Koinonia Marzo 2020


Cristianesimo di appartenenza

e cristianesimo di esperienza

 

Cristianesimo (christianisme) è una parola che comincia bene e finisce male, come tutte quelle parole appesantite da quello che lo scrittore Michel de Unamuno chiama il fatidico suffisso -ismo (isme) che irrigidisce in dottrina tutto ciò a cui aderisce. Bisogna ricordare innanzitutto che la parola ‘cristianesimo’, o più esattamente la parola ‘cristiano’ è stata utilizzata all’inizio per dare un’identità fittizia a coloro che indicavano se stessi con quella misteriosa parafrasi: “quelli che seguono la Via”. È scritto negli Atti degli Apostoli. Ora, un’identità è qualcosa di fisso, mentre una via è inscritta in una dinamica in cui, ad ogni passo l’esistenza è come superata da se stessa. Ogni strada può avere un significato metaforico, convoca verso un altrove che non è una destinazione, ma “il modo con cui si procede”, come dice Kierkegaard. In questo senso, la Via dell’Evangelo è passaggio attraverso cui transita l’appello a esistere staccandosi dalle aderenze che offre sempre un luogo, tanto più un luogo «sacro», certamente propizio alla superstizione, ma non alla fede. Si capisce che abbiano trovato più comodo identificare quelle strane persone che seguivano la Via, affibiando loro questa qualifica inventata da loro, relativamente peggiorativa perché significa letteralmente “i partigiani dell’Unto”, (Cristo, in greco significa «colui che ha ricevuto un’unzione con olio sulla testa»). Da allora il termine «cristiano» e il suo sostantivo «cristianesimo» si sono definitivamente imposti, ma non si dovrebbe mai dimenticare che essi identificano soltanto in rapporto a colui che dice di se stesso: ”Io sono la via, la verità e la vita”. Poiché quindi non si può fare a meno del termine «cristianesimo», possiamo almeno distinguere i due significati a cui rimanda: quello a cui siamo abituati identifica il cristianesmo con un’appartenenza religiosa (che si basi su un’adesione più o meno consapevole o su un sentimento di appartenenza più diffuso non cambia niente: l’ideale di un tale cristianesimo ha potuto essere formulato in termini di cristianità); quello che dobbiamo riscoprire e inventare ricorda che il cristianesimo ha senso soltanto nel condividere l’esperienza di quelli che seguono la Via dell’Evangelo.

Il cristianesimo di appartenenza è un prestanome e un malinteso. L’epiteto di ‘cristiano’ può essere dato in realtà a un’adesione ricevuta (scritta su un registro battesimale), o a una ‘pratica’ domenicale estranea alle sfide esistenziali? (Che la devota assistenza registrata alla funzione domenicale durante la quale ci si accontenta di ascoltare svogliatamente il prete o il pastore, sia diventata il criterio determinante della “pratica”, la dice lunga  sullo straordinario impoverimento del cristianesimo....). In realtà, l’appartenenza al cristianesimo si basa su un’affermazione di principio: si riconosce un carattere cristiano unicamente perché lo si ricollega a un’identità che si suppone corrisponda al cristianesimo, senza interrogarsi oltre su ciò che merita o no questo nome. Siamo persino arrivati a pensare di potersi dire cristiani senza credere e senza vivere la fede, come se l’identità cristiana fosse un’adesione come un’altra, aggiunta alla nascita e ratificata più tardi col battesimo. In questo concetto di identità c’è qualcosa di necessario e di ineluttabile, ma anche di superficiale e di leggero: al limite, l’identità cristiana è l’ultimo strato di vernice steso sui vari livelli di appartenenza della persona. E, dunque, fatalmente, il primo a screpolarsi...

