Koinonia Febbraio 2020


Una testimonianza di Carlo Carlevaris*

 

AVEVAMO CAPITO

Le riflessioni dei primi preti operai italiani

 

Le motivazioni per assumere la condizione operaia per i preti operai italiani negli anni Sessanta sono state molto diverse dai successivi e attuali motivi che hanno spinto centinaia di sacerdoti ad andare al lavoro negli anni seguenti. Direi che nella nostra storia e nel variare del nostro collocarci a livello pastorale, ideologico, politico e di fede di questi vent’anni c’è il percorso storico dei cristiani che hanno imboccato la strada della militanza politica partendo dalla fede, dalla missionarietà della chiesa, dalla messa in discussione della unanimità ideologica e dell’unità politica dei cattolici.

Alcuni di noi sono partiti da lontano, da una fede tutta precisa e ideologizzata, dalla presenza tipica del sacerdote nella cristianità, dalla concezione tradizionale di difesa della società come difesa di valori cristiani immutabili identificati nelle scelte politiche del cattolico osservante e ossequiente. I successi dei “cristiani” nei tempi della ricostruzione e del boom economico degli anni Cinquanta, le prepotenze degli anni Sessanta in una logica di gestione del potere tutto “cristiano”, le crisi degli anni Settanta con la resa dei conti e la denuncia di uno squallore politico prevalentemente “cristiano”, hanno progressivamente demolito un tipo di fede, di cultura, di politica che, volendo essere “tutta’ cristiana e risposta “cristiana” a tutto, ha finito di trascinare nella crisi, nell’abbandono, nel rifiuto “tutto” il cristianesimo.

Quando abbiamo deciso di indossare la tuta, dopo molti anni di presenza tra i lavoratori come “cappellani”, “assistenti”, amici, non sapevamo che, assumendo la loro condizione, avremmo dovuto mettere in discussione tutto e accettare la provocazione della loro presenza storica che ci ha fatto scoprire “compagni”. Avevamo tuttavia capito alcune cose.

 

1) Avevamo scoperto l’altra gente, quella che non entra nelle nostre chiese, ci eravamo resi conto che erano la grande maggioranza e che non erano così privi di Cristo e di alcuni suoi valori fondamentali, come avevamo creduto.

 

2) Avevamo capito che il discorso della salvezza doveva passare per loro e attraverso di loro, e non nonostante loro, per gli altri: c’erano anch’essi su questo cammino faticoso di una umanità che va verso una figura di uomo sempre rinnovantesi secondo l’antico modello del Genesi: “Facciamo l’uomo a nostra immagine”. Per questo il volto dell’uomo ci è parso più ricco e più triste, più nostalgicamente privo di ciò che i cristiani non avevano saputo loro offrire in modo accettabile.

 

3) Avevamo capito che questa chiesa doveva aver sbagliato qualcosa nel suo atteggiamento, nella presentazione dell’immagine di sé, ma forse anche della immagine del Cristo: bisognava riprendere il messaggio, purificarlo di quanto il tempo e le culture avevano aggiunto e modificato adulterandolo o semplicemente rendendolo estemporaneo.

 

4) Ci eravamo resi conto che una teologia e una ecclesiologia diverse potevano essere strumento di mediazione più efficace per il passaggio della Parola all’uomo delle nostre fabbriche, dei nostri quartieri popolari.

 

5) Avevamo sentito tutta la costrizione e la conseguente rivolta circa la traduzione delle verità da credere in rispettabili, ma opinabili, discutibili e rifiutabili scelte politiche che costringevano i “poveri” a scegliere tra “i loro” e la chiesa e Cristo; “Voi preti per anni ci avete costretti a scegliere tra i nostri compagni con le loro lotte e Gesù Cristo: perché vi lamentate se tanti di noi hanno preferito battersi con i più deboli, anche se ci pareva impossibile che, stando con loro e rifiutando i vostri strumenti politici, saremmo stati abbandonati da Cristo!”: ho in mente questa frase di un’operaia della Michelin impegnata per anni nella fabbrica e sistematicamente contestata dalla sua comunità cristiana.

 

6) Ci eravamo resi conto che la grande speranza del “dopo” che aveva sorretto, consolato, ma anche alienato tanti cristiani, non era in opposizione e non negava il suscitare, il perseguire, il realizzare le piccole speranze del quotidiano. Cominciavamo a renderci conto del profondo legame tra la ricerca e la lotta collettiva per un libro in più, un posto letto in più, un alloggio in più, un militante in più, un diritto acquisito in più, e la promessa del “tutto” nel “dopo”: non erano in contraddizione, ma forse il possesso del “tutto” nel “dopo” era condizionato dall’impegno per la costruzione delle “piccole parti” qui e ora. Se è vero che il Regno non è la somma delle città risanate, l’impegno dell’uomo per la salvezza del suo fratello è la garanzia della propria salvezza e la risposta particolare che gli viene richiesta dal dono ricevuto della fede.

 

7) Avevamo capito che questa umanità fatta di povera gente, del popolo semplice, sempre sfruttato, spesso tradito dagli altri e a volte anche dai suoi, sempre considerato oggetto, strumento in mano ai pochi che contano, è il “povero” privilegiato dal Cristo, ma è anche il soggetto delle vere rivoluzioni, è il protagonista dei reali cambiamenti della società.

 

Ci pareva, in quei primi anni Sessanta, che queste cose pensate in solitudine, confrontate con pochi, vissute in qualche modo nei primi scontri con una chiesa ancora tanto sicura di sé, così identificata con il potere democristiano, tanto timorosa di quanto gli “altri” (i “lontani”) andavano contestando e realizzando in durissime lotte, ci pareva che avrebbero dovuto trovare modo di esprimersi in maniera da diventare patrimonio di tutti i cristiani, strumento di cambiamento radicale dell’atteggiamento dei cattolici.

 

Carlo Carlevaris

 

* Il n.3 del 2019 della rivista “Itinerari” offre per intero un’antologia di scritti di Carlo Carlevaris, rappresentativi della sua persona e della sua storia: storia prima di tutto di “prete operaio”, della cui amicizia e solidarietà abbiamo goduto anche noi. Scorrendo questi scritti, inevitabimente la nostra attenzione è andata ad un discorso che è in sintonia con la prospettiva di questo numero  e dà un apporto alla comprensione di un problema troppo facilmente rimosso: quello della esclusione o dell’abbandono di una chiesa di cristianità alla ricerca di una chiesa di umanità, nella quale siamo pienamente coinvolti. Poche parole per una lucida presa di coscienza.

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