Koinonia Febbraio 2020
“CONVERTITEVI!” (III)
Parte terza: Ore decisive, ieri e oggi
Rimediare al male e alla morte, vincerli, non è cosa da poco, nemmeno per Dio che, nel Figlio, ne prese forse coscienza come mai prima proprio là, “nel deserto…, tentato da Satana”, in mezzo alle “bestie selvatiche” e agli “angeli” che “lo servivano” (Mc 1,12).
Allora come ora compiersi del tempo e necessità di conversione non indicano un semplice invito a diventare più buoni, qui si ha a che fare con un annuncio potentissimo che apre alla novità assoluta del “regno di Dio” che sta per irrompere (Mc 1,14), un vero e proprio terremoto che agiterà l’intero mondo fino a oggi, e che sarà preso a riferimento anche dalle grandi forme secolarizzate di utopia e rivoluzione in larga parte fallite. È dunque un tempo che proprio in quanto si deve ancora compiere necessita di una conversione sempre più urgente.
Gesù fu molto esplicito: “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12). Per questo convertirsi significava abbandonare tutto per aprirsi al “fuoco” appiccato da colui che era “ più forte” del Battista, e che avrebbe bruciato “la paglia con un fuoco inestinguibile” (Mt 3,11-12). Egli era lo “sposo” che con la sua presenza improvvisa avrebbe condotto la stessa storia a compimento (Mc 2,19); fatto invecchiare tutto ciò che fin lì era stato; il “vino nuovo” del suo regno non avrebbe potuto essere versato negli “otri vecchi” fin lì usati, pena la rottura, la perdizione (Mc 2,22). Era perciò necessaria una decisione assoluta: una volta partiti mettendo “mano all’aratro” guai a voltarsi “indietro” (Lc 9,62). Convertirsi significava accorgersi dell’insufficienza della realtà del mondo vissuta fino a quel momento, per aprirsi alla realtà nuova che stava per irrompere e della quale avevano parlato i profeti d’Israele: “lupo” e “agnello” che dimorano insieme (Is 11,6); Dio che elimina “la morte per sempre” asciugando “le lacrime su ogni volto” (Is 25,8); “nuovi cieli e nuova terra” nei quali “si godrà e si gioirà per sempre” (Is 65,17-18).
Il regno è materiale, perfettamente terrestre, riguarda la nostra vita corporea così come la conosciamo qui e ora nelle nostre quotidianità, riguarda il futuro promesso che tutti vedranno in maniera pubblica e incontrovertibile. Nulla ha perciò a che fare il regno con certe spiritualizzazioni che lo proiettano tutto nell’aldilà celeste, nell’invisibile, nell’eterno presente. Non ha insomma a che fare, la redenzione attesa, con l’“gli ascensori” che salgono nei piani alti dei “grattacieli spirituali” – per dirla con espressioni tutte ebraiche di Jacob Taubes –, ma con il “il ponte levatoio che si trova sull’altra sponda” (La teologia politica di San Paolo). Il Cristo di nuovo verrà “con grande potenza e gloria” (Mt 24,30), la “nuova Gerusalemme discende dal cielo” (Ap 3,12). Dunque niente fughe dal mondo, niente evasioni verso un qualche aldilà; nel regno a salvarsi siamo noi e il mondo del qui e ora, quel “mondo” che Dio “ha tanto amato da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16).