      Dobbiamo dire che, a differenza del cristianesimo di esperienza che paradossalmente si distingue per la sua inesistenza (nel senso in cui rinvia sempre a un eccesso, il Regno), il cristianesimo di appartenenza persuade della sua esistenza per la sua stessa evidenza: si scopre dalla chiesa in mezzo al paese (anche se oggi il paese non va più in chiesa...). Infatti, ha dalla sua parte la prova della quantità, cosa che autorizza la misurazione (statistiche, sondaggi, calcoli di ascolto): la “religione cristiana“ non conta forse a occhio e croce più di un miliardo e mezzo di abitanti del nostro pianeta? Ha anche la prova dell’antichità, che permette il lavoro dello storico, dell’esegeta (e anche del teologo) e che autorizza sia l’ideologia dei conservatori che quella dei progressisti. Infatti, il cristianesimo di appartenenza si dà come un’eredità del passato (che si tenterà di conservare o di riformare) alla quale ci si appella per contrassegnare simbolicamente (o “folkloristicamente”) i due termini della vita: all’origine la nascita, alla fine la morte. Tra i due, non un gran che... (Per forza il cristianesimo diventa  la religione dei bambini e dei vecchi...). Questa è la ragione per cui il cristianesimo come appartenenza ha qualcosa della fiction, di un prodotto della tendenza attuale alla “patrimonializzazione”, quel bisogno molto “postmoderno” di conservare e di commemorare. Mi stupisco che non si sia ancora fatto rientrare il cristianesimo nella lista del patrimonio materiale e immateriale dell’UNESCO!

Una tradizione monumentale, ecco la definizione migliore per un cristianesimo di appartenenza. I  monumenti di pietra, le chiese e le cattredali, così come il cumulo di opere prodotte in tanti secoli “cristiani”, portano facilmente a credere che il cristianesimo sia un fenomeno religioso e culturale che soddisfa l’idea che ci si fa di una religione. Un monumento è fatto per durare. Non deve quindi sorprendere che il senso irrigidito dell’idea di tradizione abbia finito per soppiantare l’idea che la fedeltà non è veramente fedele se non è creativa. Lo dimostra la parola della stampa che, quando evoca ancora, furtivamente, il cristianesimo, abusa del registro della tradizione: “Il papa, nella sua tradizionale omelia di Natale, ha detto....”; “Secondo la tradizione cristiana, la Pasqua celebra la risurrezione di Cristo...” ecc. A dire il vero, i giornalisti non hanno tutti i torti, perché un cristianesimo di appartenenza è essenzialmente un cristianesimo tradizionale o, come ho già detto un monumento (per non dire un monumento funebre...) Monumentale è l’accumulazione progressiva di un cristianesimo ostentato e quasi tentato, fin dall’origine, dall’idolatria delle sue rappresentazioni allo specchio, di cui si compiace: il suo culto, la sua immagine mondana, la sua organizzazione ecc. Anche la dottrina del cristianesimo è, per certi versi, massiccia (ci se ne rende meglio conto a partire dalla sua ignoranza). Ma, a pensarci bene è la monumentalità o, almeno, l’idolatria che suscita, che rende il cristianesimo sospetto di non-esistenza o, per lo meno, di dubbia esistenza. Ecco apparire allora questo sbalorditivo paradosso: il cristianesimo più visibile, più presentabile, è un cristianesimo di appartenenza, mentre il cristianesimo inesistente ha, da parte sua, risorse che lo rendono abbastanza presente. Una vita ordinaria che non è messa sotto i riflettori, umile perché radicata in un’esistenza vissuta sotto le specie del dono e della gratuità, dà la misura della manifestazione del cristianesimo più delle dimensioni della basilica di San Pietro a Roma.

