai “senza terra” del Brasile) può incidere in senso positivo per un cambiamento politico grazie al quale la difesa dell’ambiente amazzonico diventi finalmente una scelta prioritaria.

 

Bruno D’Avanzo

 

NOTE

 

(1) Il termine “estrattivismo” indica quel processo di sfruttamento intensivo del territorio, al fine di produrre sempre di più e nel modo più rapido possibile per incrementare le esportazioni. Le conseguenze di questo tipo di sfruttamento, a dispetto della propaganda promossa dai mezzi di comunicazione di massa che ne lodano acriticamente i risultati, ricadono però sulle spalle degli abitanti di quelle terre, peggiorando le loro condizioni di vita e costringendoli in certi casi a emigrare.

(2) Fino a quando la distruzione progressiva dell’Amazzonia non costringe gli indios ad abbandonare il proprio habitat naturale, si può dire che fra loro e la foresta esiste un rapporto tutto particolare che noi occidentali, oggi, facciamo fatica a comprendere.

A buon diritto gli indios possono essere chiamati  “custodi della foresta”. Della foresta si servono per la raccolta dei suoi frutti, per la caccia, per la pesca e anche per il legname, ma solo nei limiti di quello che serve per la loro sopravvivenza.

La terra, le acque, gli alberi, le pietre hanno per i nativi un carattere sacro. Guai  a inquinare i fiumi, ad abbattere più alberi del necessario, a cacciare e uccidere animali o pescare pesci se già i frutti della caccia e della pesca sono sufficienti.

Ecco perché, soprattutto in questo momento storico in cui aumenta la consapevolezza dei pericoli insiti nell’eccessivo sfruttamento delle ricchezze della terra, (col conseguente deterioramento dell’ambiente) i modelli di vita degli indios hanno non poche cose da insegnarci.

.

.