Koinonia Febbraio 2020


IL CRISTIANESIMO CHE ANCORA NON ESISTE

 

Secondo il domenicano Dominique Collin, oggi bisogna riconoscere che Il cristianesimo ancora non esiste (Le christianisme n’existe pas encore, Editeur Salvator, 2018) e questo in un duplice senso, uno negativo e uno positivo. Collin chiama “cristianesimo di appartenenza” quello che vive il suo rapporto col tempo secondo la storia, come durata, cosa che l’autorizza a ‘conservare’, Esso comprende la sua fedeltà a partire dal passato. Cristo, che è venuto 2000 anni fa e che deve tornare in un’ipotetica ‘fine dei tempi’, è stato relegato alla storia o al devozionismo pio. Conservatori e progressisti sono le due facce di una stessa medaglia: i primi vorrebbero tornare ai bei vecchi tempi, i secondi tornare al cristianesimo primitivo, prima di Costantino. Sono ambedue delusi e inquieti perché pensano o che il cristianesimo si è fuorviato patteggiando con la modernità, o che non si adatta abbastanza ai tempi moderni. 

Collin relativizza anche il Vaticano II, in quanto non ha cambiato il paradigma di fondo: “L’aggiornamento è stato solo pastorale, mentre avrebbe dovuto reinventare il significato ultimo del cristianesimo”. L’urgenza non è quella di riformare le Chiese cristiane, ma di “riaffermare i concetti decisivi del cristianesimo”. È proprio il “Convertitevi e credete al Vangelo” che resta la parola di Cristo più difficile da accettare per il cristianesimo. La ‘metanoia’ deve essere continua, in quanto non permette mai di installarsi in una situazione raggiunta.  Noi cerchiamo un rimedio alla crisi della trascendenza della fede in ciò che è stato, invece di cercarlo in ciò che è diventato possibile con Cristo.  L’evento Cristo oggi non ‘parla’ più, perché il nostro rapporto col tempo è diventato impermeabile all’evento. Il Vangelo è compromesso quando non è più quell’evento di parola che chiama ad ‘esistere diversamente’, ma un messaggio ideologico che si accontenta di dare l’illusione di essere cristiani. 

La crisi del cristianesimo è una crisi di linguaggio, di parola: la parola cristiana è malata: prima suscitava resistenza, oggi indifferenza. A proposito del linguaggio del cristianesimo di appartenenza, Collin parla di bondieuserie. La traduzione letterale del termine è ‘bigotteria’, ma non ha niente a che vedere con la nostra devozione popolare. È il linguaggio di una religiosità narcisistica che comprende tutta la mitologia dello ‘sviluppo personale’, ‘ricerca della felicità’, tutto il ‘mercato della spiritualità’, insomma ogni parola, anche se generosa e fraterna, ma che è solo umanesimo e non si affida completamente a Dio. Neanche il discorso della ‘ricerca di senso’ è vero cristianesimo per Collin, perché, dice, il Vangelo è semmai in-sensato perché obbliga ad ascoltare con altri orecchi (“Hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non sentono...”); il suo unico senso è il Regno di Dio.

Egli oppone ‘credenza’ a ‘fede’ ed esemplifica questa differenza a proposito della risurrezione: la fede in una vita che nasce ogni giorno dalla morte dell’Io è deludente, gli si preferisce quindi credere in una vita dopo la morte. In questo modo combattere l’angoscia della morte è più facile che non aderendo all’inverosimile proposta del Vangelo di morire ogni giorno a se stessi per rinascere continuamente. Insomma la credenza è più attraente della fede. La credenza vorrebbe una realtà diversa, la fede ci fa vivere nella realtà diversamente. Le credenze, in tutte le religioni, sono solo utili a proteggersi, individualmente e collettivamente, dalla minaccia della delusione e, poiché la miglior difesa è l’attacco, sono quindi tentate a volte dal fondamentalismo. La credenza si protegge anche dal senso di insicurezza generato dal carattere metaforico della parola evangelica. Per questo, dice Collin, preferisce le lingue morte (latino e arabo coranico per i mussulmani) alle parole vive che possono mettere a disagio.

Il vangelo è decisamente inverosimile se si ricorda che il ‘felice annuncio’ consiste nell’incoraggiare l’Io a distruggersi. Questo è vero soprattutto oggi che viviamo il punto d’arrivo dell’impresa moderna della soggettivazione, da Descartes a Hegel, per cui nessuno può desiderare di ‘perdere la propria vita’. Gli apostoli sono i primi a non capire, perché la parola di Gesù è ‘incomprensibile’.

Il criterio che distingue il linguaggio della fede da quello della bondieuserie sta nella loro capacità di sostenerci, o no, di fronte alla mancanza (faille) che il Vangelo apre. Il cristianesimo non esiste quando è “ricopertura di questa mancanza; comincia a esistere quando la riconosce e le risponde in modo deludente, in modo che il suo messaggio più prezioso e innovatore sia proprio la delusione (‘scandalo per i giudei e follia per i greci’)”. “In hoc signo vinces” è il contrario del linguaggio della croce che dice che per vincere bisogna perder(si). I cristiani di appartenenza preferiscono il miraggio della potenza e l’illusione della sicurezza all’idea di dover passare dalla perdita del proprio Io.