Per questo la conversione doveva essere assoluta quanto immediata. C’era poco da tergiversare; nella cerchia del Messia non trovavi traccia di smancerie devote ma zelo di zeloti (cf Lc 6,16), “figli del tuono (Mc 3,17), gente capace di camminare spedita e senza “sandali” ai piedi, gente capace di vendere il proprio “mantello” per comprarsi una “spada” (Lc 22,35-36), gente dallo sguardo di fuoco e con ardore nel petto; quella del Messia era una vera e propria guerra, egli in quei giorni non portava “pace sulla terra” ma divisione, il suo arrivo avrebbe messo “padre contro figlio e figlio contro padre” (Lc 12,51-53). Il suo non era messaggio per indecisi, ma questione di vita e di morte: il Messia poteva perdere la sua battaglia e finire crocifisso. Chi non era in grado di portare insieme a lui “la propria croce”, non poteva essere suo “discepolo” (Lc14,27). Insipida era la fede di coloro che s’adagiavano sul: tranquilli, tanto è già tutto scritto che deve andare così. Non è messinscena e commedia la morte del Signore: Gesù agonizza con sudore “di sangue” (Lc 22,44) e gran paura di morire. Gesù muore gridando a Dio perché lo ha “abbandonato” (Mt 27,46; Mc 15,34); e se i vangeli di Luca e di Giovanni mostreranno un Gesù morente più sereno, è per consolarci con un già che pure ci è stato offerto e senza il quale non saremmo qui a parlare di queste cose. Ma lo scandalo deve restare tutto se vogliamo aderire fino in fondo alla verità del vangelo, come diceva Karl Barth.
Sulle prime ci fu un fiducioso entusiasmo: “I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: ‘Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome’. Egli disse loro: ‘Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore’”. “Tutta la potenza del nemico” stava sotto i loro piedi e i loro nomi erano già “scritti nei cieli”. E davvero “beati” erano i loro “occhi”, che stavano vedendo ciò che “molti profeti e re” desiderarono vedere “ma non lo videro”, ascoltare ciò che essi ascoltavano “ma non lo ascoltarono” (Lc 10,17-24). E tuttavia tale entusiasmo durò poco e ci si dovette presto accorgere del rifiuto dei più. Quando Gesù percepì vicina l’ora della morte e prenderà “la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme”, quando il rifiuto della gente si fece ancora più pesante, gli animi di Giacomo e Giovanni si accesero subito, al punto da chiedere a Gesù: “vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. Certo Gesù li rimprovererà, ma l’aria che si respirava attorno a lui era quella, fino al tradimento di Giuda e di Pietro, fino al Getsèmani e al Golgota (Lc 9,51-55). I discepoli erano stati inviati “senza borsa, né sacca, né sandali” e non gli era mancato “nulla”, è vero. “Ma ora”, che è l’ora dell’agonia del Getsèmani e del “compimento” di ciò che lo riguarda, “chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una” (Lc 22,35-37).
I discepoli di Gesù erano pescatori, gente di popolo, e però ambivano a sedere in alto accanto al loro re nel “regno” (Mt 20,21); e certamente godendo all’idea di vedere al più presto capitombolare “i potenti dai troni” e innalzare “gli umili”, come avevano annunciato le santissime labbra di Maria portandolo in grembo (Lc 1,52-53). Gesù avrà bisogno di gente pronta a lasciare tutto per seguirlo e condividere insieme a lui il cammino, per portare a tutti l’annuncio e a qualsiasi costo. Anche questo Maria sapeva e custodiva, meditandolo “nel suo cuore” (Lc 2,19) prima di viverlo “presso la croce” (Gv 19,25). E proprio a Gerusalemme “Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui” glielo aveva detto chiaramente, accogliendo “tra le braccia” il bambino: “Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima – affinché siano svelati i pensieri di molti cuori” Lc 2,25.28.34-35).
Gesù parlerà con forza di questa contraddizione, di questa dura lotta: “Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino. Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde” (Lc 11,21-23).
Non seguirlo, rifiutare di accogliere il suo messaggio, è rifiutare “il giudizio di questo mondo” rimanendo tra le grinfie del “principe di questo mondo”, che deve essere prima possibile “gettato fuori” (Gv 12,31). È insomma accettare le cose così come stanno, è vivere il normale corso della storia del mondo come provvidenziale. È accontentarsi del tranquillo vivacchiare con gli “otri vecchi” di sempre senza nemmeno sospettare che mai potranno contenere il “vino nuovo” del regno senza spaccarsi. In definitiva, nessuno abituato a bere “il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: ‘Il vecchio è gradevole!’” (Lc 5,37-39).
Daniele Garota
(3.continua)