Ma perché abbiamo sostituito il cristianesimo come esperienza della Via col cristianesimo di appartenenza? La risposta è piuttosto semplice: un cristianesimo di appartenza vende identità; meglio, vende assicurazione (un tempo “assicurazione vita” eterna, oggi assicurazione della gente che conta), mentre un cristianesimo di esperienza invita sempre al rischio della fede. La preoccupazione del cristianesimo di appartenenza  consiste nell’essere attraente sul mercato dei bisogni religiosi dell’Io, il primo dei quali in assoluto è di sentirsi valorizzato da Dio e dalla comunità della gente che conta  che sono i cristiani. Il cristianesimo d’appartenenza è, in questo senso, una religione come le altre: prima vendeva credenze (oggi meno attraenti sul mercato del religioso); oggi vende valori (più facili da commerciare) e riti (non passano mai di moda). D’altronde, per prendere garbatamente in giro questa tendenza “mercantilista”, Kierkegaard chiamava questo cristianesimo la “ditta Gesù Cristo”! Il filosofo e psicanalista ebreo Daniel Sibony ha individuato bene la molla interna della “vendita” di appartenenza religiosa: “Ma appartenenza a cosa? E perché? Essi vendono loro fede narcisistica, in se stessi o in Dio, un Dio che si è dimostrato valido...poiché si crede ancora in lui. E non appena i giovani trovano la falla di questo narcisismo degli adulti (insegnanti o genitori) ne segue un certo rigetto.” Non senza ironia, Sibony scopre ciò che noi preferiamo nascondere: il bisogno di appartenenza, come ogni bisogno religioso d’altronde, viene dalla tendenza narcisistica presente in ogni Io. Ancora più sorprendente: è proprio questo bisogno di appartenenza che spiega nel modo migliore la difficoltà che il cristianesimo ha nel trasmettersi ai nostri contemporanei. Se prima la religione era il luogo centrale per la valorizzazione narcisistica dell’Io (anche quando l’Io era obbligato a confessare i suoi peccati... ma era solo per uscirne in stato di grazia!), oggi essa fa una misera figura davanti alle “fabbriche” attuali del rinforzo dell’Io. Certi giovani che seguono ancora i “riti di passaggio” cristiani (come la “prima comunione” o la “cresima”) capiscono velocemenete che i loro genitori vogliono vendere loro appartenenza religiosa, ma già da soli hanno da tempo capito che il denaro o il successo soddisfano il bisogno narcisistico molto meglio della preghiera o dell’assistere alla messa....Si capisce allora perché il cristianesimo di appartenenza non risponde più ai bisogni di valorizzazione: lo fa il denaro al suo posto e molto meglio (anche se c’è un prezzo da pagare). E poi come credere a un cristianesimo che fa finta di credere!

È così che il cristianesimo di appartenenza ha perduto la sua forza: fa sempre meno adepti; allora cerca (invano) di attirarli.  Kierkegaard prende in giro questo modo di fare: fa parlare un “esagitato”che si dà da fare per convertire i suoi simili: “Ecco ti ho portato diecimila adepti: ne ho convinti alcuni piangendo sulle miserie del mondo e annunciando la sua prossima fine, altri rivelando ai loro occhi le luminose e ridenti prospettive se accettavano la mia dottrina, altri ancora in diversi modi, togliendo un po’ da una parte, aggiungendo un po’ dall’altra”. […] Si usa, cioè, una strategia “commerciale”, sia cercando di fare nuovi adepti giocando sulle loro paure (ma questo non funziona più), sia cercando di sedurli, puntando sulle loro illusioni di felicità e di realizzazione personale (e questo più o meno funziona). Anche se continua a vendere appartenenza, il cristianesimo è stato obbligato a cambiare “strategia”. Ora cerca di mostrarsi attraente per acquistare nuovi clienti sul mercato della spiritualità e della ricerca del senso. Già nel suo tempo, Kierkegaard si prendeva gioco di questa tattica commerciale: “Ma guardiamoci dal fare del cristianesimo invecchiato un albergatore in rovina che cerca un nuovo sistema per attirare i clienti!”

 

Dominique Collin  op

In Le christianisme n’existe pas encore, Editeur Salvator, 2018.

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