Per Collin il cambiamento della fede in credenza è anteriore al cristianesimo come religione ufficiale (quindi ancora prima di Costantino). Prima di tutto a livello di linguaggio (il Vangelo è un evento di Parola). Dall’ebraico emounah (dare fiducia senza prove), dal greco pistis e dal latino fides che conservano lo stesso significato, a partire da Tertulliano, pistis diventa opinio e confidere diventa credere. Si passa quindi dalla fede come “verità di un’esperienza che solo la fiducia rende possibile” alla credenza/opinione che “cerca delle prove per esimersi dalla prova della fiducia“ (che può sempre essere tradita). Per Kierkegaard, poi, è stato sant’Agostino, seguendo Platone e Aristotele, ad ingarbugliare ulteriormente le cose, riportando il concetto di fede nella sfera dell’intellettualità. “Resa quindi fragile dal dubbio, la credenza si è messa a cercare ragioni per credere, senza rendersi conto che la ragione avrebbe finito per ‘avere ragione’ di lei. Battuta sul suo stesso terreno, la credenza è impazzita (guerre di religione, processi alle streghe...), al punto da sembrare di ‘sragionare’ agli occhi di una ragione moderna che si è sempre più emancipata fino alla rottura”.

Di fronte al cristianesimo di appartenenza, Collin pone il cristianesimo di esistenza, un cristianesimo che esiste solo come testimonianza attuale di un evento che si è verificato una volta per tutte. Evento è qualcosa che avviene senza un perché, senza una causa ed è dunque particolarmente difficile da accettare dalla nostra mente che lavora con la logica causa/effetto. E, ancora, evento è l’a-venire di un fatto per colui a cui capita; si riconosce retrospettivamente in quanto “si fa memoria dell’a-venire della promessa di cui è gravido ogni evento“.

Il cristianesimo non esiste quindi, questa volta in senso positivo, perché ci rimane  da inventarlo, pensando diversamente da ciò che l’ha reso possibile: l’evento Cristo che lo ha fatto nascere non è ancora stato provato in tutta l’estensione e profondità che appunto lo indicano come un evento: non è stato compiuto nelle nostre vite, anche se può essere da noi anticipato accettando il dono della fede, della speranza e dell’amore. L’a-venire di questo evento è molto più importante della sua tradizione che, quindi, può essere relativizzata.

Si è visto che il Vangelo, per Collin, è un evento di Parola, un nuovo ‘sistema di parola’ che veicola, per chi l’accoglie, quella vita diversa che Collin chiama “esistenza”: “Quella che io chiamo esistenza non è altro che la risposta liberamente data alla ‘parola-desiderio’ originaria”. E cita, a questo proposito, un versetto della lettera di Giacomo (1,18): “Dal suo desiderio (volontà nella tradizione corrente) Dio ci ha generato per mezzo della parola di verità”.    

Il lavoro di Collin si propone di offrire regole di linguaggio perché il Vangelo sia veramente detto come E-vangelo. Il Vangelo è una buona notizia nella misura in cui “corrisponde al desiderio dell’uomo facendogli subire una trasformazione radicale, indicandogli ciò che la fede può sperare contando solo su se stessa”. Così intesa, “la fede è accesso all’esistenza del sé davanti all’Altro e non alimento per i bisogni spirituali dell’Io”; è “esposizione all’Altro come l’esistenza è esposizione all’evento”. Il rapporto con il fratello è il nodo più importante  dell’esistenza.

In fondo non c’è che una sola regola, dice il domenicano, quella della parresia, la sicurezza e la franchezza che fanno corpo con la parola che interloquisce. La parresia rende possibile la fiducia. Allora il Vangelo diventa una “buona notizia”, ma solo per chi abbandona la sicurezza del verosimile e del possibile, osando voltare la schiena all’Io che è, per avventurarsi in direzione del Sé che potrebbe diventare. A questo proposito, già François Jullien, parlando di Bios e Zoè, ricordava le parole di Gesù: “Chi perderà la propria vita la troverà”. In questa logica, Dio è un nome per dire la Parola che invita l’uomo a esistere per la fede, la speranza e l’amore, cioè a vivere di pura grazia, liberi dalla necessità della natura e dalla fatalità della storia. (“È stato detto... ma io vi dico..”).

Allora, si chiede a un certo punto Collin, il cristianesimo è impossibile? “Questo ‘Regno’ le cui frontiere sono, a monte il dono e a valle il perdono, ci chiede di vivere secondo queste due ‘specie’. Questa è l’impossibilità che il cristianesimo ha come missione di far diventare possibile”. In questo senso il Cristianesimo è ‘politico’ in quanto introduce nel cuore del mondo un principio critico che mira a rompere l’egemonia dell’avere e del potere nei rapporti umani. Solo così il mondo potrà salvarsi e sarà raggiunta la salvezza del Regno di Dio.

Nonostante il titolo ad effetto che potrebbe far pensare a un pensiero totalmente nuovo, ritroviamo nel lavoro di Dominique Collin almeno due influenze. Una, come abbiamo visto, è quella del filosofo francese François Jullien di cui lui stesso ha consigliato la lettura e l’altra è quella del gesuita  Christoph Theobald e della sua opera più nota, Trasmettere un Vangelo di libertà. È in quest’opera che Theobald, come Collin, ci fa persuasi che il cristianesimo non è un messaggio religioso come tanti altri, ma “l’esperienza di una presenza gratuita e radicalmente buona al nostro fianco, capace di convincere della bontà della vita”, capace di farci percepire “la straordinaria complicità tra il Vangelo di Dio e il mistero della nostra esistenza umana”.

 

Donatella Coppi

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